mercoledì 31 dicembre 2008

La vita secondo Ippolit (Dostoevskij)

Nonostante ne abbia finito la lettura ormai da due mesi, L'idiota è un romanzo che ogni tanto mi viene voglia di riprendere, per rileggerne alcuni passi... oggi, in un accesso di pazzia, ne ho trascritto un brano, tratto dalla "Spiegazione" di Ippolit, nella terza parte. Eccola.

L’idea che non valga la pena vivere per qualche settimana ha cominciato a dominarmi penso un mese fa, quando mi rimanevano da vivere ancora quattro settimane, ma ha preso ad ossessionarmi solo tre giorni fa, la sera del mio ritorno da Pavlovsk. La prima comparsa immediata, precisa di un tale pensiero si è verificata sulla terrazza del principe, proprio nel momento in cui mi è venuto in mente di fare l’ultima prova di vita, volevo vedere la gente e gli alberi (ammettiamo pure che l’abbia detto io stesso). Ero molto infervorato, insistevo sui diritti di Burdovksij, “il mio prossimo”, e sognavo che tutti avrebbero aperto le braccia per accogliermi e chiedermi perdono, come avrei fatto io con loro, insomma ho terminato come un perfetto imbecille. In quelle ore è scoppiata in me la scintilla dell’ “ultima convinzione”. Mi meravigliavo di come avessi potuto vivere sei mesi interi senza questa “convinzione”! Sapevo per certo di avere la tisi e di essere incurabile, non tentavo di ingannare me stesso ed ero consapevole della mia situazione. Ma più ero consapevole della mia situazione, più acuto si faceva il mio desiderio di vivere, mi aggrappavo alla vita e desideravo vivere ad ogni costo. Ammetto di essermi adirato contro il destino perfido e impietoso che aveva disposto di schiacciarmi come una mosca, ovviamente senza uno scopo; perché allora non mi sono limitato a questa ira? Perché invece ho cominciato a vivere, sapendo di non avere nulla da incominciare, a provare sapendo che non c’era nulla da provare? Nel frattempo avevo anche smesso di leggere libri: a che serviva leggere, imparare per soli sei mesi? Più di una volta a questo pensiero ho abbandonato il libro che stavo leggendo.
Sì, il muro di Meyer potrebbe raccontarne delle belle! Vi ho annotato molte cose. Non c’era macchia su quel muro che io non conoscessi a fondo. Maledetto muro! Eppure esso mi è più caro di tutti gli alberi di Pavlovsk, cioè mi sarebbe più caro se tutto ora non mi fosse indifferente.
Ricordo ora con quanto avido interesse incominciai a seguire la loro vita, un interesse mai sperimentato prima. Aspettavo con impazienza, bestemmiando a volte, la visita di Kolja quando la mia malattia non mi consentiva più di uscire di casa. Mi informavo di tutti i particolari, mi interessavo di tutte le dicerie, proprio come un pettegolo. Non capivo, per esempio, come tutte le persone che hanno tanta vita dinanzi a sé non sappiano diventare ricche (peraltro non lo capisco neanche adesso). Conoscevo un mendicante del quale mi hanno poi riferito che è morto di inedia, mi ricordo ancora come la notizia mi mandò in bestia: se avessi potuto riportare in vita quel mendicante, lo avrei punito. A volte le mie condizioni miglioravano per intere settimane ed ero in grado di uscire; ma la strada mi faceva adirare così tanto che mi rinchiudevo in casa per giorni interi pur potendo uscire come tutti gli altri. Non potevo sopportare le persone che mi passavano accanto sul marciapiede trafelate, affaccendate, eternamente preoccupate, accigliate, inquiete. A che pro la loro eterna sofferenza,a che pro tanti affanni e preoccupazioni, e infine a che pro la loro accigliata cattiveria (perché sono cattivi, cattivi, cattivi)? Di chi è la colpa della loro incapacità di vivere, della loro infelicità nonostante li attendano circa sessant’anni di vita ciascuno? Come mai Zarnicyn si è lasciato morire di fame pur avendo dinanzi a sé sessanta anni di vita? E tutti quelli che mostrano i loro stracci, le mani callose, che si adirano ed urlano: “Noi lavoriamo come buoi, fatichiamo, e siamo affaticati e poveri come cani randagi! Gli altri non lavorano, non si sudano il pane e sono ricchi!” (L’eterno ritornello!). Insieme a loro corre e si affanna da mane a sera qualche disgraziato omiciattolo di “nobili” natali come Ivan Fomič Surikov, (abita nella nostra casa, al piano di sopra), sempre con i gomiti sdruciti, i bottoni mancanti. Fa il galoppino di qua e di là per commissioni dalla mattina presto alla sera tardi. Provate a parlare con lui: “sono povero, miserabile, bisognoso, mi è morta la moglie, non avevo i soldi per le medicine, d’inverno il bambino è morto assiderato, la figlia grande è andata a far la mantenuta…”, non fa che piangere e lamentarsi, sempre, sempre! Non ho mai provato pietà per questi poveri sciocchi, né la proverò mai, lo dico a testa alta! Perché non è un Rotschild anche lui? Di chi è la colpa se lui non ha i milioni come Rotschild, se non ha montagne di monete d’oro, montagne alte come a carnevale nei baracconi? Se ha la vita dinanzi a sé, è tutto in suo potere! Di chi è la colpa se lui stesso non si rende conto di questo?
O, adesso non me ne importa più niente, adesso non mi adiro più, ma allora, allora, ripeto, di notte mordevo letteralmente il cuscino e laceravo le coperte per la rabbia. Oh, come sognavo allora, come desideravo, agognavo che mi cacciassero per la strada a diciotto anni, coperto a mala pena e mi lasciassero completamente solo, senza una casa, senza un lavoro, senza un pezzo di pane, senza parenti, senza un solo conoscente in una città enorme, affamato, picchiato (tanto meglio!), ma sano, sano, allora avrei dimostrato…
Che cosa avrei dimostrato?
Oh, pensate che non sia consapevole di quanto mi sono umiliato con questa mia “Spiegazione”? Chi non mi considererà ora un meschino omiciattolo che non capisce niente della vita, dimenticando che non ho più diciotto anni e che vivere come ho fatto io in questi sei mesi, equivale a vivere fino a cent’anni! Ma che ridano pure dicendo che sono tutte favole. E in realtà mi sono raccontato delle favole. Ho riempito così notti intere, ora me le ricordo tutte.
Devo raccontarle ancora, ora che è passato anche per me il tempo delle favole? E a chi? Mi divertivano quando vedevo chiaramente la mia situazione, per esempio una volta mi venne in mente di studiare la grammatica greca, ma mi resi conto che non aveva senso: “non sarò arrivato neanche alla sintassi, che morirò”, pensai così e lasciai cadere il libro sotto il tavolo. Sta ancora lì, ho vietato a Matrëna di spostarlo.
A chi dovesse capitare per le mani la mia “Spiegazione”, e gli venisse la voglia di leggerla, dico questo: che mi consideri pure un pazzo, o anche uno studentello, o, più verosimilmente, un condannato a morte al quale sembra del tutto naturale affermare che tutti, tranne lui, disprezzano il valore della vita e che tutti la sprecano con molta leggerezza senza sfruttarla appieno, usandola con sconsideratezza e rivelandosene pertanto indegni, tutti nessuno escluso! Che la pensino pure così i potenziali lettori, ma io qui dichiaro che essi si sbagliano e che le mie convinzioni sono del tutto indipendenti dalla mia condanna a morte. Domandate, domandate pure a tutti in che cosa consiste per loro la felicità? E state certi che Colombo fu felice non quando scoprì l’America, ma quando viaggiava alla sua ricerca: state certi che il momento più intenso della sua felicità lo raggiunse forse tre giorni prima di raggiungere il Nuovo Mondo, quando l’equipaggio in rivolta per la disperazione lo per poco non fece rotta indietro, alla volta dell’Europa! A Colombo poco sarebbe importato del Nuovo Mondo anche se fosse sprofondato! Colombo morì quasi senza averlo visto, morì senza sapere che cosa avesse scoperto in realtà. Quel importava era la vita, solo la vita, quel che importava era la ricerca, incessante, eterna e nient’affatto la scoperta! Ma a che serve dire questo? Temo che tutte le mie parole suonino come luoghi comuni, temo che mi considerino uno studentello di prima che fa il temino sul “sorgere del sole”, oppure diranno che certo qualcosa volevo dirla, ma tutti i miei sforzi non sono bastati per… “spiegarmi”. Eppure aggiungerò che in ogni pensiero umano nuovo o geniale, oppure semplicemente in ogni serio pensiero umano che sorge nella testa di qualcuno, c’è sempre qualcosa che non si può trasmettere in alcun modo agli altri, anche se ci scriverete su interi tomi o disquisite sui vostri pensieri per trentacinque anni. Ci sarà sempre qualcosa che si rifiuterà di uscire dal vostro cranio e rimarrà dentro di voi per sempre e voi morirete senza essere riusciti a trasmettere a nessuno l’essenza della vostra idea. Ma se anch’io non dovessi riuscire a trasmettere tutto quello che mi ha tormentato in questi sei mesi, almeno gli altri avranno capito che raggiungendo la mia attuale “convinzione definitiva”, ho pagato un prezzo troppo alto. Ecco per me era indispensabile, per ragioni tutte mie, chiarire questo punto nella mia “Spiegazione”. Ora, però continuiamo.

tratto da Dostoevskij, L’idiota, parte III, cap. V

lunedì 29 dicembre 2008

Lontano, più lontano della vita (Luzi)

Lontano, più lontano della vita
quanto le cose possano tradire
e sorprendere la castità del pensiero
hai visto, hai dubitato, hai conosciuto,
quanto le cose possano ferire
e ingannare l'interna purità
hai visto, hai misurato anche dal sogno.
Il risveglio è la sera impetuosa,
è questo indizio d'anime esulate,
la rondine ne grida la freschezza.
Ah non è tardi se la notte incombe,
hai prima avuto il tempo di vedere
quanto le cose portino lontano,
quanto d'un tratto possano mancare
venir meno alla viva verità della mente.
Le strade, se le corri in quest'ora, sono sparse
di quegli uomini, no, di quelle larve
inquiete che ripetono la vita già vissuta,
vaghe nell'implacabile chiarezza
dei sentieri già visti e già percorsi,
e affrettano la morte per aprirsi
nell'ombra, per fuggire al conosciuto.
Ne vedesti venire nella notte
una luce minuscola dal fondo
a cercare accoglienza nell'amore.

giovedì 25 dicembre 2008

Kleiber dirige Beethoven

Carlos Kleiber dirige i Wiener Philarmoniker nell'esecuzione del quarto movimento della Settima di Beethoven. Veramente fantastico.

martedì 16 dicembre 2008

Giorgio Gaber - Una donna

Una donna fasciata in un abito elegante 
una donna che custodisce il bello 
una donna felice di essere serpente 
una donna infelice di essere questo e quello. 

Una donna che a dispetto degli uomini 
diffida di quelle cose bianche 
che sono le stelle e le lune 
una donna cui non piace la fedeltà del cane. 

Una donna nuova, appena nata 
antica e dignitosa come una regina 
una donna sicura e temuta 
una donna volgare come una padrona. 

Una donna così sospirata 
una donna che nasconde tutto 
nel suo incomprensibile interno 
e che invece è uno spirito chiaro come il giorno. 

Una donna, una donna, una donna. 

Una donna talmente normale 
che rischia di sembrare originale 
uno strano animale, debole e forte 
in armonia con tutto anche con la morte. 

Una donna così generosa 
una donna che sa accendere il fuoco 
che sa fare l’amore 
e che vuole un uomo concreto come un sognatore. 

Una donna, una donna, una donna. 

Una donna che resiste tenace 
una donna diversa e sempre uguale 
una donna eterna che crede nella specie 
una donna che si ostina ad essere immortale. 

Una donna che non conosce 
quella stupida emozione 
più o meno vanitosa 
una donna che nei salotti non fa la spiritosa. 

E se questo bisogno maledetto 
lasciasse in pace i suoi desideri 
e se non le facessero più effetto 
i finti amori dei corteggiatori 
allora ci sarebbero gli uomini 
e un mondo di donne talmente belle 
da non avere bisogno 
di affezionarsi alla menzogna del nostro sogno. 

Una donna, una donna, una donna. 
Una donna, una donna, una donna.

Giorgio Gaber - Il dilemma

In una spiaggia poco serena
Camminavano un uomo e una donna
E su di loro la vasta ombra del dilemma;
L'uomo era forse più audace,
Più stupido e conquistatore,
La donna aveva perdonato, non senza dolore.
Il dilemma era quello di sempre,
Un dilemma elementare:
Se aveva o non aveva senso il loro amore.

In una casa a picco sul mare
Vivevano un uomo e una donna,
E su di loro l'ombra del dilemma;
L'uomo è un animale quieto
Se vive nella sua tana,
La donna non si sa se è ingannevole, o divina;
Il dilemma rappresenta
L'equilibrio delle forze in campo
Perché l'amore e il litigio sono le forme del nostro tempo.

E il loro amore moriva,
Come quello di tutti,
Come una cosa normale e ricorrente;
Perché morire e far morire
È un'antica usanza che suole aver la gente.

Lui parlava quasi sempre
Di speranza e di paura
Come l'essenza della sua immagine futura;
E coltivava la sua smania,
E cercava la verità,
Lei lo ascoltava in silenzio, o forse ce l'aveva già;
Anche lui, curiosamente,
Come tutti, era nato da un ventre
Ma purtroppo non se lo ricorda, o forse non lo sa.

E in un giorno di primavera
Mentre lei non lo guardava
Lui rincorse lo sguardo di una fanciulla nuova;
E ancora oggi non si sa
Se era innocente come un animale
O se era come istupidito dalla vanità;
Ma stranamente lei si chiese
Se non fosse un'altra volta il caso
Di amarlo, di restare fedele al proprio sposo.

E il loro amore moriva
Come quello di tutti,
Con le parole che ognuno sa a memoria;
Sapevan piangere e soffrire
Ma senza dar la colpa
All'epoca, o alla storia...

Questa voglia di non lasciarsi
Era difficile da giudicare,
Non si sa se è una cosa vecchia, o se fa piacere;
Ai momenti di abbandono
Alternavano le fatiche
Con la gran tenacia che è propria delle cose antiche;
E questo è il succo di questa storia,
Peraltro senza importanza
Che si potrebbe chiamare appunto: Resistenza.

Forse il ricordo di quel maggio
Insegnò anche nel fallire
ll senso del rigore, il culto del coraggio;
E rifiutarono decisamente
Le nostre idee di libertà in amore,
A quella scelta non si seppero adattare;
Non so se dire a questa nostra scelta
O a questa nostra nuova sorte,
So soltanto che loro si diedero la morte.

E il loro amore moriva
Come quello di tutti,
Non per una cosa astratta, come la famiglia,
Loro scelsero la morte
Per una cosa vera,
Come la famiglia...

Io ci vorrei vedere più chiaro,
Rivisitare il loro percorso,
Le coraggiose battaglie che avevano vinto o perso;
Vorrei riuscire a penetrare
Nel mistero di un uomo e di una donna,
Nell'immenso labirinto di quel dilemma.
Forse quel gesto disperato
Potrebbe anche rivelare
Il segno di qualcosa che stiamo per capire.

E il loro amore moriva
Come quello di tutti,
Come una cosa normale e ricorrente;
Perché morire e far morire
È un'antica usanza
Che suole aver la gente.

lunedì 8 dicembre 2008

"Voglio custodirti con attenzione..."

Voglio custodirti con attenzione,
voglio vivere qui
per te,
voglio sacrificarmi subito per te.
Voglio finalmente essere con te,
pieno di gioia,
senza tempo,
là, nell’altra vita.

(testo dell'Oratorio di Natale di J.S. Bach, XXXIII, Corale)

domenica 30 novembre 2008

Sinergie elastiche

In mezzo alla folla di gente comune si distingue un cappello arancione, già di per sé alquanto particolare, ma che si nota particolarmente in quanto poggiato su arruffati capelli biondi di una sinforosa indifferente. Ma dico, ti sembra il caso di mettere un cappello del genere? E quella, colla pelliccia! E poi una bambina, coi suoi codini gialli che se ne frega, si gratta la pancia e si guarda intorno senza notare niente. Queste sono situazioni precise, determinate da una serie di fattori educativi, contestuali, storici, sociali, politici, relazionali, paraestetici. E non sono solo io a dirlo, lo dice anche il Papa. Del resto, un giovane – immaginate, un giovane maldestro poco e male educato (per ragioni educative, contestuali, storiche, sociali eccetera), cosa credete che farà con la sua combriccola di scapestrati quando tireranno la coda a un gatto e un vecchio, passando, li ammonirà, se non suscitare un cachinno sardonico nei confronti del vecchio vittima di demenza senile, forse, o comunque certo di una gobba spropositata ed inusuale che lo rende buffo buffo alquanto se non addirittura grottesco? Eppure lo stesso vecchio (vittima di demenza senile o solo di una gobba pronunciata e grottesca) poco dopo incontrerà di certo un distinto signore indistinguibile vestito di un lungo-fino-a-sopra-le-ginocchia impermeabile verde-acqua, con pantaloni e scarpe marroni e un cappello sicuramente non arancione. Sugli occhi occhiali da sole per il vento. E questi gli dirà: «Buonasera signore!» nonostante non saranno passate ancora le due pomeridiane. Il vecchio mugugnerà qualcosa. E basta. Sinergie elastiche, mi pare, determinanti relazioni ed avvenimenti di questo tipo (ho usato banali esempi tratti dalla esperienza comune) non solo per ragioni educative, contestuali, storiche, sociali eccetera ma in un certo senso per una ragione che trascende la semplice comprensione degli avvenimenti da parte dell’uomo. Per dirla con le parole del Poeta, è come se tutto vegliasse sul vento che vaglia, ed è proprio da queste considerazioni, spero condivisibili, che si capisce, sempre dicendola col Poeta, come dal susseguirsi degli avvenimenti casuali o necessari si colga il rumblare dell’esistenza dell’uomo in senso lato (quando si dice l’efficacia dell’onomatopea!). Ed è proprio il rùmblio che spesso spaventa ed incide negativamente sulla possibilità soggettiva di repressione degli istinti impulsivi forse più adatti ad un ragazzetto della foresta amazzonica che a un civile borghese. Nessun torto agli amazzonici, per carità, che se sono come sono lo sono per ragioni che da loro non dipendono e si riducono essenzialmente a cause educative, contestuali, storiche, sociopolitiche eccetera.
E’ naturale, io capisco, che ciascuno di noi si ponga delle domande. Ma darsi delle risposte è difficile. Per questo io cerco di giustificare le relazioni interpersonali, comunitarie, internazionali e quandanche mondiali con una sorta di sinergismo elastico, appunto. Del resto, mi pare una spiegazione plausibile che non contraddice in nulla l’esperienza quotidiana (e gli esempi precedenti lo dimostrano, anche se ridotti ad un ambito ristretto, se ne potrebbero fare altri), ma anzi ne danno credito e sostegno, cosa che io ritengo assimilabile a una forma per lo meno embrionale di giustificazione. Certo un cappello arancione turba (pur rimanendo un cappello arancione e non una turba), ma in fondo non credo ci sia granchè da preoccuparsi: sarà – che so – una qualche nuova moda che ancora non si è diffusa capillarmente tra le persone oppure una voglia di anticonformismo (che poi tanto se lo leva e si sistema i capelli, quella donna!); sia come sia, si tratta comunque di una sinergia determinata da cause educative, contestuali, storiche, sociali, politiche, relazionali, paraestetiche eccetera eccetera eccetera…

martedì 25 novembre 2008

Tutti li miei penser

Tutti li miei penser parlan d’Amore;
e hanno in lor sì gran varietate,
ch' altro mi fa voler sua potestate,
altro folle ragiona il suo valore,

altro sperando m’apporta dolzore,
altro pianger mi fa spesse fiate;
e sol s’accordano in cherer pietate,
tremando di paura che è nel core.

Ond’io non so da qual matera prenda;
e vorrei dire, e non so ch’io mi dica:
così mo trovo in amorosa erranza!

E se con tutti voi fare accordanza,
convenemi chiamar la mia nemica,
madonna la Pietà, che mi difenda.

Dante Alighieri, Vita Nuova, XIII

domenica 16 novembre 2008

La formica argentina

Invasione di formiche argentine, povertà, disperazione, travaglio.

Così arrivammo al porto e c’era il mare. C’era una fila di palme, e delle panche in pietra: io e mia moglie sedemmo e il bambino era quieto. Mia moglie disse: - Qui non c’è formiche -. Io dissi: - E c’è un bel fresco: si sta bene.

Il mare andava su e giù contro gli scogli del molo, muovendo quelle barche dette “gozzi”, e uomini dalla pelle oscura le riempivano di rosse reti e nasse per la pesca serale. L’acqua era calma, con appena uno scambiarsi continuo di colori, azzurro e nero, sempre più fitto quanto più lontano. Io pensavo alle distanze d’acqua così, agli infiniti granelli di sabbia sottile giù nel fondo, dove la corrente posa gusci bianchi di conchiglie puliti dalle onde.


Italo Calvino, La formica argentina

venerdì 14 novembre 2008

Una via di mezzo

...E con amarezza considerava come tutta la sua vita fosse stata così: niente in fondo gli era mancato ma ogni cosa sempre inferiore al desiderio, una via di mezzo che spegneva il bisogno, mai gli aveva dato piena gioia...


da Dino Buzzati, Il borghese stregato

mercoledì 12 novembre 2008

Il popolo

"Chi disse uno popolo disse veramente uno animale pazzo, pieno di mille errori, di mille confusione, sanza gusto, sanze deletto, sanza stabilità.".

"Non biasimo e' digiuni, le orazione e simile opere pie che ci sono ordinate dalla Chisa o ricordate da' frati. Ma el bene de' beni è - e a comparazione di questo tutti gli altri sono leggieri - non nuocere a alcuno, giovare in quanto tu puoi a ciascuno."

"Quando io considero a quanti accidenti e pericoli di infirmità, di caso, di violenza e in modi infiniti, è sottoposta la vita dell'uomo, quante cose bisogna concorrino nello anno a volere che la ricolta sia buona, non è cosa di che io mi meravigli più che vedere uno uomo vecchio, uno anno fertile."

Guicciardini, Ricordi

mercoledì 5 novembre 2008

Il banchetto (PFM)

Sire, Maesta
Riverenti come sempre siam tutti qua
Sire, Siamo Noi
Il poeta, L'assassino E Sua santita
Tutti, Fedeli Amici Tuoi.
ah... Maesta

Prego, Amici Miei,
Lo Sapete Non So Stare Senza Di Voi
Presto, Sedetevi,
Al Banchetto Attendevamo soltanto voi
Sempre Ogni Giorno Che verra
Finche Amore E pace regnera.

Tutti Sorridono
Solo Il popolo Non ride, ma lo si sa
Sempre Piagnucola
Non Gli va mai bene niente chissa perche,
Chissa perche perche ecc. ecc. ...

domenica 26 ottobre 2008

Sognare le montagne

Ho trovato nella mia cartella sul computer il seguente testo, che penso di aver scritto a maggio scorso. L'avevo dimenticato completamente ed in effetti non è un granché, ma lo riporto.


Non ne parlavo mai con nessuno, solo accennavo distrattamente qualche volta, ma ho sempre avuto una segreta passione per le montagne. Dietro le colline basse, c’è sempre un secondo piano innevato che si mimetizza col cielo e le sue nuvole bianche illuminate dal sole e sembra perdersi nell’infinita distesa azzurra. Senza quelle vette, chissà dove finirebbe l’orizzonte: forse non esisterebbe. Qualche volta mi immaginavo lassù, a guardare tutto dall’alto, nascosto in mezzo alle rocce e lontano da tutti. La montagna era un desiderio di realizzazione e al contempo di evasione, di distacco. Mi capitava di parlare delle montagne e quando dicevo che mi sarebbe piaciuto raggiungerle, tutti dicevano che la vita è altro e che non si può. Io sorridevo e davo loro ragione, ma quando rimanevo da solo, mi ritrovavo ferito e mi convincevo di nuovo nei miei desideri e odiavo chi cercava di farli sparire. Restavo anche per molto tempo, seduto sul letto a ripetermi nella mente tutte le ragioni, quasi volessi convincere me stesso che non sbagliavo, e ne dubitassi. Ogni espressione e tono di voce mi tornava alla mente e cercavo di confutare qui fastidiosi discorsi, gridando con rabbia nel silenzio e chiedendomi come faccia la gente a pensarlo davvero e a vivere così. Forse ero soltanto io, e le montagne erano solo un orizzonte nella mia fantasia, però io vivevo di quello e la gente se ne accorgeva. Qualche volta mi fermavo a guardare attraverso la finestra quei paesaggi e tutti mi guardavano torvi e qualche volta mi dicevano di smetterla, perché non si può vivere in un mondo immaginario inseguendo strade immaginarie. Eppure ero convinto che quel mondo esistesse davvero e fosse anche più bello, ma non potevo certo mettermi a raccontarlo. Allora incontravo i miei amici, si parlava e si scherzava, bevendo una birra e raccontando le cose strane o belle che ci erano accadute. Altre volte invece, io pensavo alle montagne, e camminavo con un amico senza parlare troppo, guardando in basso e sospirando. Anche lui pensava a qualcosa e la presenza era in quei momenti più importante del dialogo, perché si poteva condividere tutto quel silenzio, carico di pensieri, di sogni, di delusioni. Quei momenti per me erano preziosi perché non contava più niente, e potevo immergermi senza fastidi nei miei pensieri. Anche se non raccontavo mai tutto perché mi sarebbe stato impossibile, queste persone sembrava che mi capissero, o per lo meno mi davano ragione. Sono sicuro che non era per farmi contento, anzi credo che anche loro sognassero le loro montagne; una tacita intesa mi rendeva più tranquillo e mi permetteva di riprendermi i sogni e di continuare a costruirli lentamente.

sabato 25 ottobre 2008

More. Alcuni punti della politica

Ecco alcune citazione tratte da Utopia di Thomas More, di cui non indico nè edizione nè pagina perché è un libro che va interamente letto. I seguenti concetti sono tutti relativi alla politica.

«Per dirvi chiaramente come la penso, mio caro More, io non credo che ci possano essere vera giustizia e reale prosperità finché sussiste la proprietà privata e il denaro rimane il fondamento di ogni cosa. A meno che non si pensi che si agisca con giustizia laddove le persone peggiori sono le sole a vivere agiatamente e che si ritenga fiorente uno Stato i cui beni sono concentrati nella mani di una stretta minoranza. Considerate poi che nemmeno costoro sono pienamente felici, vivendo gli altri nella miseria più nera.
(…)
[Platone], uomo sapiente, capiva chiaramente che l’equa distribuzione dei beni è la condizione sine qua non perché un paese sia ben governato ed è evidente che ciò non si può realizzare in uno Stato in cui i beni sono proprietà di singole persone. Infatti, quando tutti cercano di arraffare quanto più possibile, va a finire che, per quanto numerosi siano i beni, essi finiscono nelle mani di pochi privilegiati: il che significa che gli altri rimangono poveri.
Accade così che le persone ricevono in proporzione inversa rispetto al merito (…).»

«Dove ciò che conta è il denaro, numerose fioriscono le professioni necessarie solo al lusso e al superfluo.»

«E, a ben pensarci, perché si dovrebbe pagare? Nel paese [in Utopia] c’è abbondanza di ogni cosa e nessuno chiederebbe più del necessario, dato che tutti sono sicuri che non mancheranno mai di nulla. Infatti, è la paura di non avere il necessario che rende rapaci e bramosi di accaparrare; ciò è evidente in tutti gli esseri viventi, mentre nell’uomo questo atteggiamento è il prodotto della vanagloria, della convinzione che uno sia superiore agli altri se solo può ostentare il superfluo. »

«Senza il ferro, il fuoco e l’acqua la vita dell’uomo sarebbe impossibile, mentre la stessa cosa non si può dire per l’oro e l’argento, rilevanti solo in relazione al concetto di rarità che la follia umana ha inventato.»


«Quando il favoritismo e la cupidigia prendono il potere, la giustizia, fondamento dello Stato, è distrutta.»

«[Gli Utopiani] detestano profondamente la guerra e la considerano un’attività subumana, indegna dell’uomo, che pur la pratica più sovente degli animali stessi.
Gli abitanti di Utopia sono, infatti, praticamente gli unici sulla Terra a non vedere nella guerra alcunché di glorioso.
Uomini e donne si impegnano, a intervalli regolari, nell’addestramento militare, in modo da essere in grado di combattere, nel caso ciò fosse necessario, ma non vanno mai in guerra, se non per autodifesa, per respingere gli invasori da territori nemici o per liberare un popolo vittima della tirannide. E fanno ciò mossi dallo spirito di compassione.»

«Ovunque la gente parla dei diritti di tutti, ma in verità ciò che sta a cuore a ognuno è esclusivamente il proprio interesse. In Utopia, dove non esiste la proprietà individuale, i cittadini si preoccupano sul serio delle questioni che riguardano tutti(…). Altrove ogni persona sa che se non si preoccupa in prima persona dei propri affari, per quanto fiorente sia lo Stato, farà brutta fine e, di conseguenza, è costretta a dare l’assoluta priorità ai propri interessi, non prendendosi affatto a cuore il bene della comunità. Invece in Utopia, dove tutto è di tutti, nessuno teme che gli venga a mancare qualcosa, a patto che le riserve comuni siano sempre abbondanti. Ognuno fa la sua parte e nessuno vive in povertà o costretto a mendicare per vivere. Nessuno possiede qualcosa che sia suo, ma tutti sono ricchi, perché non ci può essere ricchezza più grande che vivere con animo lieto e sereno.»

lunedì 20 ottobre 2008

Solidarietà per Saviano

'Penso di aver diritto a una pausa. Ho pensato, in questo tempo, che cedere alla tentazione di indietreggiare non fosse una gran buona idea, non fosse soprattutto intelligente. Ho creduto che fosse assai stupido - oltre che indecente - rinunciare a se stessi, lasciarsi piegare da uomini di niente, gente che disprezzi per quel che pensa, per come agisce, per come vive, per quel che è nella più intima delle fibre ma, in questo momento, non vedo alcuna ragione per ostinarmi a vivere in questo modo, come prigioniero di me stesso, del mio libro, del mio successo. 'Fanculo il successo. Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto ventotto anni! E voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere perché è quella la mia passione e la mia resistenza e io, per scrivere, ho bisogno di affondare le mani nella realtà, strofinarmela addosso, sentirne l'odore e il sudore e non vivere, come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri - oggi qui, domani lontano duecento chilometri - spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita. Me le ripeto una a una, silenziosamente, tra me'.

Roberto Saviano

Se sei di Cuneo, vedi qui: http://peanopellico.forumfree.net/?t=33361378&st=0#entry276886721

sabato 18 ottobre 2008

Prima mangiare poi si prega

-Se ti mancasse la pagnotta, - dissi, - chiederesti di meno.
-Ma ce l'ho, - disse Momina ghignando. - Ce l'ho, la pagnotta. Che cosa posso farci se ce l'ho?
Rosetta disse che anche i frati nei conventi rinunciano a tutto ma non alla pagnotta.
-Siamo tutti così, - dissi. - Prima mangiare poi si prega.

"Pensavo com'è il mondo"

"Pensavo com'è il mondo, che tutti lavoriamo per non più lavorare ma se qualcuno non lavora ci fa rabbia."

"Ho conociuto una cassiera a Roma - dissi, - che a forza di vedersi allo specchio, lo specchio dietro il banco, diventò pazza... Credeva di essere un' altra.
Momina disse: -Bisognerebbe vedersi allo specchio... Tu Rosetta non hai avuto il coraggio..."

Le puttane non godono mai, - disse Momina. Anche Rosetta sussultò.
-Chi più puttana della Nene? - continuò Momina. - E' intelligente, ha il mestiere sulla punta delle dita, e tutto il temperamento che una scultrice può avere. Perché non fa soltanto questo? E invece no. Deve vestirsi da bambina, innamorarsi, sbronzarsi. Un bel giorno farà anche un figlio. Si è fatta la faccia... Lei crede che gli altri ci credano.
-Sei cattiva, - disse Rosetta.
-Momina ha ragione - brontolai. - Conta il lavoro non il modo.
-Non so quel che conta, - disse Momina. Ci guardò quasi sorpresa, ingenua. - Ho paura che niente conti. Tutte siamo puttane.

(vedi post prec.)

Una donna sola

Quando fui sola, dentro l'acqua tiepida, chiusi gli occhi irritata perché avevo parlato troppo e non ne valeva la pena. Più mi convinco che far parole non serve, più mi succede di parlare. Specialmente fra donne. Ma la stanchezza e quel po' di febbre si disciolsero presto nell'acqua e ripensai l'ultima volta ch'ero stata a Torino - durante la guerra - l'indomani di un'incursione: tutti i tubi eran saltati, niente bagno. Ci ripensai con gratitudine: finché la vita aveva un bagno, valeva la pena di vivere.
Un bagno e una sigaretta. Mentre fumavo con la mano a fior d'acqua, confrontai lo sciacquio, che mi cullava, coi giorni agitati che avevo veduto, col tumulto di tante parole, con le mie smanie, coi progetti che avevo sempre realizzato eppure stasera si riducevano a quella vasca e quel tepore. Ero stata ambiziosa? Rividi le facce ambiziose: facce pallide, segnate, convulse - ce n'era qualcuna che si fosse distesa in un'ora di pace? Nemmeno morendo quella passione s'allentava. A me pareva di non essermi mai rilassata un momento. Forse vent'anni prima, quand'ero ancora una bambina, quando giocavo per le strade e aspettavo col batticuore la stagione dei coriandoli, dei baracconi e delle maschere, forse allora mi ero potuta abbandonare. Ma in quegli anni per me carnevale non voleva dir altro se non giostre, torrone e nasi di cartapesta. Poi, con la smania di uscire, di vedere, di correre per Torino, con le prime scappate nei vicoli insieme a Carlotta e alle altre, col batticuore di sentirci per la prima volta inseguite, anche quest'innocenza era finita. Strana cosa. La sera del giovedì grasso, quando papà s'era aggravato, per poi morire, io piansi di rabbia e l'odiai pensando alla festa che perdevo. Soltanto la mamma mi capiì quella sera, e mi prese in giro e mi disse di levarmi dai piedi, di andare a piangere in cortile da Carlotta. Ma io piangevo perché il fatto che papà fosse per morie mi spaventava e m'impediva dentro di abbandonarmi al carnevale.
Squillò il telefono. Non mi mossi dalla vasca, perch'ero felice con la mia sigaretta e pensavo che probabilmente proprio in quella sera lontana m'ero detto la prima volta che se volevo far qualcosa, ottenere qualcosa dalla vita, non dovevo legarmi a nessuno, dipendere da nessuno, com'ero legata a quell'importuno papà. E c'ero riuscita e adesso tutto il mio piacere era disciogliermi in quell'acqua e non rispondere al telefono.
Questo riprese, dopo un poco, e pareva irritato. Non ci andai ma uscii dall'acqua. M'asciugai lentamente, seduta nell'accappatoio, e stavo spalmandomi una crema intorno alla bocca quando bussarono. - Chi è?
-Un biglietto per la signora.
-Ho detto che non ci sono.
-Il signore insiste.
Mi toccò alzarmi e girare la chiave. La veneta impertinente mi tese il biglietto. Lo scorsi e dissi alla ragazza:
-Non veglio vederlo. Ritorni domani.
-La signora non scende?
Mi sentivo la faccia impiastrata, non potevo nemmeno farle una smorfia. Dissi: - Non scendo. Voglio un tè. Digli domani a mezzogiorno.

tratto da Tra donne sole, Cesare Pavese, 1949

domenica 12 ottobre 2008

Da "Il lamento della pace" di Erasmo da Rotterdam

Quid humana vita fragilius, quid brevius? Quot ea morbis, quot casibus obnoxia. Et tamen cum plus habeat ex sese malorum, quam ut ferri possit, tamen maximam malorum partem ipsi sibi accersunt dementes. Tanta caecitas humanos animos occupat, ut nihil horum perspiciat, sic praecipites aguntur, ut omnia naturae Christique vincula, omnia foedera rumpat, dissicent, diffringat. Pugnant passim atque assidue, nec modus nec finis. Colliditur gens cum gente, civitas cum civitate, factio cum faccione, princeps cum principe, et ob quorum homuncionum, qui mox velut ephemera sint interituri, seu stulticam seu ambitionem res humanae sursum ac deorsum miscentur.

Che c’è di più fragile della via umana, che c’è di più breve? A quante malattie, a quanti casi è soggetta! Eppure, malgrado essa rechi per conto suo molti più mali di quanti se ne possano sopportare, tuttavia sono gli uomini, nella loro follia, a procurarsi da sé stessi la massima parte dei propri mali. Una tale cecità ottenebra gli animi umani, che essi non ne scorgono nemmeno una; la loro condotta è così sconsiderata, che rompono, spezzano e infrangono ogni vincolo e ogni patto, di natura e di Cristo. Combattono dappertutto e senza sosta, senza darsi né una misura né un termine. Una nazione è in urto con un’altra nazione, una città con un’altra città, una fazione con un’altra fazione, un principe con un altro principe, e a causa vuoi della stoltezza vuoi dell’ambizione di due omuncoli destinati a morire entro breve, effimeri come sono, le sorti di questo mondo sono sconquassate da cima a fondo.

Erasmo da Rotterdam, Il lamento della pace, a cura di Federico Cinti, Bur, Milano, 2005, pp. 122-23

domenica 5 ottobre 2008

"...è dunque davvero possibile essere infelici? Che cosa significano il mio dolore e la mia disgrazia se sono in grado di essere felice? Sapete, non capisco come si possa passare accanto ad un albero e non essere felice di vederlo. Parlare con una persona e non essere felice di amarla! Oh, io non lo so esprimere... quante cose belle si incontrano ad ogni passo, cose così belle che anche l'uomo più abietto le apprezza? Guardate un bambino, guardate l'alba divina, guardate l'erba, come cresce, guardate negli occhi che vi guardano e vi amano..."

da L'idiota, parte IV (ed. Garzanti p. 640)

Da "Ossi di seppia"

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.


--
Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.

--

Da "Quaderno di quattro anni"

Spenta l’identità
si può essere vivi
nella neutralità
della pigna svuotata dei pinòli
e ignara che l’attende il forno.
Attenderà forse giorno dopo giorno
senza sapere di essere se stessa.

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Un sogno, uno dei tanti


Il sogno che si ripete è che non ricordo più
il mio indirizzo e corro per rincasare
È notte, la valigia che porto è pesante
e mi cammina accanto un Arturo
molto introdotto in ville di famose lesbiane
e anche lui reputato per i suoi tanti meriti
Vorrebbe certo soccorrermi in tale congiuntura
ma mi fa anche notare che non ha tempo da perdere
Egli abita a sinistra io tiro per la destra
ma non so se sia giusta la strada il numero la città
Anche il mio nome m’è dubbio, quello di chi attualmente
mi ospita padre fratello parente più o meno lontano
mi frulla vorticoso nella mente, vi si affaccia persino
un tavolo una poltrona una barba di antenato
l’intera collezione di un’orrenda rivista teatrale
le dieci o dodici rampe di scale dove una zia d’acquisto
fu alzata tra le braccia di un cattivo tenore
e giurò da quel giorno che gli ascensori erano inutili
a donne del suo rango e delle sue forme
(invero spaventevoli) tutto mi è vivo e presente
fuorché la porta a cui potrò bussare
senza sentirmi dire vada a farsi f-
Forse potrei tentare da un apposito chiosco
un telefonico approccio ma dove trovare il gettone
e a quale numero poi? mentre che Arturo si scusa
e dice che di troppo si è allontanato dalla
sua via del Pellegrino di cui beato lui ha ricordo
Lo strano è che in tali frangenti non mi dico mai
come il vecchio profeta Enrico lo Spaventacchio
che il legno del mio rocchetto mostra il bianco
e non avranno senso i miei guai anagrafici e residenziali
Mi seggo su un paracarro o sulla pesante valigia
in attesa che si apra nel buio una porticina
e che una voce mi dica entri pure si paga anticipato
troverà la latrina nel ballatoio al terzo piano
svolti a destra poi giri a sinistra Ma di qui
comincia appena il risveglio

giovedì 2 ottobre 2008

No, meglio che la religione la lasciamo stare

"E' più probabile che la vita futura esista e che noi non comprendiamo le leggi che la governano. Ma se è così difficile e addirittura impossibile comprendere, dovrò forse rispondere per il fatto che non è nelle mie forze concepire l'incomprensibile? E' vero, diranno (...), che proprio in questo caso la sottomissione è necessaria, perché bisogna ubbidire senza stare a chiedere spiegazioni, perché è bene così, e per la mia mansuetudine sarò senz'altro ricompensato nella vita futura. Sottovalutiamo troppo la Provvidenza, attribuendole i nostri pensieri per il dispetto di non riuscire a comprenderla. Ma siamo sempre allo stesso punto, se è impossible comprendere la Provvidenza, allora, lo ripeto, non si può neanche rispondere per quello che all'uomo non è dato di comprendere. Allora come potrò essere condannato perché non ho potuto comprendere l'autentica volontà e le leggi della Provvidenza? No, meglio che la religione la lasciamo stare."

tratto da Dostoevskij, L'idiota, parte III (ed. Garzanti, p. 481)

giovedì 25 settembre 2008

Clandestini per forza


Il permesso di soggiorno, che permette agli immigrati di vivere regolarmente nel nostro Paese, è soggetto a scadenza e va perciò rinnovato. C’è però un problema: il rinnovo del permesso occupa tempi inspiegabilmente lunghissimi ed accade che quando il Poligrafo dello Stato restituisce il permesso al cittadino, è già scaduto. Le domande di rinnovo presentate dal 2006 ad oggi, secondo il dipartimento immigrazione della Cgil, sono un milione e seicento mila, ma soltanto trecento mila per ora sono stati rinnovati. E si noti che, per legge, il Poligrafo non può stampare permessi scaduti, per cui non vengono proprio prodotti, in attesa di “determinazioni ministeriali”. La situazione era nota al governo già dalla primavera, eppure nel maggio scorso è stato approvato un pacchetto sicurezza che costituisce un ulteriore mazzata sulla testa degli immigrati. Infatti tale legge prevede ammende affatto consistenti per chi, ad esempio, affitta un appartamento ad un immigrato senza regolare permesso di soggiorno, e tende di conseguenza ad aumentare spropositatamente il prezzo o a fargli perdere la casa se questi, dopo mesi che ci abitava, diventa clandestino; oppure per l’imprenditore che, con la scusa dei rischi che, effettivamente, corre (denuncia per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, anche se in realtà si sta solo aspettando il rinnovo richiesto), finisce facilmente per assumere lavoratori in nero, con stipendi più bassi, con scarse o assenti misure di sicurezza. E spesso il lavoro nero equivale allo sfruttamento. Questo, grazie al sindacato, non avviene ancora ai lavoratori precedentemente assunti, ma nei casi di rinnovo del contratto o ricerca di un nuovo lavoro, l’assunzione è impossibile. L’immigrato in una situazione del genere, non può nemmeno ottenere un mutuo da una banca. Nel frattempo, Bossi e Fini, hanno ridotto la validità dei permessi da quattro anni a uno, massimo due. Così si può essere quasi certi che le domande di rinnovo presentate nel 2008, usciranno già scadute. Nonostante questa inefficienza, nelle casse delle poste e dello Stato sono arrivati, complessivamente, dal 2006, 115 milioni 392 mila euro, considerando che ogni persona che richiede il rinnovo, tra una cosa e l’altra spende circa 72 euro. La Cgil stima che di permessi ne scadano 22 mila ogni settimana e, prima o poi, tutti gli immigrati attualmente regolari dovranno farselo rinnovare. La difficoltà conseguente di lavorare e di vivere, non facilita certo l’integrazione, ma l’emarginazione e tutto ciò che ne consegue; è mancanza di rispetto di basilari diritti dell’uomo e contrario al principio di uguaglianza tra tutti i cittadini. Il sindacato ha da tre mesi chiesto un incontro al ministro Maroni, ma senza ricevere risposta. Per farci sentire al sicuro mettono i militari lungo le strade delle città, ma quei poveri cittadini impossibilitati a lavorare da uno stato di obbligata clandestinità, difficile che possano diventare cittadini esattamente onesti. Del resto, anche loro devono vivere; lo Stato non dovrebbe ostacolarli, ma favorirli, anche perché il lavoro degli immigrati è necessario. Intanto l’indifferenza o, peggio, la discriminazione e l’ostilità nei confronti dei “diversi” viene fomentata da cretini che gridano agli immigrati che «vadano a pregare e a pisciare nel deserto». Forse non è proprio il miglior indice di civiltà.

domenica 21 settembre 2008

a S.

a S.

....

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma,
e che il tuo aspetto s'insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d'una giovinetta palma...

martedì 16 settembre 2008

Goodbye, Richard....

E' morto ieri Richard Wright, storico tastierista dei Pink Floyd. Ora il gruppo non esiste più, entrano nella storia, di cui costituiranno sempre un pezzo fondamentale e imprescindibile per il rock.

Summer Elegy (by Richard Wright)



sabato 13 settembre 2008

L'isola

L’isola

di Cesare Pavese

da “Dialoghi con Leucò”

Tutti sanno che Odisseo naufrago, sulla via del ritorno, restò nove anni sull’isola Ogigia, dove non c’era che Calipso, antica dea.

(parlano Calipso e Odisseo)

C. Odisseo, non c’è nulla di molto diverso. Anche tu come me vuoi fermarti su un’isola. Hai veduto e patito ogni cosa. Io forse un giorno ti dirò quel che ho patito. Tutti e due siamo stanchi di un grosso destino. Perché continuare? Che t’importa che l’isola non sia quella che cercavi? Qui mai nulla succede. C’è un po’ di terra e un orizzonte. Qui puoi vivere sempre.

O. Una vita immortale.

C. Immortale è chi accetta l’istante. Chi non conosce più un domani. Ma se ti piace la parola, dilla. Tu sei davvero a questo punto.

O. Io credevo immortale chi non teme la morte.

C. Chi non spera di vivere. Certo, quasi lo sei. Hai patito molto anche tu. Ma perché questa smania di tornartene a casa? Sei ancora inquieto. Perché i discorsi che da solo vai facendo tra gli scogli?

O. Se domani io partissi tu saresti infelice?

C. Vuoi saper troppo, caro. Diciamo che sono immortale. Ma se tu non rinunci ai tuoi ricordi e ai sogni, se non deponi la smania e non accetti l’orizzonte, non uscirai dal destino che conosci.

O. Si tratta sempre di accettare un orizzonte. E ottenere che cosa?

C. Ma posare la testa e tacere, Odisseo. Ti sei mai chiesto perché anche noi cerchiamo il sonno? Ti sei mai chiesto dove vanno i vecchi dèi che il mondo ignora? Perché sprofondano nel tempo, come le pietre nella terra, loro che pure sono eterni? E chi son io, chi è Calipso?

O. Ti ho chiesto se sei felice.

C. Non è questo, Odisseo. L’aria, anche l’aria di quest’isola deserta, che adesso vibra solamente dei rimbombi del mare e di stridi d’uccelli, è troppo vuota. In questo vuoto non c’è nulla da rimpiangere, bada. Ma non senti anche tu certi giorni un silenzio, un arresto, che è come la traccia di un’antica tensione e presenza scomparse?

O. Dunque anche tu parli agli scogli?

C. È un silenzio, ti dico. Una cosa remota e quasi morta. Quello che è stato e non sarà mai più. Nel vecchio mondo degli dèi quando un mio gesto era destino. Ebbi nomi paurosi, Odisseo. La terra e il mare mi obbedivano. Poi mi stancai; passò del tempo, non mi volli più muovere. Qualcuna di noi resisté ai nuovi dèi; lasciai che i nomi sprofondassero nel tempo; tutto mutò e rimase uguale; non valeva la pena di contendere ai nuovi il destino. Ormai sapevo il mio orizzonte e perché i vecchi non avevano conteso con noialtri.

O. Ma non eri immortale?

C. E lo sono, Odisseo. Di morire non spero. E non spero di vivere. Accetto l’istante. Voi mortali vi attende qualcosa di simile, la vecchiezza e il rimpianto. Perché non vuoi posare il capo con me, su quest’isola?

O. Lo farei, se credessi che sei rassegnata. Ma anche tu che sei stata signora di tutte le cose, hai bisogno di me, di un mortale, per aiutarti a sopportare.

C. È un reciproco bene, Odisseo. Non c’è vero silenzio se non condiviso.

O. Non ti basta che sono con te quest’oggi?

C. Non sei con me, Odisseo. Tu non accetti l’orizzonte di quest’isola. E non sfuggi al rimpianto.

O. Quel che rimpiango è parte viva di me stesso come di te il tuo silenzio. Che cosa è mutato per te da quel giorno che terra e mare ti obbedivano? Hai sentito ch’eri sola e ch’eri stanca e scordato i tuoi nomi. Nulla ti è stato tolto. Quel che sei l’hai voluto.

C. Quello che sono è quasi nulla, caro. Quasi mortale, quasi un’ombra come te. È un lungo sonno cominciato chi sa quando e tu sei giunto in questo sonno come un sogno. Temo l’alba, il risveglio; se tu vai via, è il risveglio.

O. Sei tu, la signora, che parli?

C. Temo il risveglio, come tu temi la morte. Ecco, prima ero morta, ora lo so. Non restava di me su quest’isola che la voce del mare e del vento. Oh non era un patire. Dormivo. Ma da quando sei giunto ha portato un’altr’isola in te.

O. Da troppo tempo la cerco. Tu non sai quel che sia avvistare una terra e socchiudere gli occhi ogni volta per illudersi. Io non posso accettare e tacere.

C. Eppure, Odisseo, voi uomini dite che ritrovare quel che si è perduto è sempre un male. Il passato non torna. Nulla regge all’andare del tempo. Tu che hai visto l’Oceano, i mostri e l’Eliso, potrai ancora riconoscere le case, le tue case?

O. Tu stessa hai detto che porto l’isola in me.

C. Oh mutata, perduta, un silenzio. L’eco di un mare tra gli scogli e un po’ di fumo. Con te nessuno potrà condividerla. Le case saranno come il viso di un vecchio. Le tue parole avranno un senso altro dal loro. Sarai più solo che nel mare.

O. Saprò almeno che devo fermarmi.

C. Non vale la pena, Odisseo. Chi non si ferma adesso, subito, non si ferma mai più. Quello che fai, lo farai sempre. Devi rompere una volta il destino, devi uscire di strada, e lasciarti affondare nel tempo…

O. Non sono immortale.

C. Lo sarai, se mi ascolti. Che cos’è vita eterna se non questo accettare l’istante che viene e l’istante che va? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Cos’è stato finora il tuo errare inquieto?

O. Se lo sapessi avrei già smesso. Ma tu dimentichi qualcosa.

C. Dimmi.

O. Quello che cerco l’ho nel cuore, come te.

mercoledì 10 settembre 2008

Buttiamo Ungaretti e Montale corriamo a rileggere Pavese


di Flavio Santi, da Liberazione del 09/09/2008

Una poesia non aristocratica: così la definì il maestro dei critici, Gianfranco Contini. Con questo appellativo intendeva dire che Pavese non seguiva i dettami (e gli orpelli) della dominante poesia francese (di cui fu gran ruminatore da noi Ungaretti), e dunque per capirci Mallarmé e Valéry su tutti, poesia preziosa e altera, lontana dagli accidenti del mondo, iperuranica e iperbarica. Pavese amava gli americani e a loro guardava. Laureatosi su Walt Whitman, non poteva che battere quella strada, fatta di concretezza e sangue, di terra e umori. Pagò questa scelta con un sostanziale isolamento nell'esclusivo club dei poeti italiani, e lui stesso ne fu consapevole fin da subito, se per la nuova edizione accresciuta di Lavorare stanca del 1943 scrisse di suo pugno per la fascetta queste implacabili parole: «Una delle voci più isolate della poesia contemporanea».
La poesia italiana di quegli anni veleggiava placida tra le parole enigmistiche dell'ermetismo, per usare una celebre definizione di Umberto Saba (non a caso altro grande isolato), e se non fu poesia complice del regime fascista poco ci mancò: fu comunque arte per l'arte, non denunciò, non stigmatizzò, si limitò a cantare di più o meno lancinanti mondi interiori, di casi più o meno clinici. Tutto l'ermetismo andrebbe ripensato, e gli stessi mostri sacri (tali per diktat scolastico, a ben pensarci) Ungaretti e Montale meriterebbero un profondo ripensamento. Quali tra questi versi hanno resistito meglio all'usura del tempo e delle parole, e dunque della storia? «Fanfan ritorna vincitore; Molly / si vende all'asta: frigge un riflettore» (Montale), oppure «Stupefatto del mondo mi giunse un'età / che tiravo gran pugni nell'aria e piangevo da solo» (Pavese)? Mi pare che non ci siano dubbi. I primi sono puro vocio privo di adesione e storia, rimandano ad altri piani, ad altri sensi. Semplicemente un bel gioco. Gli altri sono storia di parole e sentimenti, sangue e nervi. Necessità. Proprio come tra questi versi: «Tu non altro che il canto avrai del figlio, / o materna mia terra» (Foscolo) e «e il tuo buon rege, il re più grande, in atto / d'agno innocente fra digiuni lupi / sul letto de' ladron a morir tratto» (Monti), non ci dovrebbero essere esitazioni. Ugo Foscolo, il reietto, l'esule, i cui Sepolcri vennero definiti «un fumoso enigma», ci parla ancora oggi, mentre Vincenzo Monti, il potentissimo cantore della convenienza, al massimo ci stuzzica con le sue carinerie verbali. A questa punto della storia letteraria italiana niente ci vieta di considerare Ungaretti e Montale una sorta di moderna versione di Vincenzo Monti. Altri i veri, grandi poeti del Novecento italiano: Umberto Saba, Attilio Bertolucci, Pier Paolo Pasolini. E Cesare Pavese. Poeti del dire cose, qui e ora, di un particolare che è sempre universale. Il particolare di Montale è troppo selettivo ed esclusivo, riflette solo se stesso, non crea continuità e aderenza. Non crea storia. Se non storia accademica. Ma basta? Basta a un popolo, a una nazione, alle persone?
Le poesie di Pavese hanno la limpida necessità del classico: chiarezza ed evidenza di lingua e storia. «Non è più coltivata quassù la collina. Ci sono le felci / e la roccia scoperta e la sterilità. / Qui il lavoro non serve più a niente. La vetta è bruciata / e la sola freschezza è il respiro»: ecco, un attacco come questo è destinato a durare per sempre. Ancora: «Quest'è il giorno che salgono le nebbie dal fiume / nella bella città, in mezzo a prati e colline, / e la sfumano come un ricordo. I vapori confondono / ogni verde, ma ancora le donne dai vivi colori / vi camminano». Se invece si è più sensibili alle pieghe esistenziali, ci sono anche quelle, eccone un assaggio: «Ma quando gli dico / ch'egli è tra i fortunati che han visto l'aurora / sulle isole più belle della terra, / al ricordo sorride e risponde che il sole / si levava che il giorno era vecchio per loro». Il grande merito di Pavese è quello più banale ma imperituro (e difficilissimo): parlare a tutti. Ci riesce perché risolve il problema dei problemi della poesia moderna, sollevato in una famosa lettera da Rimbaud: trovare una lingua. Quella lingua è la lingua di tutti, la più vibrante ma anche la più ardua da usare. I risultati sono di un nitore abbagliante: «Non importa la notte. Il quadrato del cielo / mi susurra di tutti i fragori, e una stella minuta / si dibatte nel vuoto, lontano dai cibi, / dalle case, diversa. Non basta a se stessa, / e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo, / il mio corpo è tranquillo e si sente padrone».

Spreco di tempo

Può darsi che sia ora di tirare
i remi in barca per il noioso evento.
Ma perché fu sprecato tanto tempo
quando era prevedibile il risultato?

(sempre Montale)

Doppio Montale

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida
scorta per avventura tra le petraie d'un greto,
esiguo specchio in cui guardi un'ellera i suoi corimbi;
e su tutto l'abbraccio d'un bianco cielo quieto.

Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto s'esprime libera un'anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma,
e che il tuo aspetto s'insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d'una giovinetta palma...

***

Ciò che di me sapeste
non fu che la scialbatura,
la tonaca che riveste
la nostra umana ventura.

Ed era forse oltre il telo
l'azzurro tranquillo;
vietava il limpido cielo
solo un sigillo.

O vero c'era il falòtico
mutarsi della mia vita,
lo schiudersi d'un'ignita
zolla che mai vedrò.

Restò così questa scorza
la vera mia sostanza;
il fuoco che non si smorza
per me si chiamò: l'ignoranza.

Se un'ombra scorgete, non è
un'ombra - ma quella io sono.
Potessi spiccarla da me,
offrirvela in dono.


(Montale, da Ossi di seppia)

lunedì 8 settembre 2008

Odisseo

(...)
Preferisti l'infinità del mare
e opporti a venti e maree.
Vivere sballottato da onde casuali.

giovedì 4 settembre 2008

Meriggiare pallido e assorto

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d' orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch' ora si rompono ed ora s' intrecciano
a sommo di minuscole biche.

osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

e andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Eugenio Montale

Pacchetto sicurezza

E’ recente, purtroppo, l’ennesima notizia di attacchi violenti da parte di gruppi neofascisti ai danni di gente senza alcuna colpa, se non quella di essere diversa da loro. L’ultimo triste avvenimento riguarda un giovane colpito nell’anniversario dell’uccisione, sempre per giovane mano fascista, di un ragazzo. Che si tratti di una coincidenza, non sembra proprio. Ciò che è sicuro, invece, è che queste aggressioni gratuite sono sempre più frequenti e nessuno ha ancora preso provvedimenti serî per scongiurarle. Il governo, sfruttando i mezzi di informazione, convince la maggioranza degli italiani che il problema siano gli immigrati, sempre pronti ad atti di violenza e a rapine. Così si pensa di inasprire le leggi, di ricacciare tutti gli irregolari o di metterli in galera. Per maggiore sicurezza si fa addirittura intervenire l’esercito nelle strade delle grandi città. I fenomeni dilaganti di razzismo e di fascismo, invece, non preoccupano nessuno, non meritano quasi attenzione. E tutto questo avviene sotto la promessa, da parte del PdL, fatta prima ancora delle elezioni, di revisionare i testi scolastici di storia, perché «ancor oggi caratterizzati dalla retorica della Resistenza»*. Come se la Resistenza fosse un valore passato, decaduto e per di più antidemocratico e comunista. Si dimenticano forse che dalla Resistenza, di ogni colore, è nata la Costituzione Italiana , la quale recita all’articolo XII delle Disposizioni transitorie e finali, che «è` vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Questo a me suggerisce che anche forme violente dichiaratamente neofasciste andrebbero arginate. Invece no. E si riscrive la storia: questo sta davvero avvenendo con la realizzazione di un’enciclopedia in videoclip che raggiungerà web e tv. Alla realizzazione dell’enorme lavoro partecipano, guarda a caso, «dipendenti e collaboratori dell’Ovo, una srl partecipata al 47 per cento da Trefinance, una società lussemburghese che fa capo alla Fininvest»* (*L’espresso, n. 35, anno LIV, p. 46) . Questo è il pacchetto sicurezza.

martedì 19 agosto 2008

Nova - Blink

Sto ascoltando un album del 1976: Blink, dei Nova.
Veramente un bel disco. Come genere direi prog-jazz-molto-rock!
Degli Osanna, di cui non potevo sopportare la voce, sono presenti il sax (Elio D'Anna) e la chitarra, decisamente fottuta (Danilo Rustici). Si aggiunga una seconda chitarra, un bassista notevole e un ottimo batterista. Il risultato è "Blink". Anche se dopo un pò risulta monotono, è molto interessante e divertente.

Nova - Blink (da http://www.italianprog.com/it/a_nova.htm)

Più attivi all'estero che in Italia (dove solo uno dei loro 4 album venne stampato), i Nova rappresentano un caso unico di gruppo progressivo italiano che ha speso quasi tutta la propria carriera in altri paesi.
Dopo lo scioglimento degli Uno, gli ex fondatori degli Osanna Elio D'Anna e Danilo Rustici rimasero a Londra e formarono un altro gruppo chiamato Nova con altri musicisti italiani già conosciuti, come Corrado Rustici ex-Cervello e Dede Lo Previte dei Circus 2000.

Questo gruppo, con un'influenza jazz-rock più marcata rispetto ai precedenti, pubblicò il primo album, Blink, nel 1976, con la collaborazione di grandi nomi come Pete Townshend e i testi del paroliere Nick J.Sedwick (che aveva collaborato anche all'album Uno). Si sente sempre il familiare feeling degli Osanna, ma il genere sta cambiando verso uno stile di musica più commerciale. Solo due dei sei brani sono strumentali, il ruolo di cantante è ricoperto da Corrado Rustici, e l'album contiene alcuni ottimi momenti.

L'unico album dei Nova ad avere un'edizione italiana è il primo, Blink, stampato dalla Ariston nel 1976 con una copertina singola piuttosto anonima e non facilissimo da trovare. Il disco è uscito anche in Inghilterra (Arista ARTY 118), Olanda (Arista AR1) e Francia (Motors).
Gli album successivi sono stati pubblicati dalla Arista in Inghilterra, USA, Canada, Germania, Cile, Argentina, e dalla Motors in Francia.


"Ti ho sempre soltanto veduta"

Sarò un pò monotono, riportando sempre poesie di Pavese... ma mi ci ritrovo perfettamente. D'altra parte, sono poesie che lui aveva scritto più o meno alla mia età.
Questa è del 27/12/1927

Ti ho sempre soltanto veduta,
senza parlarti mai,
nei tuoi istanti più belli.
Ma ho l'anima ormai tanto tesa,
schiantata dalla tua figura,
che non trovo più pace
al suo brivido atroce.
E non posso parlarti,
nemmeno avvicinarmi,
ché cadrebbero tutti i miei sogni.
Oh se tale è il tremore orribile
che ho nell'anima questa notte,
e non ti conoscerò mai,
che cosa diverrebbe il mio povero cuore
sotto l'urto del sangue,
alla sublimità di te?
Se ora mi par di morire,
che vertigine folle,
che palpiti moribondi,
che urli di voluttà e languore
mi darebbe la tua realtà?
Ma io non posso parlarti,
e nemmeno avvicinarmi:
nei tuoi istanti più belli
ti ho sempre soltanto veduta,
sempre soltanto sognata.

domenica 17 agosto 2008

Karajan - Beethoven Symphony No. 7

Beethoven è la cura per tutti i mali. Se c'è qualcosa che non va, basta scegliere. Ad esempio, la settima sinfonia.



...et voilà!

martedì 12 agosto 2008

Ròndini lente
vòlano sul crepuscolo incolore.
Più tetro non sarò mai più: soltanto
un po' più stanco, all'ultima agonia.

Non è viltà la mia:
i moribondi che si lascian stringere
da un rantolo alla gola
sono forse anche vili?

Le ròndini affannose,
prigioniere del cielo,
fanno impazzire di monotonia.

Dentro il rombo del sangue,
mi sconvolge il cervello
un desiderio atroce di follia.

Cesare Pavese, 21 aprile 1929

Rocca dell'Abisso





Verso\a la Rocca dell'Abisso (Sopra Limone Piemonte)

Birdland - Weather Report + Manhattan Transfer

mercoledì 6 agosto 2008

"Molto originale!"

-La vita è ingiusta e dura!

(…)

-La vita non è né brutta né bella, ma è originale!

Quando ci pensai mi parve d’aver detta una cosa importante. Designata così, la vita mi parve tanto nuova che stetti a guardarla come se l’avessi veduta per la prima volta coi suoi corpi gassosi, fluidi e solidi. Se l’avessi raccontata a qualcuno che non vi fosse stato abituato e fosse perciò privo del nostro senso comune, sarebbe rimasto senza fiato dinanzi all’enorme costruzione priva di scopo. M’avrebbe domandato: “Ma come l’avete sopportata?” E, informatosi di ogni singolo dettaglio, da quei corpi celesti appesi lassù perché si vedano ma non si tocchino, fino al mistero che circonda la morte, avrebbe certamente esclamato: “Molto originale!”

(…) E non occorreva mica venire dal di fuori per vederla messa insieme in un modo tanto bizzarro. Bastava ricordare tutto quello che noi uomini dalla vita si è aspettato, per vederla tanto strana da arrivare alla conclusione che forse l’uomo vi è stato messo dentro per errore e che non vi appartiene.

Italo Svevo, La Coscienza di Zeno.


mercoledì 23 luglio 2008

La morte e la fanciulla

Ieri sera ho avuto il piacere di ascoltare il Quatuor Elysée a Sampeyre. Hanno suonato il primo quartetto op. 44 di Mendelssohn e il primo, incompiuto, di Rachmaninov. Per quanto apprezzabili questi compositori, io ho trovato i suddetti quartetti del tutto inutili, se non addirittura noiosi. Ma il programma era stato pensato per finire su uno dei più grandi picchi della musica per quartetto: La morte e la fanciulla, quattordicesimo quartetto di Schubert. Non c'è che dire: secondo la mia impressione, Schubert è decisamente sopra agli altri due (e non solo in occasione del quartetto). La sua musica intensa ed emotiva è qualcosa che arriva all'ascoltatore, mentre ciò che era il sollazzo della borghesia ottocentesca, per noi non può risultare nulla di così interessante e Rachmaninov, da canto suo, non tribola ad annoiare.
Qualche volta mi capita, specie se il brano ha un titolo, di immaginarmi che cosa la musica possa descrivere, ed è quello che ho provato a fare ieri sera...



Il primo movimento de
La morte e la fanciulla, ispira una grave disperazione, espressa tanto bene probabilmente perché derivata dalla mente del compositore oppresso da un male incurabile. Sembra infatti la rappresentazione di ciò che la fanciulla prova dopo che le è stato detto che dovrà morire. Una persona giovane che non può sopportare un'idea simile e si dispera, si arrabbia, piange e ricorda con malinconia quelle poche cose che ha vissuto e si arrabbia ancora di più perché crede di averne fissate nella memoria troppo poche, neppure le più importanti.

Ecco il primo movimento, eseguito dal quartetto Alban Berg:




Il secondo movimento me lo sono figurato così: la fanciulla dorme e la morte le viene a fare visita. Avvicinandosi silenziosamente, le sussurra "Ora vieni con me, andremo in un posto lontano, là si starà bene". Le accarezza le guancia convincendola a partire, a fidarsi di lei.



La morte afferra la fanciulla per la mano... "Lasciami! Dove mi vuoi portare" scoppia in pianto la fanciulla, cercando di liberarsi dalla mano fredda. La morte le parla dolcemente e, dopo un pò di resistenza, la fanciulla cede e acconsente ad andarsene con lei. Così cominciano a camminare nel cielo notturno verso la luna. "Ma dove andiamo?" chiede la piccola. "Andiamo in un posto che gli uomini non sanno." risponde la signora. "E dov'è? Cos'è?" insiste la fanciulla. "Non lo puoi sapere, non sei ancora morta". Allora la piccola si arrabbia, vorrebbe scappare e tornare nel suo letto, ormai però già distante. Si ferma a pensare qualche istante e poi domanda: "Ma se non sono morta, allora questo è tutto un sogno?" e la morte, sorridendo, annuisce.



Lo scherzo l'ho invece pensato come alla morte della bambina. Appena è finito il sogno, si addormenta del sonno eterno. Il suo corpo giace immobile e senza vita sul letto, e nessuno se n'è ancora accorto. La luna illumina la stanza dalla finestra, lasciando il cadavere avvolto nel buio.



E nel quarto movimento la bambina parte davvero - non più per sogno - insieme alla morte. Si ritrovano nel cielo tutti i bambini portati dalla morte in quei giorni e si ha un grande ballo. Tutti i fanciulli danzano e la morte sta al centro. Nonostante non si siano mai preparati, tutti ballano con grande grazia e leggerezza, e tutti coordinati secondo una coreografia improvvisata. Chi però non riesce a tenere il passo, viene cacciato dalla morte e cade miseramente, senza che ci sia dato sapere dove è andato a finire. La danza continua a gara, ed ecco che arrivano altri bambini appena strappati alla vita; si uniscono al ballo in onore della loro signora. Altri vengono cacciati, annientati (chissà, forse cadono nell'inferno). Fortunatamente la fanciulla è ancora in gara ed anzi sembra tra le predilette della morte. Il gruppo di ballerini sale sempre più in alto, mentre comincia il cielo a farsi chiaro: l'alba è prossima.
Alla fine, quelli che sono rimasti arrivano altissimi nel cielo ormai illuminato, esultanti e contenti. Iniziano a correre, a correre veloce nell'azzurro insieme con la morte. ...E chissà dove andranno? Noi uomini non lo possiamo sapere.