
di Flavio Santi, da Liberazione del 09/09/2008
Una poesia non aristocratica: così la definì il maestro dei critici, Gianfranco Contini. Con questo appellativo intendeva dire che Pavese non seguiva i dettami (e gli orpelli) della dominante poesia francese (di cui fu gran ruminatore da noi Ungaretti), e dunque per capirci Mallarmé e Valéry su tutti, poesia preziosa e altera, lontana dagli accidenti del mondo, iperuranica e iperbarica. Pavese amava gli americani e a loro guardava. Laureatosi su Walt Whitman, non poteva che battere quella strada, fatta di concretezza e sangue, di terra e umori. Pagò questa scelta con un sostanziale isolamento nell'esclusivo club dei poeti italiani, e lui stesso ne fu consapevole fin da subito, se per la nuova edizione accresciuta di Lavorare stanca del 1943 scrisse di suo pugno per la fascetta queste implacabili parole: «Una delle voci più isolate della poesia contemporanea».
La poesia italiana di quegli anni veleggiava placida tra le parole enigmistiche dell'ermetismo, per usare una celebre definizione di Umberto Saba (non a caso altro grande isolato), e se non fu poesia complice del regime fascista poco ci mancò: fu comunque arte per l'arte, non denunciò, non stigmatizzò, si limitò a cantare di più o meno lancinanti mondi interiori, di casi più o meno clinici. Tutto l'ermetismo andrebbe ripensato, e gli stessi mostri sacri (tali per diktat scolastico, a ben pensarci) Ungaretti e Montale meriterebbero un profondo ripensamento. Quali tra questi versi hanno resistito meglio all'usura del tempo e delle parole, e dunque della storia? «Fanfan ritorna vincitore; Molly / si vende all'asta: frigge un riflettore» (Montale), oppure «Stupefatto del mondo mi giunse un'età / che tiravo gran pugni nell'aria e piangevo da solo» (Pavese)? Mi pare che non ci siano dubbi. I primi sono puro vocio privo di adesione e storia, rimandano ad altri piani, ad altri sensi. Semplicemente un bel gioco. Gli altri sono storia di parole e sentimenti, sangue e nervi. Necessità. Proprio come tra questi versi: «Tu non altro che il canto avrai del figlio, / o materna mia terra» (Foscolo) e «e il tuo buon rege, il re più grande, in atto / d'agno innocente fra digiuni lupi / sul letto de' ladron a morir tratto» (Monti), non ci dovrebbero essere esitazioni. Ugo Foscolo, il reietto, l'esule, i cui Sepolcri vennero definiti «un fumoso enigma», ci parla ancora oggi, mentre Vincenzo Monti, il potentissimo cantore della convenienza, al massimo ci stuzzica con le sue carinerie verbali. A questa punto della storia letteraria italiana niente ci vieta di considerare Ungaretti e Montale una sorta di moderna versione di Vincenzo Monti. Altri i veri, grandi poeti del Novecento italiano: Umberto Saba, Attilio Bertolucci, Pier Paolo Pasolini. E Cesare Pavese. Poeti del dire cose, qui e ora, di un particolare che è sempre universale. Il particolare di Montale è troppo selettivo ed esclusivo, riflette solo se stesso, non crea continuità e aderenza. Non crea storia. Se non storia accademica. Ma basta? Basta a un popolo, a una nazione, alle persone?
Le poesie di Pavese hanno la limpida necessità del classico: chiarezza ed evidenza di lingua e storia. «Non è più coltivata quassù la collina. Ci sono le felci / e la roccia scoperta e la sterilità. / Qui il lavoro non serve più a niente. La vetta è bruciata / e la sola freschezza è il respiro»: ecco, un attacco come questo è destinato a durare per sempre. Ancora: «Quest'è il giorno che salgono le nebbie dal fiume / nella bella città, in mezzo a prati e colline, / e la sfumano come un ricordo. I vapori confondono / ogni verde, ma ancora le donne dai vivi colori / vi camminano». Se invece si è più sensibili alle pieghe esistenziali, ci sono anche quelle, eccone un assaggio: «Ma quando gli dico / ch'egli è tra i fortunati che han visto l'aurora / sulle isole più belle della terra, / al ricordo sorride e risponde che il sole / si levava che il giorno era vecchio per loro». Il grande merito di Pavese è quello più banale ma imperituro (e difficilissimo): parlare a tutti. Ci riesce perché risolve il problema dei problemi della poesia moderna, sollevato in una famosa lettera da Rimbaud: trovare una lingua. Quella lingua è la lingua di tutti, la più vibrante ma anche la più ardua da usare. I risultati sono di un nitore abbagliante: «Non importa la notte. Il quadrato del cielo / mi susurra di tutti i fragori, e una stella minuta / si dibatte nel vuoto, lontano dai cibi, / dalle case, diversa. Non basta a se stessa, / e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo, / il mio corpo è tranquillo e si sente padrone».
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