Ho trovato nella mia cartella sul computer il seguente testo, che penso di aver scritto a maggio scorso. L'avevo dimenticato completamente ed in effetti non è un granché, ma lo riporto.
Non ne parlavo mai con nessuno, solo accennavo distrattamente qualche volta, ma ho sempre avuto una segreta passione per le montagne. Dietro le colline basse, c’è sempre un secondo piano innevato che si mimetizza col cielo e le sue nuvole bianche illuminate dal sole e sembra perdersi nell’infinita distesa azzurra. Senza quelle vette, chissà dove finirebbe l’orizzonte: forse non esisterebbe. Qualche volta mi immaginavo lassù, a guardare tutto dall’alto, nascosto in mezzo alle rocce e lontano da tutti. La montagna era un desiderio di realizzazione e al contempo di evasione, di distacco. Mi capitava di parlare delle montagne e quando dicevo che mi sarebbe piaciuto raggiungerle, tutti dicevano che la vita è altro e che non si può. Io sorridevo e davo loro ragione, ma quando rimanevo da solo, mi ritrovavo ferito e mi convincevo di nuovo nei miei desideri e odiavo chi cercava di farli sparire. Restavo anche per molto tempo, seduto sul letto a ripetermi nella mente tutte le ragioni, quasi volessi convincere me stesso che non sbagliavo, e ne dubitassi. Ogni espressione e tono di voce mi tornava alla mente e cercavo di confutare qui fastidiosi discorsi, gridando con rabbia nel silenzio e chiedendomi come faccia la gente a pensarlo davvero e a vivere così. Forse ero soltanto io, e le montagne erano solo un orizzonte nella mia fantasia, però io vivevo di quello e la gente se ne accorgeva. Qualche volta mi fermavo a guardare attraverso la finestra quei paesaggi e tutti mi guardavano torvi e qualche volta mi dicevano di smetterla, perché non si può vivere in un mondo immaginario inseguendo strade immaginarie. Eppure ero convinto che quel mondo esistesse davvero e fosse anche più bello, ma non potevo certo mettermi a raccontarlo. Allora incontravo i miei amici, si parlava e si scherzava, bevendo una birra e raccontando le cose strane o belle che ci erano accadute. Altre volte invece, io pensavo alle montagne, e camminavo con un amico senza parlare troppo, guardando in basso e sospirando. Anche lui pensava a qualcosa e la presenza era in quei momenti più importante del dialogo, perché si poteva condividere tutto quel silenzio, carico di pensieri, di sogni, di delusioni. Quei momenti per me erano preziosi perché non contava più niente, e potevo immergermi senza fastidi nei miei pensieri. Anche se non raccontavo mai tutto perché mi sarebbe stato impossibile, queste persone sembrava che mi capissero, o per lo meno mi davano ragione. Sono sicuro che non era per farmi contento, anzi credo che anche loro sognassero le loro montagne; una tacita intesa mi rendeva più tranquillo e mi permetteva di riprendermi i sogni e di continuare a costruirli lentamente.
domenica 26 ottobre 2008
sabato 25 ottobre 2008
More. Alcuni punti della politica
«Per dirvi chiaramente come la penso, mio caro More, io non credo che ci possano essere vera giustizia e reale prosperità finché sussiste la proprietà privata e il denaro rimane il fondamento di ogni cosa. A meno che non si pensi che si agisca con giustizia laddove le persone peggiori sono le sole a vivere agiatamente e che si ritenga fiorente uno Stato i cui beni sono concentrati nella mani di una stretta minoranza. Considerate poi che nemmeno costoro sono pienamente felici, vivendo gli altri nella miseria più nera.
(…)
[Platone], uomo sapiente, capiva chiaramente che l’equa distribuzione dei beni è la condizione sine qua non perché un paese sia ben governato ed è evidente che ciò non si può realizzare in uno Stato in cui i beni sono proprietà di singole persone. Infatti, quando tutti cercano di arraffare quanto più possibile, va a finire che, per quanto numerosi siano i beni, essi finiscono nelle mani di pochi privilegiati: il che significa che gli altri rimangono poveri.
Accade così che le persone ricevono in proporzione inversa rispetto al merito (…).»
«Dove ciò che conta è il denaro, numerose fioriscono le professioni necessarie solo al lusso e al superfluo.»
«E, a ben pensarci, perché si dovrebbe pagare? Nel paese [in Utopia] c’è abbondanza di ogni cosa e nessuno chiederebbe più del necessario, dato che tutti sono sicuri che non mancheranno mai di nulla. Infatti, è la paura di non avere il necessario che rende rapaci e bramosi di accaparrare; ciò è evidente in tutti gli esseri viventi, mentre nell’uomo questo atteggiamento è il prodotto della vanagloria, della convinzione che uno sia superiore agli altri se solo può ostentare il superfluo. »
«Senza il ferro, il fuoco e l’acqua la vita dell’uomo sarebbe impossibile, mentre la stessa cosa non si può dire per l’oro e l’argento, rilevanti solo in relazione al concetto di rarità che la follia umana ha inventato.»
«Quando il favoritismo e la cupidigia prendono il potere, la giustizia, fondamento dello Stato, è distrutta.»
«[Gli Utopiani] detestano profondamente la guerra e la considerano un’attività subumana, indegna dell’uomo, che pur la pratica più sovente degli animali stessi.
Gli abitanti di Utopia sono, infatti, praticamente gli unici sulla Terra a non vedere nella guerra alcunché di glorioso.
Uomini e donne si impegnano, a intervalli regolari, nell’addestramento militare, in modo da essere in grado di combattere, nel caso ciò fosse necessario, ma non vanno mai in guerra, se non per autodifesa, per respingere gli invasori da territori nemici o per liberare un popolo vittima della tirannide. E fanno ciò mossi dallo spirito di compassione.»
«Ovunque la gente parla dei diritti di tutti, ma in verità ciò che sta a cuore a ognuno è esclusivamente il proprio interesse. In Utopia, dove non esiste la proprietà individuale, i cittadini si preoccupano sul serio delle questioni che riguardano tutti(…). Altrove ogni persona sa che se non si preoccupa in prima persona dei propri affari, per quanto fiorente sia lo Stato, farà brutta fine e, di conseguenza, è costretta a dare l’assoluta priorità ai propri interessi, non prendendosi affatto a cuore il bene della comunità. Invece in Utopia, dove tutto è di tutti, nessuno teme che gli venga a mancare qualcosa, a patto che le riserve comuni siano sempre abbondanti. Ognuno fa la sua parte e nessuno vive in povertà o costretto a mendicare per vivere. Nessuno possiede qualcosa che sia suo, ma tutti sono ricchi, perché non ci può essere ricchezza più grande che vivere con animo lieto e sereno.»
lunedì 20 ottobre 2008
Solidarietà per Saviano
'Penso di aver diritto a una pausa. Ho pensato, in questo tempo, che cedere alla tentazione di indietreggiare non fosse una gran buona idea, non fosse soprattutto intelligente. Ho creduto che fosse assai stupido - oltre che indecente - rinunciare a se stessi, lasciarsi piegare da uomini di niente, gente che disprezzi per quel che pensa, per come agisce, per come vive, per quel che è nella più intima delle fibre ma, in questo momento, non vedo alcuna ragione per ostinarmi a vivere in questo modo, come prigioniero di me stesso, del mio libro, del mio successo. 'Fanculo il successo. Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto ventotto anni! E voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere perché è quella la mia passione e la mia resistenza e io, per scrivere, ho bisogno di affondare le mani nella realtà, strofinarmela addosso, sentirne l'odore e il sudore e non vivere, come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri - oggi qui, domani lontano duecento chilometri - spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita. Me le ripeto una a una, silenziosamente, tra me'.
Roberto Saviano
Se sei di Cuneo, vedi qui: http://peanopellico.forumfree.net/?t=33361378&st=0#entry276886721
Roberto Saviano
Se sei di Cuneo, vedi qui: http://peanopellico.forumfree.net/?t=33361378&st=0#entry276886721
sabato 18 ottobre 2008
Prima mangiare poi si prega
-Se ti mancasse la pagnotta, - dissi, - chiederesti di meno.
-Ma ce l'ho, - disse Momina ghignando. - Ce l'ho, la pagnotta. Che cosa posso farci se ce l'ho?
Rosetta disse che anche i frati nei conventi rinunciano a tutto ma non alla pagnotta.
-Siamo tutti così, - dissi. - Prima mangiare poi si prega.
-Ma ce l'ho, - disse Momina ghignando. - Ce l'ho, la pagnotta. Che cosa posso farci se ce l'ho?
Rosetta disse che anche i frati nei conventi rinunciano a tutto ma non alla pagnotta.
-Siamo tutti così, - dissi. - Prima mangiare poi si prega.
"Pensavo com'è il mondo"
"Pensavo com'è il mondo, che tutti lavoriamo per non più lavorare ma se qualcuno non lavora ci fa rabbia."
"Ho conociuto una cassiera a Roma - dissi, - che a forza di vedersi allo specchio, lo specchio dietro il banco, diventò pazza... Credeva di essere un' altra.
Momina disse: -Bisognerebbe vedersi allo specchio... Tu Rosetta non hai avuto il coraggio..."
Le puttane non godono mai, - disse Momina. Anche Rosetta sussultò.
-Chi più puttana della Nene? - continuò Momina. - E' intelligente, ha il mestiere sulla punta delle dita, e tutto il temperamento che una scultrice può avere. Perché non fa soltanto questo? E invece no. Deve vestirsi da bambina, innamorarsi, sbronzarsi. Un bel giorno farà anche un figlio. Si è fatta la faccia... Lei crede che gli altri ci credano.
-Sei cattiva, - disse Rosetta.
-Momina ha ragione - brontolai. - Conta il lavoro non il modo.
-Non so quel che conta, - disse Momina. Ci guardò quasi sorpresa, ingenua. - Ho paura che niente conti. Tutte siamo puttane.
(vedi post prec.)
"Ho conociuto una cassiera a Roma - dissi, - che a forza di vedersi allo specchio, lo specchio dietro il banco, diventò pazza... Credeva di essere un' altra.
Momina disse: -Bisognerebbe vedersi allo specchio... Tu Rosetta non hai avuto il coraggio..."
Le puttane non godono mai, - disse Momina. Anche Rosetta sussultò.
-Chi più puttana della Nene? - continuò Momina. - E' intelligente, ha il mestiere sulla punta delle dita, e tutto il temperamento che una scultrice può avere. Perché non fa soltanto questo? E invece no. Deve vestirsi da bambina, innamorarsi, sbronzarsi. Un bel giorno farà anche un figlio. Si è fatta la faccia... Lei crede che gli altri ci credano.
-Sei cattiva, - disse Rosetta.
-Momina ha ragione - brontolai. - Conta il lavoro non il modo.
-Non so quel che conta, - disse Momina. Ci guardò quasi sorpresa, ingenua. - Ho paura che niente conti. Tutte siamo puttane.
(vedi post prec.)
Una donna sola
Quando fui sola, dentro l'acqua tiepida, chiusi gli occhi irritata perché avevo parlato troppo e non ne valeva la pena. Più mi convinco che far parole non serve, più mi succede di parlare. Specialmente fra donne. Ma la stanchezza e quel po' di febbre si disciolsero presto nell'acqua e ripensai l'ultima volta ch'ero stata a Torino - durante la guerra - l'indomani di un'incursione: tutti i tubi eran saltati, niente bagno. Ci ripensai con gratitudine: finché la vita aveva un bagno, valeva la pena di vivere.
Un bagno e una sigaretta. Mentre fumavo con la mano a fior d'acqua, confrontai lo sciacquio, che mi cullava, coi giorni agitati che avevo veduto, col tumulto di tante parole, con le mie smanie, coi progetti che avevo sempre realizzato eppure stasera si riducevano a quella vasca e quel tepore. Ero stata ambiziosa? Rividi le facce ambiziose: facce pallide, segnate, convulse - ce n'era qualcuna che si fosse distesa in un'ora di pace? Nemmeno morendo quella passione s'allentava. A me pareva di non essermi mai rilassata un momento. Forse vent'anni prima, quand'ero ancora una bambina, quando giocavo per le strade e aspettavo col batticuore la stagione dei coriandoli, dei baracconi e delle maschere, forse allora mi ero potuta abbandonare. Ma in quegli anni per me carnevale non voleva dir altro se non giostre, torrone e nasi di cartapesta. Poi, con la smania di uscire, di vedere, di correre per Torino, con le prime scappate nei vicoli insieme a Carlotta e alle altre, col batticuore di sentirci per la prima volta inseguite, anche quest'innocenza era finita. Strana cosa. La sera del giovedì grasso, quando papà s'era aggravato, per poi morire, io piansi di rabbia e l'odiai pensando alla festa che perdevo. Soltanto la mamma mi capiì quella sera, e mi prese in giro e mi disse di levarmi dai piedi, di andare a piangere in cortile da Carlotta. Ma io piangevo perché il fatto che papà fosse per morie mi spaventava e m'impediva dentro di abbandonarmi al carnevale.
Squillò il telefono. Non mi mossi dalla vasca, perch'ero felice con la mia sigaretta e pensavo che probabilmente proprio in quella sera lontana m'ero detto la prima volta che se volevo far qualcosa, ottenere qualcosa dalla vita, non dovevo legarmi a nessuno, dipendere da nessuno, com'ero legata a quell'importuno papà. E c'ero riuscita e adesso tutto il mio piacere era disciogliermi in quell'acqua e non rispondere al telefono.
Questo riprese, dopo un poco, e pareva irritato. Non ci andai ma uscii dall'acqua. M'asciugai lentamente, seduta nell'accappatoio, e stavo spalmandomi una crema intorno alla bocca quando bussarono. - Chi è?
-Un biglietto per la signora.
-Ho detto che non ci sono.
-Il signore insiste.
Mi toccò alzarmi e girare la chiave. La veneta impertinente mi tese il biglietto. Lo scorsi e dissi alla ragazza:
-Non veglio vederlo. Ritorni domani.
-La signora non scende?
Mi sentivo la faccia impiastrata, non potevo nemmeno farle una smorfia. Dissi: - Non scendo. Voglio un tè. Digli domani a mezzogiorno.
tratto da Tra donne sole, Cesare Pavese, 1949
Un bagno e una sigaretta. Mentre fumavo con la mano a fior d'acqua, confrontai lo sciacquio, che mi cullava, coi giorni agitati che avevo veduto, col tumulto di tante parole, con le mie smanie, coi progetti che avevo sempre realizzato eppure stasera si riducevano a quella vasca e quel tepore. Ero stata ambiziosa? Rividi le facce ambiziose: facce pallide, segnate, convulse - ce n'era qualcuna che si fosse distesa in un'ora di pace? Nemmeno morendo quella passione s'allentava. A me pareva di non essermi mai rilassata un momento. Forse vent'anni prima, quand'ero ancora una bambina, quando giocavo per le strade e aspettavo col batticuore la stagione dei coriandoli, dei baracconi e delle maschere, forse allora mi ero potuta abbandonare. Ma in quegli anni per me carnevale non voleva dir altro se non giostre, torrone e nasi di cartapesta. Poi, con la smania di uscire, di vedere, di correre per Torino, con le prime scappate nei vicoli insieme a Carlotta e alle altre, col batticuore di sentirci per la prima volta inseguite, anche quest'innocenza era finita. Strana cosa. La sera del giovedì grasso, quando papà s'era aggravato, per poi morire, io piansi di rabbia e l'odiai pensando alla festa che perdevo. Soltanto la mamma mi capiì quella sera, e mi prese in giro e mi disse di levarmi dai piedi, di andare a piangere in cortile da Carlotta. Ma io piangevo perché il fatto che papà fosse per morie mi spaventava e m'impediva dentro di abbandonarmi al carnevale.
Squillò il telefono. Non mi mossi dalla vasca, perch'ero felice con la mia sigaretta e pensavo che probabilmente proprio in quella sera lontana m'ero detto la prima volta che se volevo far qualcosa, ottenere qualcosa dalla vita, non dovevo legarmi a nessuno, dipendere da nessuno, com'ero legata a quell'importuno papà. E c'ero riuscita e adesso tutto il mio piacere era disciogliermi in quell'acqua e non rispondere al telefono.
Questo riprese, dopo un poco, e pareva irritato. Non ci andai ma uscii dall'acqua. M'asciugai lentamente, seduta nell'accappatoio, e stavo spalmandomi una crema intorno alla bocca quando bussarono. - Chi è?
-Un biglietto per la signora.
-Ho detto che non ci sono.
-Il signore insiste.
Mi toccò alzarmi e girare la chiave. La veneta impertinente mi tese il biglietto. Lo scorsi e dissi alla ragazza:
-Non veglio vederlo. Ritorni domani.
-La signora non scende?
Mi sentivo la faccia impiastrata, non potevo nemmeno farle una smorfia. Dissi: - Non scendo. Voglio un tè. Digli domani a mezzogiorno.
tratto da Tra donne sole, Cesare Pavese, 1949
domenica 12 ottobre 2008
Da "Il lamento della pace" di Erasmo da Rotterdam
Quid humana vita fragilius, quid brevius? Quot ea morbis, quot casibus obnoxia. Et tamen cum plus habeat ex sese malorum, quam ut ferri possit, tamen maximam malorum partem ipsi sibi accersunt dementes. Tanta caecitas humanos animos occupat, ut nihil horum perspiciat, sic praecipites aguntur, ut omnia naturae Christique vincula, omnia foedera rumpat, dissicent, diffringat. Pugnant passim atque assidue, nec modus nec finis. Colliditur gens cum gente, civitas cum civitate, factio cum faccione, princeps cum principe, et ob quorum homuncionum, qui mox velut ephemera sint interituri, seu stulticam seu ambitionem res humanae sursum ac deorsum miscentur.
Che c’è di più fragile della via umana, che c’è di più breve? A quante malattie, a quanti casi è soggetta! Eppure, malgrado essa rechi per conto suo molti più mali di quanti se ne possano sopportare, tuttavia sono gli uomini, nella loro follia, a procurarsi da sé stessi la massima parte dei propri mali. Una tale cecità ottenebra gli animi umani, che essi non ne scorgono nemmeno una; la loro condotta è così sconsiderata, che rompono, spezzano e infrangono ogni vincolo e ogni patto, di natura e di Cristo. Combattono dappertutto e senza sosta, senza darsi né una misura né un termine. Una nazione è in urto con un’altra nazione, una città con un’altra città, una fazione con un’altra fazione, un principe con un altro principe, e a causa vuoi della stoltezza vuoi dell’ambizione di due omuncoli destinati a morire entro breve, effimeri come sono, le sorti di questo mondo sono sconquassate da cima a fondo.
Erasmo da Rotterdam, Il lamento della pace, a cura di Federico Cinti, Bur, Milano, 2005, pp. 122-23
Erasmo da Rotterdam, Il lamento della pace, a cura di Federico Cinti, Bur, Milano, 2005, pp. 122-23
domenica 5 ottobre 2008
"...è dunque davvero possibile essere infelici? Che cosa significano il mio dolore e la mia disgrazia se sono in grado di essere felice? Sapete, non capisco come si possa passare accanto ad un albero e non essere felice di vederlo. Parlare con una persona e non essere felice di amarla! Oh, io non lo so esprimere... quante cose belle si incontrano ad ogni passo, cose così belle che anche l'uomo più abietto le apprezza? Guardate un bambino, guardate l'alba divina, guardate l'erba, come cresce, guardate negli occhi che vi guardano e vi amano..."
da L'idiota, parte IV (ed. Garzanti p. 640)
da L'idiota, parte IV (ed. Garzanti p. 640)
Da "Ossi di seppia"
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
--
Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.
Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.
--
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
--
Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.
Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.
--
Da "Quaderno di quattro anni"
Spenta l’identità
si può essere vivi
nella neutralità
della pigna svuotata dei pinòli
e ignara che l’attende il forno.
Attenderà forse giorno dopo giorno
senza sapere di essere se stessa.
----
Un sogno, uno dei tanti
Il sogno che si ripete è che non ricordo più
il mio indirizzo e corro per rincasare
È notte, la valigia che porto è pesante
e mi cammina accanto un Arturo
molto introdotto in ville di famose lesbiane
e anche lui reputato per i suoi tanti meriti
Vorrebbe certo soccorrermi in tale congiuntura
ma mi fa anche notare che non ha tempo da perdere
Egli abita a sinistra io tiro per la destra
ma non so se sia giusta la strada il numero la città
Anche il mio nome m’è dubbio, quello di chi attualmente
mi ospita padre fratello parente più o meno lontano
mi frulla vorticoso nella mente, vi si affaccia persino
un tavolo una poltrona una barba di antenato
l’intera collezione di un’orrenda rivista teatrale
le dieci o dodici rampe di scale dove una zia d’acquisto
fu alzata tra le braccia di un cattivo tenore
e giurò da quel giorno che gli ascensori erano inutili
a donne del suo rango e delle sue forme
(invero spaventevoli) tutto mi è vivo e presente
fuorché la porta a cui potrò bussare
senza sentirmi dire vada a farsi f-
Forse potrei tentare da un apposito chiosco
un telefonico approccio ma dove trovare il gettone
e a quale numero poi? mentre che Arturo si scusa
e dice che di troppo si è allontanato dalla
sua via del Pellegrino di cui beato lui ha ricordo
Lo strano è che in tali frangenti non mi dico mai
come il vecchio profeta Enrico lo Spaventacchio
che il legno del mio rocchetto mostra il bianco
e non avranno senso i miei guai anagrafici e residenziali
Mi seggo su un paracarro o sulla pesante valigia
in attesa che si apra nel buio una porticina
e che una voce mi dica entri pure si paga anticipato
troverà la latrina nel ballatoio al terzo piano
svolti a destra poi giri a sinistra Ma di qui
comincia appena il risveglio
si può essere vivi
nella neutralità
della pigna svuotata dei pinòli
e ignara che l’attende il forno.
Attenderà forse giorno dopo giorno
senza sapere di essere se stessa.
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Un sogno, uno dei tanti
Il sogno che si ripete è che non ricordo più
il mio indirizzo e corro per rincasare
È notte, la valigia che porto è pesante
e mi cammina accanto un Arturo
molto introdotto in ville di famose lesbiane
e anche lui reputato per i suoi tanti meriti
Vorrebbe certo soccorrermi in tale congiuntura
ma mi fa anche notare che non ha tempo da perdere
Egli abita a sinistra io tiro per la destra
ma non so se sia giusta la strada il numero la città
Anche il mio nome m’è dubbio, quello di chi attualmente
mi ospita padre fratello parente più o meno lontano
mi frulla vorticoso nella mente, vi si affaccia persino
un tavolo una poltrona una barba di antenato
l’intera collezione di un’orrenda rivista teatrale
le dieci o dodici rampe di scale dove una zia d’acquisto
fu alzata tra le braccia di un cattivo tenore
e giurò da quel giorno che gli ascensori erano inutili
a donne del suo rango e delle sue forme
(invero spaventevoli) tutto mi è vivo e presente
fuorché la porta a cui potrò bussare
senza sentirmi dire vada a farsi f-
Forse potrei tentare da un apposito chiosco
un telefonico approccio ma dove trovare il gettone
e a quale numero poi? mentre che Arturo si scusa
e dice che di troppo si è allontanato dalla
sua via del Pellegrino di cui beato lui ha ricordo
Lo strano è che in tali frangenti non mi dico mai
come il vecchio profeta Enrico lo Spaventacchio
che il legno del mio rocchetto mostra il bianco
e non avranno senso i miei guai anagrafici e residenziali
Mi seggo su un paracarro o sulla pesante valigia
in attesa che si apra nel buio una porticina
e che una voce mi dica entri pure si paga anticipato
troverà la latrina nel ballatoio al terzo piano
svolti a destra poi giri a sinistra Ma di qui
comincia appena il risveglio
giovedì 2 ottobre 2008
No, meglio che la religione la lasciamo stare
"E' più probabile che la vita futura esista e che noi non comprendiamo le leggi che la governano. Ma se è così difficile e addirittura impossibile comprendere, dovrò forse rispondere per il fatto che non è nelle mie forze concepire l'incomprensibile? E' vero, diranno (...), che proprio in questo caso la sottomissione è necessaria, perché bisogna ubbidire senza stare a chiedere spiegazioni, perché è bene così, e per la mia mansuetudine sarò senz'altro ricompensato nella vita futura. Sottovalutiamo troppo la Provvidenza, attribuendole i nostri pensieri per il dispetto di non riuscire a comprenderla. Ma siamo sempre allo stesso punto, se è impossible comprendere la Provvidenza, allora, lo ripeto, non si può neanche rispondere per quello che all'uomo non è dato di comprendere. Allora come potrò essere condannato perché non ho potuto comprendere l'autentica volontà e le leggi della Provvidenza? No, meglio che la religione la lasciamo stare."
tratto da Dostoevskij, L'idiota, parte III (ed. Garzanti, p. 481)
tratto da Dostoevskij, L'idiota, parte III (ed. Garzanti, p. 481)
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