giovedì 30 agosto 2012

Natura umana e teoria politica in Spinoza


1.     SPINOZA. La realizzazione della libertà umana.


Il volontario ci sembrerà essere ciò il cui principio è in chi agisce,
quando costui conosca i singoli aspetti nei quali l’azione si verifica.
Infatti non dice bene di certo chi afferma che gli atti compiuti
a causa dell’impetuosità o del desiderio sono involontari.

ARISTOTELE

La libertà è una virtù, ossia una perfezione: e dunque tutto ciò
che nell’uomo è indizio di impotenza non può essere posto
in relazione con la sua libertà. Perciò l’uomo non può affatto
dirsi libero perché può non esistere, o perché può non usare
la ragione ma solo in quanto ha il potere di esistere e di
operare secondo le leggi della natura umana.

SPINOZA




Come nel caso di Aristotele rispetto a Platone le dissomiglianze non sono forse più delle somiglianze, così è anche per Spinoza e Hobbes. Le opere di quest’ultimo erano conosciute in Olanda ed è evidente come lo stesso Trattato teologico-politico risenta enormemente della loro influenza. Tuttavia, ciò che caratterizza ciascun filosofo sono proprio quegli aspetti che maggiormente lo differenziano rispetto ai suoi predecessori o contemporanei, sicché si può considerare il complesso della filosofia spinoziana come assai differente da quella hobbesiana, anche in ambito politico.
Anche se Spinoza, pur dichiarando di accettare la definizione dell’uomo come «animale sociale»[1], non si può definire integralmente aristotelico, ha comunque una concezione della natura umana non così dissimile da quella dello Stagirita.
Per Spinoza, esiste una condizione naturale di passività della mente umana, che consiste nell’avere questa delle idee inadeguate rispetto alle cause dei suoi stati, che dunque la dominano interamente[2]. Gli affetti primari sono la letizia, che è «la passione per la quale la Mente passa ad una perfezione maggiore», la tristezza, che è «la passione per la quale essa passa ad una perfezione minore»[3], e la cupidità, che è la coscienza dello sforzo di autoconservazione[4]. Tuttavia, l’uomo può dominare le sue passioni giungendo ad una conoscenza adeguata della realtà, e così ottenere su di esse il dominio, divenendo attivo e, perciò, libero. Questo implica che da parte di Spinoza vi sia un discreto ottimismo circa le capacità della ragione umana sulle passioni.
Occorre allora analizzare come avvenga questa transizione dalla passività all’attività, dalla schiavitù alla libertà, dall’ignoranza alla razionalità. Innanzitutto, stando la definizione di letizia e tristezza sopra riportata, si nota come anche un affetto positivo come la gioia sia trattato come passione, il che significa che l’uomo non è misero in quanto le passioni lo rendono inevitabilmente infelice, ma soltanto che l’uomo, finché non agisce secondo ragione, non può dirsi causa adeguata delle cose e perciò non può considerarsi libero. E la libertà dell’uomo è l’unica cosa, per Spinoza, che conta davvero.
Ma, come ha notato Paolo Cristofolini, secondo Spinoza «si può parlare di perfezione o imperfezione (EIVPraef.) solo per le res artificiales, quando ci sia nota la mens opificis: pertanto, gioia e tristezza sono passaggi interpretabili solo progettualmente, dal punto di vista di una mente artefice». Ma Spinoza, immanentizzando la divinità, esclude che essa agisca per fini, né il singolo soggetto può essere questa mente artefice, essendo passivo. «Rimane il nos, un soggetto umano plurale e complesso, che produce socialmente il perfezionamento dei soggetti singoli»[5]. Il che significa che la perfezione o l’imperfezione verso la quale l’anima muta, dipende interamente dal contesto in cui essa è inserita. Le passioni, allora, non sono qualcosa di privato ed individuale, ma hanno cause e conseguenze sociali. Gioia e tristezza, rispettivamente, aumentano o diminuiscono, infatti, la potenza d’agire di un individuo[6].
Vi è poi un’ulteriore transitio, che è quella dalla passività dei moti dell’animo alla loro attività. Da questa va però esclusa la tristezza, che non può essere riferita alla mente in quanto attiva, essendo un ostacolo alla sua potenza d’agire[7]. Questo passaggio avviene con il raggiungimento del secondo genere di conoscenza, che è la ragione e consiste nel conoscere le cose avendone idee adeguate (essa segue all’opinione o immaginazione ed è seguita dalla scienza intuitiva, che dalla conoscenza di Dio deriva la conoscenza dell’essenza delle singole cose[8]).
Ma la conoscenza di secondo genere dei propri affetti corrisponde anche all’amore per Dio, in quanto considerato come causa della propria attività[9] e questo amore è di natura tale che «non può essere contaminano né da un affetto d’Invidia, né da un affetto di Gelosia; ma è tanto più alimentato quanto più numerosi sono gli uomini che immaginiamo uniti con Dio dal medesimo vincolo d’amore»[10]. Questo accrescimento dell’amor erga Deum quando si immagini che gli altri lo condividano, è dovuto al fatto che esso corrisponde alla piena attività razionale dell’uomo ed essendo che «gli uomini, in quanto vivono sotto la guida della ragione, sono utilissimi all’uomo», allora «sotto la guida della ragione noi ci sforzeremo necessariamente di far sì che gli uomini vivano sotto la guida della ragione»[11]. Quest’amore è il «summum bonum»[12], il quale così risulta pienamente realizzato soltanto se tutti ne partecipano e viene ad essere il risultato di una società armoniosa nella quale gli uomini sono utili gli uni agli altri.
Distinta dal sommo bene è, però, la condizione di beatitudine, la quale conclude l’itinerario della conoscenza di terzo genere. Questa acquiescentia[13], tuttavia, non può essere considerata al pari di un’estasi mistica, ma è, al contrario, il fondamento per la conoscenza dell’essenza delle res singulares[14], la quale soltanto può guidare l’azione nel modo più perfetto. Questa concezione della conoscenza suprema è attestata dalla dichiarazione di metodo che conclude il primo capitolo del Trattato politico: «le cause e le fondamenta naturali del governo non vanno ricercate negli insegnamenti della ragione [cioè nel secondo genere di conoscenza], ma vanno dedotte dalla comune natura, ovvero condizione, degli uomini [cioè dalla loro essenza, la quale si comprende grazie alla scienza intuitiva, che è il terzo genere di conoscenza]»[15].
Come ha sintetizzato Cristofolini, infatti,

Procedendo secondo il terzo genere di conoscenza, noi possediamo innanzitutto l’intelligenza degli attributi del pensiero e dell’estensione, che sono tutto quanto noi possiamo conoscere di Dio, e che compendiano in sé tutta l’essenza dell’uomo; da questa conoscenza intellettuale dell’essenza o natura dell’uomo noi deduciamo, e questa è la vera e propria scienza intuitiva, i moti dell’animo umano, che sono le res singulares, le specificità della natura umana. La scienza politica può nascere a questo punto…[16]

Non dissimilmente da quanto riteneva Aristotele, la natura umana è sì costituita da ineliminabili passioni irrazionali, ma la ragione può dominare su di esse; solo allora l’uomo realizza la propria libertà, e perciò giunge al compimento (all’energheia) della propria essenza. Ma l’agire libero e razionale non può essere inteso individualisticamente: «l’uomo che è guidato dalla ragione, è più libero nello stato (magis in civitate), dove vive secondo il decreto comune, che nella solitudine dove obbedisce solo a se stesso».[17] Come si vede, in Spinoza, ben al contrario che in Hobbes (per il quale l’uomo è libero solo nella propria coscienza privata, perché lo stato costituisce una limitazione al suo arbitrio), rivive uno spirito aristotelico e comunitario che lo pone «in antitesi con il modo di sentire e di pensare proprio del suo tempo»[18].
Così si può comprendere pienamente quello straordinario passo del Trattato politico:

La libertà è una virtù, ossia una perfezione: e dunque tutto ciò che nell’uomo è indizio di impotenza non può essere posto in relazione con la sua libertà. Perciò l’uomo non può affatto dirsi libero perché può non esistere ma solo in quanto ha il potere di esistere e di operare secondo le leggi della natura umana. Quanto più libero noi consideriamo l’uomo, tanto meno possiamo attribuirgli il potere di non usare la ragione e di preferire il male al bene[19].

È vero che «non è nel potere di ogni uomo usare sempre la ragione ed essere al più alto livello della libertà umana»[20], ma nondimeno è questo ciò a cui ciascuno deve tendere.
La filosofia spinoziana è dunque, di contro alle interpretazioni più misticheggianti, caratterizzata da una «forte ascendenza umanistica»[21], essendo per lui, come per Aristotele «la virtù e l’uomo buono in quanto tale sono misura di tutte le cose»[22]. Per Spinoza infatti, il bene e il male non sono una qualità propria delle cose, ma sono termini che assumono un significato soltanto in relazione all’uomo: «per buono… intenderò… ciò che sappiamo con certezza essere un mezzo per avvicinarci sempre più al modello che ci proponiamo della natura umana»; analogamente «diremo più perfetti o più imperfetti gli uomini, secondoché si avvicinino più o meno a questo stesso modello»[23]. Il raggiungimento, da parte dell’uomo, della propria perfezione è perciò molto simile a quella realizzazione dell’energheia rispetto ad una dynamis conosciuta, secondo il modello aristotelico.
Esposta così la complessa antropologia spinoziana, passiamo all’analisi delle sue conseguenze politiche.
Spinoza, come Hobbes, propone l’esperimento mentale dello stato di natura per dare fondamento teorico alla società civile. Ma, mentre Hobbes suppone che in questo stadio pre-politico ciascun individuo viva dominato dalle passioni, nel continuo tentativo di appropriarsi di tutto ciò che può e di difendere strenuamente ciò che ha ottenuto, oltreché la sua stessa vita, per Spinoza anche nello stato di natura vi sono individui che seguono la retta ragione. Tuttavia, egli è costretto ad ammettere, esattamente come Hobbes, che in tale condizione «nessuno… può essere certo della fedeltà dell’altro», e perciò tutti vivono nell’incertezza, nella paura e nell’odio reciproci, ed è dunque poco probabile che, anche colui che viva secondo la guida della ragione, non indulga ad atti di violenza, se non altro per difendere il proprio utile[24]. La costruzione teorica di Spinoza si rivela, sotto questo aspetto, meno coerente rispetto a quella di Hobbes (vedi il cap. XIII del Leviatano)[25]. Pare quasi che Spinoza, che, in tutte le sue opere, dimostra di credere nella capacità della ragione umana di dominare le passioni, non possa concedere che, nello stato di natura, non vi sia nessuno che sia in grado di farlo. Ma è probabile che egli non abbia indugiato, nella sua opera, troppo a lungo su questo tema, semplicemente perché, come dichiara a più riprese, poco interessato ad una costruzione teorica sui fondamenti dello Stato (gli scopi del suo Trattato sono, in effetti, altri[26]).
Vi è, tuttavia, una questione prettamente politica sulla quale, per contro, il pensiero di Spinoza appare assai più aderente alla realtà di fatto che non quello di Hobbes, il quale ultimo si configura spesso come una gigantesca architettura teorica, coerente al suo interno, ma non sempre attenta all’effettività storica. Mi riferisco alle considerazioni svolte da Spinoza nei primi paragrafi del capitolo XVII del Trattato teologico-politico, a principiare dall’affermazione secondo cui «nessuno potrà mai trasferire ad un altro la sua potenza, e di conseguenza il suo diritto, in modo tale da cessare di essere uomo; né si darà mai una suprema potestà tale che possa far eseguire tutto così come vuole»[27] e perciò tutte le considerazioni relative all’istituzione, tramite patto, dello Stato (res publica), «non avverrà mai che esse non restino per molti aspetti pura teoria». Infatti, un potere che volesse regnare nel modo assoluto teorizzato da Hobbes, dovrebbe necessariamente fare violenza sul corpo e sull’animo dei sudditi, provocando in essi una tale ostilità da dover poi temere più essi che non i nemici esterni. In altre parole, Spinoza afferma che un potere assoluto, soprattutto se in mano ad una sola persona (secondo la preferenza di Hobbes), verrebbe inevitabilmente sovvertito a causa dell’odio dei sudditi, mancando così di realizzare lo scopo per il quale era stato istituito.
Va notato che Spinoza è, al pari di Hobbes, teorico del potere assoluto e indivisibile (e perciò concorda con il filosofo inglese anche per quanto riguarda l’unificazione del potere temporale e di quello spirituale nella persona del sovrano), ma Spinoza propende nettamente per un potere democratico, da lui considerato infatti l’unico governo «del tutto assoluto»[28], più vicino allo stato di natura e più rispondente alla natura umana. Infatti il governo democratico è quello che implica la minore alienazione dei diritti che si posseggono in natura ed è anche quello meno esposto al rischio che chi governa lo faccia secondo arbitrio, rendendo leggi delle assurdità[29].
La democrazia è intesa in due possibili modi da Spinoza: o come partecipazione collegiale di tutta la società al governo, o della maggior parte di essa. Tra coloro che partecipano al governo, poi, le decisioni vengono prese secondo il criterio della maggioranza. Nelle pagine in cui tratta del governo, egli però si riferisce molto spesso alla suprema potestà che governa sui sudditi, al simile che governa sul simile, a cose, cioè, che non riguardano la democrazia. Quando tutta la società detiene collegialmente il potere, infatti, «tutti servono se stessi e nessuno è tenuto a servire il suo uguale»[30].
Questo mostra, a mio parere, due cose: 1) Spinoza è idealmente teorico e sostenitore della democrazia diretta: «tutti detengono collegialmente il potere», significa che, se di democrazia si tratta, non sono previste istituzioni di rappresentanza. Tuttavia, 2) il filosofo di Amsterdam tiene costantemente in considerazione la realtà storica e per questo sembra poco speranzoso che si realizzi una democrazia così intesa (che potrebbe concretizzarsi soltanto in comunità di ristrette dimensioni): egli dice «se è possibile» la democrazia, questa è senz’altro la forma migliore di governo; tuttavia, come s’è detto, egli finisce poi col far prevalere una dicotomia tra governanti e governati che è, del resto, la dicotomia che ha storicamente sempre prevalso.
Ma come può essere, Spinoza, insieme un teorico del potere assoluto e della democrazia diretta quale migliore forma di governo? Risponderò dicendo che il potere assoluto, com’è inteso anche da Hobbes, non è altro che il potere di fare le leggi e di farle rispettare. E’ chiaro che questo potere, privo di vincoli (ab-soluto, appunto), può divenire arbitrario, violento, prevaricatore, tirannico. Ma, mentre Hobbes afferma che il termine “tiranno” è stato introdotto con tono dispregiativo da chi non sopportava il peso dell’autorità e che non c’è differenza, politicamente, tra un “tiranno” e un “sovrano” (sia esso un monarca o un’assemblea), Spinoza afferma innanzitutto che il potere, se diviene arbitrario, si inimica i sudditi e non riesce a conservarsi, e inoltre, che il potere, se è democratico, non è altro che la legge consensualmente approvata da tutti i membri della comunità politica.
Il suddito di una monarchia è colui che obbedisce alle leggi del re, mentre un suddito di una democrazia (se è lecito chiamarlo “suddito”), è un individuo che ammette come legge quella da lui stesso approvata (o approvata dalla maggioranza, secondo la regola del gioco cui lui stesso decide di partecipare) e dunque, in un certo senso, non fa che obbedire a se stesso, ciò alla sua ragione: ecco, finalmente, che il potere assoluto, in democrazia, altro non è che il potere assoluto della ragione, che guida le azioni del singolo e della collettività e che punisce le deviazioni per salvaguardare la comunità, distogliendo gli uomini dalle passioni irrazionali. La comunità, tramite la punizione di chi trasgredisce le regole da tutti ammesse, si tutela dalla possibilità sempre presente della disgregazione.
L’autorità coercitiva, in una comunità democratica così intesa, non va dunque identificata con un corpo istituzionale preposto alla repressione del dissenso (come avviene, invece, nelle società dove la democrazia diretta non è nemmeno un’ipotesi), ma è l’autorità della società nel suo complesso. Il corpo sociale si costituisce come una comunità morale e razionale che, nel suo insieme, si difende da chi cerca di romperne le regole. Questo è il suo potere assoluto: in democrazia esso non può essere arbitrario se non nella misura in cui può essere arbitraria una decisione collettivamente presa e sempre revocabile.
Tuttavia, non solo la società democratica, ma qualunque forma di governo, come è presentata da Spinoza, è molto più “aperta” di quella teorizzata da Hobbes. In un certo senso, anche la monarchia e l’aristocrazia, come egli le descrive nel Trattato politico sono “democratiche”, essendo scientificamente progettate per l’espressione il più possibile compiuta dell’interesse di tutti.
Ciò dimostra come il rigore logico dell’argomentazione di Hobbes sia solo apparente e che egli conduca il discorso esattamente là dove lo vuole condurre, mentre Spinoza, partendo dalle stesse premesse, e introducendo quella considerazione di carattere realista di cui si è detto («nessuno potrà mai trasferire ad un altro la sua potenza…»), pone dei precisi limiti al potere. Anzi, dev’essere il potere stesso a porseli, in vista sia della sua mera conservazione (per utilità, dunque), sia per fedeltà al patto: se questo, infatti, aveva come fine la vita pacifica e sicura di tutti i membri della società, un sovrano non può giustamente agire usurpando i diritti dei sudditi (mentre per Hobbes il sovrano è completamente esentato dalla fedeltà al patto).
Da tutte queste considerazioni segue, per Spinoza, che la «legge suprema» dello Stato è «la salvezza di tutto il popolo» a cui «tutte le leggi, tanto umane quanto divine, devono essere adattate»[31]. Questo principio si collega direttamente alla tesi principale del Trattato teologico-politico, ossia l’opportunità imprescindibile della libertà di pensiero, che si sintetizza efficacemente nell’affermazione finis ergo Reipublicae revera libertas est (“Il fine dello Stato, dunque, è la libertà”)[32].
Infine, l’argomentazione di Spinoza presenta un altro aspetto assente in Hobbes, che rende, ancora una volta, la costruzione di quest’ultimo un artificio teorico meno efficace rispetto al discorso spinoziano: si tratta della constatazione dei mezzi attraverso i quali il potere ottiene che i sudditi deliberatamente si adeguino ai suoi principî (i quali erano già stati ben individuati da Platone, come si è visto). Questi sono, potremmo dire, gli apparati simbolico-ideologici attraverso i quali il potere legittima se stesso. Spinoza è infatti convinto che «detiene il massimo potere chi regna sull’animo dei sudditi»[33] e non per niente fa riferimento, tra l’altro, ad Augusto, il quale, notoriamente, proprio sulla propaganda ideologica fondò la stabilità del suo potere.
Ma occorre rilevare che questo subdolo mezzo di addomesticamento degli animi umani non è necessario nell’ambito di una democrazia diretta. Spinoza, infatti, afferma che «se pochi o uno solo detengono il potere, questi devono avere qualcosa di superiore alla comune natura umana». Ma, siccome ciò, secondo Spinoza, è impossibile, perché la natura umana, proprio in quanto natura, è universale, allora questi detentori del potere devono «adoperarsi con tutte le loro forze per convincere il volgo di tale superiorità»[34]; mentre, in democrazia, «nessuno è tenuto a servire il suo uguale»[35], perciò tutto ciò non è necessario.
Per Spinoza, questo dominio sugli animi è «violento», poiché la libertà di pensiero e di giudizio è un diritto naturale di ciascuno «al quale nessuno, anche se volesse, può rinunciare» (p. 649)[36]. Proprio questa irriducibilità dell’animo umano rende, per quanto pervasivi, infine inefficaci i tentativi di sopprimere la libertà individuale; anzi, questi tentativi sono per lo più disastrosi, sia per il progresso delle arti e delle scienze (che non possono progredire senza la libertà di pensiero) e dunque per il prestigio dello Stato, sia per la stabilità di quest’ultimo, come si è già detto.
La libertà umana, che coincide con la sua razionalità, è il supremo valore per ciascuno. Tant’è che Spinoza sostiene che nel momento di stipula del contratto sociale i cittadini alienano tutti i diritti, tranne il diritto di pensare liberamente, che deriva necessariamente dalla natura umana ed è perciò inalienabile. Hobbes invece sopprime completamente la libertà di pensiero, che può essere foriera di sollevazioni e perciò può attentare all’incolumità dello stato, ed afferma che l’unico diritto che non si aliena è quello alla vita. Evidentemente per Hobbes l’attaccamento alla vita non si attenua nemmeno nelle peggiori condizioni, quando la ragione umana è impedita nella sua libera attività da un potere arbitrario, mentre per Spinoza la vita è un valore meno importante rispetto alla ragione e alla libertà.


[1] B. Spinoza, Trattato politico, 2.15.
[2] Etica III, 1; IV, Praef.
[3] Ivi, III, 11, Sch.
[4] Ivi, III, 10, Sch.
[5] P. Cristofolini, La scienza intuitiva di Spinoza, ETS, Pisa 2009, p. 52.
[6] Etica IV, Praef.
[7] III, 59, Dem.
[8] II, 40, Sch. II.
[9] Cfr. V, 15, Dem.; la definizione di amore è «Letizia accompagnata dall’idea di una causa esterna» (III, Aff. Def., VI)
[10] V, 20; cfr. anche V, 15.
[11] IV, 37, Dem.
[12] V, 20, Dem.
[13] V, 27.
[14] Cfr. V, 24.
[15] Trattato politico, 1.7 (trad. modificata).
[16] P. Cristofolini, La scienza intuitiva cit., p. 55.
[17] IV, 73.
[18] D. Fusaro, Minima mercatalia cit., p. 215.
[19] Trattato politico, 2.7.
[20] Ivi, 2.8.
[21] P. Cristofolini, La scienza intuitiva cit., p. 56.
[22] Vedi n. 66.
[23] IV, Praef.
[24] Trattato teologico-politico, XVI.
[25] Cfr. Leviatano, XIII.
[26] Dal punto di vista politico, il principale è mostrare come la libertà di pensiero giovi allo Stato; cfr. cap. XVI.
[27] Ovviamente in queste parole è presente un’implicita critica all’assolutismo hobbesiano, anche se il filosofo inglese rimane probabilmente la maggiore fonte di ispirazione per il Trattato teologico-politico.
[28] Trattato politico, 11.1.
[29] Trattato teologico-politico, XVI.
[30] Ivi, V.
[31] Ivi, XIX.
[32] Ivi, XX.
[33] Ivi, XVII, corsivo mio.
[34] Ivi, V.
[35] Ibidem.
[36] Ivi, XX.

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