sabato 25 agosto 2012

Natura umana e teoria politica in Hobbes


1.     HOBBES. La fondazione individualistica dello Stato.


Dicono che per natura il commettere ingiustizia è un bene,
e subirla un male, ma che il male connesso al subire ingiustizia
sia più grande del bene connesso al compierla. Sicché quando hanno
reciprocamente commesso e subìto ingiustizia, e hanno provato
il sapore dell’una e dell’altra cosa, a coloro che non possono sfuggire
la seconda cosa e scegliere la prima, sembra vantaggioso stipulare
il patto reciproco di non commettere né subire ingiustizia a vicenda.

PLATONE

Io credo che difficilmente si può dire qualcosa di più assurdo
in filosofia naturale di ciò che si chiama ora Metafisica di Aristotele,
o di più ripugnante al governo di quanto ha detto nella sua Politica,
o di più ignorante di una gran parte della sua Etica.

HOBBES




Una delle differenze maggiori tra la concezione politica degli Antichi e quella dei Moderni riguarda l’origine e lo scopo della vita in società. Nella prospettiva dei Greci la comunità politica nasce per necessità naturale, in quanto l’uomo da solo non può realizzare i propri bisogni. È vero che per Platone la polis è un costrutto artificiale, ma nondimeno ineludibile ed il suo scopo è comunque la realizzazione di un bene condiviso da tutti i cittadini. Aristotele poi ha ancora accentuato il carattere di naturalità della politica, sostenendo che l’uomo non soltanto non può vivere da solo, ma non può nemmeno realizzare la propria essenza; anche per Aristotele, poi, l’idea di un bene comune è imprescindibile.
Nelle parole di Hannah Arendt, la polis «è l’organizzazione delle persone così come scaturisce dal loro agire e parlare insieme, e il suo autentico spazio si realizza fra le persone che vivono insieme a questo scopo, indipendentemente dal luogo in cui si trovano»[1].
Al contrario, per la teoria contrattualistica, che apre la riflessione politica dell’età moderna, la società civile nasce unicamente per preservare la vita di esseri che, non fosse che per avere garanzia di quiete, potrebbero vivere anche senza istituire un patto tra di loro, poiché non esiste nessun bene comune da perseguire a livello comunitario, ma soltanto beni individuali e interessi privati: difendere questi è lo scopo primario dell’istituzione statale. Il bene privato e quello comune, che nella prospettiva greca dovevano coincidere, sono da Hobbes completamente separati: solo per animali come le api tale coincidenza continua a valere, «l’uomo invece non stima come bene quasi nient’altro che ciò in cui si trova, per chi lo possiede, qualcosa di distinto e di superiore rispetto a quello che possiedono gli altri»[2].
Secondo John Locke il potere politico è sostanzialmente il potere di stabilire non tanto delle leggi di governo quanto di tutela, e di stabilire delle pene adeguate a chi violi la proprietà altrui (che comprende anche la vita); la società esiste al solo scopo della «conservazione della proprietà di tutti i membri»[3].
Rousseau, pur essendo teorico della volontà generale del corpo collettivo della società[4], non fa tuttavia eccezione: anche per lui l’uomo, prima di formare la società, possiede un’ «esistenza fisica e indipendente»[5] e scopo dell’istituzione è «trovare una forma di associazione che protegga e difenda con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato»[6].
La teoria politica di Hobbes, coerentemente con il suo assunto antropologico, è l’estremizzazione di questi principi comuni al contrattualismo moderno. Se può esistere uno scopo condiviso, per Hobbes, esso esiste soltanto in vista del tornaconto dei singoli individui: ogni rapporto umano è puramente strumentale e utilitaristico e perciò, anche se nello Stato gli individui formano un unico corpo (il Leviatano), essi rimangono pur sempre atomi sociali.
È naturale, allora, che Hobbes esprima un totale rigetto nei confronti della filosofia di Aristotele e, in generale, dei Greci. Per il relativismo morale di Hobbes non è concepibile che si pensi ad un concetto di giusto o di buono che valga assolutamente. Soltanto il sovrano assoluto può determinare i valori che devono valere per i sudditi, i quali non hanno possibilità di metterli in discussione. Perciò, esattamente al contrario di come è realmente, per Hobbes i Greci «fanno regole del buono e del cattivo ciò che piace o non piace loro… ognuno fa ciò che sembra buono ai suoi occhi per sovvertire lo stato»[7]. Elevando la legge a valore assoluto, tutto ciò che va oltre di essa appare al filosofo inglese come arbitrario.

Infatti queste parole, buono, cattivo, e spregevole, sono sempre usate in relazione alla persona che le usa, dato che non c’è nulla che sia tale semplicemente e assolutamente, e non c’è alcuna regola comune di ciò che è buono e cattivo che sia derivata dalla natura degli oggetti stessi; essa deriva invece dalla persona (dove non c’è lo stato), o (in uno stato) dalla persona che lo rappresenta, oppure da un arbitro o giudice, che gli uomini in disaccordo istituiranno per comune consenso e della cui sentenza faranno la regola[8].

Malgrado il suo relativismo Hobbes è tuttavia costretto, per la sua teoria politica, ad ammettere un universale: tale è la natura umana, che si caratterizza per tre aspetti che la portano inevitabilmente ad ingenerare il conflitto tra i singoli: la competitività, la diffidenza e l’orgoglio[9]. Vi è, poi, il fondamentale istinto alla conservazione della propria vita e dell’integrità del proprio corpo. La «somma» del diritto naturale è infatti «difendersi con tutti i mezzi possibili»[10] e questo è l’unico diritto inalienabile, tanto che nemmeno il sovrano assoluto può forzare il suddito a subire il male senza difesa. Gli uomini sono per natura tutti uguali, così caratterizzati, ciò che è dimostrato dal fatto che ciascuno può uccidere il proprio simile, «ciascuno per un altro può rappresentare la violenza ultima»[11].
L’uomo allora, lungi dall’essere uno zoon politikon, «non ha piacere nello stare in compagnia»[12] e non esiste quel tipo di amicizia descritto da Aristotele, basato sull’affetto e sulla concordia, e che ha una sua importante funzione nel mantenere coeso il tessuto sociale della polis[13]. Al, contrario, non esistendo una virtù sulla quale basare un rapporto, per Hobbes «non cerchiamo per natura dei soci, ma di trarre da essi onore e vantaggio: questi desideriamo in primo luogo, quelli secondariamente»[14]. Anche la funzione del linguaggio, la cui importanza per Aristotele era legata alla vita comunitaria, viene capovolta dal pessimismo hobbesiano: «la lingua dell’uomo è una tromba di guerra e di sedizione»[15].
Allontanandosi da Aristotele, Hobbes si avvicina a Platone, con il quale condivide il pessimismo antropologico e alcuni dei suoi necessari esiti. Il più evidente di questi è la considerazione del corpo sociale come un artificio, che nell’uno si configura come Leviatano, che rappresenta l’unione di una moltitudine in una sola persona dei cui atti «ogni membro… con patti reciproci, l’uno nei confronti dell’altro e viceversa, si è fatto autore, affinché possa usare la forza e i mezzi di tutti, come penserà sia vantaggioso per la loro pace e la comune difesa»[16]; nell’altro si configura come l’immagine ingrandita dell’anima di un singolo individuo, le cui parti devono essere tra di loro armonizzate sotto il comando di quella razionale, di modo che ciascuna svolga adeguatamente le proprie naturali funzioni.
Del resto, l’origine contrattualistica dello stato come la descrive Hobbes era già stata anticipata di molti secoli nella descrizione genetica che Platone aveva assegnato alla parte di Glaucone nella Repubblica. Per questo personaggio, che come abbiamo detto sopra è espressione di convinzioni in larga parte condivise da Platone stesso, l’origine della società si deve al fatto che «per natura il commettere ingiustizia è un bene, e subirla un male, ma… il male connesso al subire ingiustizia [è] più grande del bene connesso al compierla. Sicché quando hanno reciprocamente commesso e subìto ingiustizia, e hanno provato il sapore dell’una e dell’altra cosa, a coloro che non possono sfuggire la seconda cosa e scegliere la prima, sembra vantaggioso stipulare il patto reciproco di non commettere né subire ingiustizia a vicenda»[17]. Di conseguenza, afferma Glaucone, «il giusto… non viene amato come bene, ma è apprezzato perché manca la forza di recare ingiustizia»[18]. In termini hobbesiani, tale forza il suddito l’ha alienata a favore del sovrano, obbligandosi con ciò a sottostare a delle leggi, le quali non sono altro che un second best rispetto al diritto naturale che ciascuno ha su qualunque cosa, il quale sarebbe la condizione ottimale per l’uomo se non ci fossero gli altri individui con i quali il conflitto diventa inevitabile.
Il potere che viene a costituirsi per ovviare agli inconvenienti dello stato di natura è un potere assoluto e coercitivo: la logica realista di Hobbes vuole che «dove c’è eguaglianza… non può esserci che conflitto, e dove si supera il conflitto non può esserci che gerarchia e struttura di dominio»[19]. Il governo del sovrano dev’essere teso alla conservazione più duratura possibile dell’ordine sociale, pena la ricaduta nello stato di guerra; dev’essere inoltre garantita la continuità al governo, quando un sovrano per qualche ragione decada, di modo che il Leviatano disponga di una «eternità di vita artificiale»[20].
Ancora una volta la filosofia politica tenta di espungere la conflittualità eraclitea dall’ordine sociale, tentando di renderlo immutabile come l’Essere parmenideo. Ma la guerra non può essere eliminata e resta come minaccia latente all’interno della società e come sempre possibile modalità di rapporto tra gli stati (o le poleis).
Tutti questi caratteri della teoria politica sono il fondamento della forma-Stato moderna. In essa, ogni potere si dà come assoluto: si tratti di un singolo o di un’assemblea, come dice Hobbes, in ogni caso la persona del sovrano avrà pieni poteri. E anche laddove si ponga la legge al di sopra dei governanti, se ne limiterà sì l’arbitrio, ma non di meno il potere resterà assoluto. La democrazia, intesa come forma di partecipazione di tutto il tessuto sociale alla vita politica, non può trovare realizzazione all’interno dello Stato, nella forma che lo ha caratterizzato nei secoli finora trascorsi. Soltanto «un popolo di dèi si governerebbe democraticamente» secondo Rousseau[21]; mentre secondo Marx soltanto con il superamento dello Stato si potrà estinguere il rapporto conflittuale tra le classi che impedisce l’autogoverno democratico facendo prevalere, tramite la legge, l’interesse di una fazione su quello universale.
Lo Stato sempre assume le caratteristiche di violenza e coercizione che Hobbes gli attribuisce: il dissenso è disciplinato in maniera tale che non possa nuocere all’autorità e all’ordine costituito e «tutti gli uomini che non sono sudditi o sono nemici, oppure hanno cessato di esserlo per un patto precedente»[22]. Lungi dall’essere il prodotto della saggezza riconosciuta da una comunità, la legge non è altro che l’espressione di un potere lontano dal cittadino, il quale paradossalmente rappresenta ciò che, come ha scritto Rousseau, non può essere rappresentato, cioè la sovranità: «la volontà non si rappresenta: o è essa stessa o è un’altra; una via di mezzo non esiste»[23].
Lo Stato di Hobbes e la polis di Platone esercitano un capillare controllo politico sui diversi aspetti della vita sociale e privata degli individui, avendo il merito di sostenere un indiscusso primato della politica sugli altri aspetti della «società dei bisogni».
Oggi, che l’economia ha preso il sopravvento ed ha schiavizzato non soltanto l’esistenza dei singoli individui, ma anche quella di interi Stati, è evidente che il modello hobbesiano è entrato in una fase di forse irreversibile crisi e declino. Ciononostante la retorica politica è rimasta del tutto immune al cambiamento, predicando la fedeltà a leggi che sono promulgate da professionisti della politica e dell’economia contro qualsiasi interesse comune dei cittadini; continuando ad incensare la sacralità di una Costituzione ormai calpestata dalla scomparsa dell’iniziativa politica e dei più basilari principi della democrazia rappresentativa. Nuove forme di organizzazione politica “dal basso” prendono intanto piede, e il dissenso verso una politica così condotta si fa ormai sentire con una certa frequenza, determinando un clima politico che di recente Alain Badiou ha definito di «rivolta latente», che potrebbe sortire «un esito imprevedibile rispetto alle nostre mortifere “democrazie”»[24].



[1] H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano, 2006 (1964), p. 145.
[2] T. Hobbes, De cive, V, 5.
[3] J. Locke, Secondo trattato sul governo, VII, 88.
[4] J.- J. Rousseau, Il contratto sociale, II, 6.
[5] Ivi, II, 7I.
[6] Ivi, I, 6.
[7] T. Hobbes, Leviatano, XLVI.
[8] Ivi, VI.
[9] Cfr. Ivi, XII.
[10] Ivi, XIV.
[11] G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di R. Bordoli, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 500.
[12] T. Hobbes, Leviatano, XIII.
[13] EN VIII.
[14] Thomas Hobbes, De cive, I, 2.
[15] Ivi, V, 5.
[16] Leviatano, XVII.
[17] Repubblica 358e – 359a.
[18] Ivi, 359b.
[19] P. P. Portinaro, Il realismo cit., p. 26.
[20] Leviatano, XIX.
[21] Il contratto sociale, III, 4.
[22] Leviatano, XXVIII.
[23] Il contratto sociale, III, 15.
[24] A. Badiou, Il risveglio della storia. Filosofia delle nuove rivolte mondiali, Adriano Salani, Milano 2012 (2011), p. 38.

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