1.
HOBBES. La
fondazione individualistica dello Stato.
Dicono che per natura il commettere ingiustizia è un bene,
e subirla un male, ma che il male connesso al subire ingiustizia
sia più grande del bene connesso al compierla. Sicché quando hanno
reciprocamente commesso e subìto ingiustizia, e hanno provato
il sapore dell’una e dell’altra cosa, a coloro che non possono sfuggire
la seconda cosa e scegliere la prima, sembra vantaggioso stipulare
il patto reciproco di non commettere né subire ingiustizia a vicenda.
PLATONE
Io credo che difficilmente si può dire qualcosa di più assurdo
in filosofia naturale di ciò che si chiama ora Metafisica di Aristotele,
o di più ripugnante al governo di quanto ha detto nella sua Politica,
o di più ignorante di una gran parte della sua Etica.
HOBBES
Una delle differenze maggiori tra la concezione politica degli Antichi e
quella dei Moderni riguarda l’origine e lo scopo della vita in società. Nella
prospettiva dei Greci la comunità politica nasce per necessità naturale, in
quanto l’uomo da solo non può realizzare i propri bisogni. È vero che per
Platone la polis è un costrutto
artificiale, ma nondimeno ineludibile ed il suo scopo è comunque la
realizzazione di un bene condiviso da tutti i cittadini. Aristotele poi ha
ancora accentuato il carattere di naturalità della politica, sostenendo che
l’uomo non soltanto non può vivere da solo, ma non può nemmeno realizzare la
propria essenza; anche per Aristotele, poi, l’idea di un bene comune è
imprescindibile.
Nelle parole di Hannah Arendt, la polis
«è l’organizzazione delle persone così come scaturisce dal loro agire e
parlare insieme, e il suo autentico spazio si realizza fra le persone che
vivono insieme a questo scopo, indipendentemente dal luogo in cui si trovano»[1].
Al contrario, per la teoria contrattualistica, che apre la riflessione
politica dell’età moderna, la società civile nasce unicamente per preservare la
vita di esseri che, non fosse che per avere garanzia di quiete, potrebbero
vivere anche senza istituire un patto tra di loro, poiché non esiste nessun
bene comune da perseguire a livello comunitario, ma soltanto beni individuali e
interessi privati: difendere questi è lo scopo primario dell’istituzione
statale. Il bene privato e quello comune, che nella prospettiva greca dovevano
coincidere, sono da Hobbes completamente separati: solo per animali come le api
tale coincidenza continua a valere, «l’uomo invece non stima come bene quasi
nient’altro che ciò in cui si trova, per chi lo possiede, qualcosa di distinto
e di superiore rispetto a quello che possiedono gli altri»[2].
Secondo John Locke il potere politico è sostanzialmente il potere di
stabilire non tanto delle leggi di governo quanto di tutela, e di stabilire
delle pene adeguate a chi violi la proprietà altrui (che comprende anche la
vita); la società esiste al solo scopo della «conservazione della proprietà di
tutti i membri»[3].
Rousseau, pur essendo teorico della volontà generale del corpo collettivo
della società[4], non fa
tuttavia eccezione: anche per lui l’uomo, prima di formare la società, possiede
un’ «esistenza fisica e indipendente»[5] e scopo
dell’istituzione è «trovare una forma di associazione che protegga e difenda
con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato»[6].
La teoria politica di Hobbes, coerentemente con il suo assunto
antropologico, è l’estremizzazione di questi principi comuni al contrattualismo
moderno. Se può esistere uno scopo condiviso, per Hobbes, esso esiste soltanto
in vista del tornaconto dei singoli individui: ogni rapporto umano è puramente
strumentale e utilitaristico e perciò, anche se nello Stato gli individui
formano un unico corpo (il Leviatano), essi rimangono pur sempre atomi sociali.
È naturale, allora, che Hobbes esprima un totale rigetto nei confronti
della filosofia di Aristotele e, in generale, dei Greci. Per il relativismo
morale di Hobbes non è concepibile che si pensi ad un concetto di giusto o di
buono che valga assolutamente. Soltanto il sovrano assoluto può determinare i
valori che devono valere per i sudditi, i quali non hanno possibilità di
metterli in discussione. Perciò, esattamente al contrario di come è realmente,
per Hobbes i Greci «fanno regole del buono
e del cattivo ciò che piace o non
piace loro… ognuno fa ciò che sembra buono ai suoi occhi per sovvertire lo
stato»[7].
Elevando la legge a valore assoluto, tutto ciò che va oltre di essa appare al
filosofo inglese come arbitrario.
Infatti
queste parole, buono, cattivo, e spregevole, sono sempre usate in relazione
alla persona che le usa, dato che non c’è nulla che sia tale semplicemente e
assolutamente, e non c’è alcuna regola comune di ciò che è buono e cattivo che
sia derivata dalla natura degli oggetti stessi; essa deriva invece dalla
persona (dove non c’è lo stato), o (in uno stato) dalla persona che lo
rappresenta, oppure da un arbitro o giudice, che gli uomini in disaccordo
istituiranno per comune consenso e della cui sentenza faranno la regola[8].
Malgrado il suo relativismo Hobbes è tuttavia
costretto, per la sua teoria politica, ad ammettere un universale: tale è la
natura umana, che si caratterizza per tre aspetti che la portano
inevitabilmente ad ingenerare il conflitto tra i singoli: la competitività, la
diffidenza e l’orgoglio[9]. Vi è,
poi, il fondamentale istinto alla conservazione della propria vita e
dell’integrità del proprio corpo. La «somma» del diritto naturale è infatti «difendersi con tutti i mezzi possibili»[10] e questo
è l’unico diritto inalienabile, tanto che nemmeno il sovrano assoluto può
forzare il suddito a subire il male senza difesa. Gli uomini sono per natura
tutti uguali, così caratterizzati, ciò che è dimostrato dal fatto che ciascuno
può uccidere il proprio simile, «ciascuno per un altro può rappresentare la
violenza ultima»[11].
L’uomo allora, lungi dall’essere uno zoon politikon, «non ha piacere nello
stare in compagnia»[12] e non
esiste quel tipo di amicizia descritto da Aristotele, basato sull’affetto e
sulla concordia, e che ha una sua importante funzione nel mantenere coeso il
tessuto sociale della polis[13]. Al,
contrario, non esistendo una virtù sulla quale basare un rapporto, per Hobbes
«non cerchiamo per natura dei soci, ma di trarre da essi onore e vantaggio:
questi desideriamo in primo luogo, quelli secondariamente»[14]. Anche
la funzione del linguaggio, la cui importanza per Aristotele era legata alla
vita comunitaria, viene capovolta dal pessimismo hobbesiano: «la lingua
dell’uomo è una tromba di guerra e di sedizione»[15].
Allontanandosi da Aristotele, Hobbes si avvicina a
Platone, con il quale condivide il pessimismo antropologico e alcuni dei suoi
necessari esiti. Il più evidente di questi è la considerazione del corpo
sociale come un artificio, che nell’uno si configura come Leviatano, che rappresenta
l’unione di una moltitudine in una sola persona dei cui atti «ogni membro… con patti reciproci, l’uno nei
confronti dell’altro e viceversa, si è fatto autore, affinché possa usare la
forza e i mezzi di tutti, come penserà sia vantaggioso per la loro pace e la
comune difesa»[16];
nell’altro si configura come l’immagine ingrandita dell’anima di un singolo
individuo, le cui parti devono essere tra di loro armonizzate sotto il comando
di quella razionale, di modo che ciascuna svolga adeguatamente le proprie
naturali funzioni.
Del resto, l’origine contrattualistica dello stato come la descrive
Hobbes era già stata anticipata di molti secoli nella descrizione genetica che
Platone aveva assegnato alla parte di Glaucone nella Repubblica. Per questo personaggio, che come abbiamo detto sopra è
espressione di convinzioni in larga parte condivise da Platone stesso, l’origine
della società si deve al fatto che «per natura il commettere ingiustizia è un
bene, e subirla un male, ma… il male connesso al subire ingiustizia [è] più
grande del bene connesso al compierla. Sicché quando hanno reciprocamente
commesso e subìto ingiustizia, e hanno provato il sapore dell’una e dell’altra
cosa, a coloro che non possono sfuggire la seconda cosa e scegliere la prima,
sembra vantaggioso stipulare il patto reciproco di non commettere né subire
ingiustizia a vicenda»[17]. Di
conseguenza, afferma Glaucone, «il giusto… non viene amato come bene, ma è
apprezzato perché manca la forza di recare ingiustizia»[18]. In
termini hobbesiani, tale forza il suddito l’ha alienata a favore del sovrano,
obbligandosi con ciò a sottostare a delle leggi, le quali non sono altro che un
second best rispetto al diritto
naturale che ciascuno ha su qualunque cosa, il quale sarebbe la condizione
ottimale per l’uomo se non ci fossero gli altri individui con i quali il
conflitto diventa inevitabile.
Il potere che viene a costituirsi per ovviare agli inconvenienti dello
stato di natura è un potere assoluto e coercitivo: la logica realista di Hobbes
vuole che «dove c’è eguaglianza… non può esserci che conflitto, e dove si
supera il conflitto non può esserci che gerarchia e struttura di dominio»[19]. Il governo
del sovrano dev’essere teso alla conservazione più duratura possibile
dell’ordine sociale, pena la ricaduta nello stato di guerra; dev’essere inoltre
garantita la continuità al governo, quando un sovrano per qualche ragione
decada, di modo che il Leviatano disponga di una «eternità di vita artificiale»[20].
Ancora una volta la filosofia politica tenta di espungere la
conflittualità eraclitea dall’ordine sociale, tentando di renderlo immutabile
come l’Essere parmenideo. Ma la guerra non può essere eliminata e resta come
minaccia latente all’interno della società e come sempre possibile modalità di
rapporto tra gli stati (o le poleis).
Tutti questi caratteri della teoria politica sono il fondamento della
forma-Stato moderna. In essa, ogni potere si dà come assoluto: si tratti di un
singolo o di un’assemblea, come dice Hobbes, in ogni caso la persona del
sovrano avrà pieni poteri. E anche laddove si ponga la legge al di sopra dei
governanti, se ne limiterà sì l’arbitrio, ma non di meno il potere resterà
assoluto. La democrazia, intesa come forma di partecipazione di tutto il
tessuto sociale alla vita politica, non può trovare realizzazione all’interno
dello Stato, nella forma che lo ha caratterizzato nei secoli finora trascorsi.
Soltanto «un popolo di dèi si governerebbe democraticamente» secondo Rousseau[21]; mentre
secondo Marx soltanto con il superamento dello Stato si potrà estinguere il
rapporto conflittuale tra le classi che impedisce l’autogoverno democratico
facendo prevalere, tramite la legge, l’interesse di una fazione su quello
universale.
Lo Stato sempre assume le caratteristiche di violenza e coercizione che
Hobbes gli attribuisce: il dissenso è disciplinato in maniera tale che non
possa nuocere all’autorità e all’ordine costituito e «tutti gli uomini che non
sono sudditi o sono nemici, oppure hanno cessato di esserlo per un patto precedente»[22]. Lungi
dall’essere il prodotto della saggezza riconosciuta da una comunità, la legge
non è altro che l’espressione di un potere lontano dal cittadino, il quale
paradossalmente rappresenta ciò che, come ha scritto Rousseau, non può essere
rappresentato, cioè la sovranità: «la volontà non si rappresenta: o è essa
stessa o è un’altra; una via di mezzo non esiste»[23].
Lo Stato di Hobbes e la polis di
Platone esercitano un capillare controllo politico sui diversi aspetti della
vita sociale e privata degli individui, avendo il merito di sostenere un
indiscusso primato della politica sugli altri aspetti della «società dei
bisogni».
Oggi, che l’economia ha preso il sopravvento ed ha schiavizzato non
soltanto l’esistenza dei singoli individui, ma anche quella di interi Stati, è
evidente che il modello hobbesiano è entrato in una fase di forse irreversibile
crisi e declino. Ciononostante la retorica politica è rimasta del tutto immune
al cambiamento, predicando la fedeltà a leggi che sono promulgate da professionisti
della politica e dell’economia contro qualsiasi interesse comune dei cittadini;
continuando ad incensare la sacralità di una Costituzione ormai calpestata
dalla scomparsa dell’iniziativa politica e dei più basilari principi della
democrazia rappresentativa. Nuove forme di organizzazione politica “dal basso”
prendono intanto piede, e il dissenso verso una politica così condotta si fa
ormai sentire con una certa frequenza, determinando un clima politico che di
recente Alain Badiou ha definito di «rivolta latente», che potrebbe sortire «un
esito imprevedibile rispetto alle nostre mortifere “democrazie”»[24].
[1] H.
Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano,
2006 (1964), p. 145.
[2] T.
Hobbes, De cive, V, 5.
[3] J.
Locke, Secondo trattato sul governo,
VII, 88.
[4] J.- J.
Rousseau, Il contratto sociale, II,
6.
[5] Ivi, II, 7I.
[6] Ivi, I, 6.
[7] T.
Hobbes, Leviatano, XLVI.
[8] Ivi, VI.
[9] Cfr. Ivi, XII.
[10] Ivi, XIV.
[11] G. W.
F. Hegel, Lezioni sulla storia della
filosofia, a cura di R. Bordoli, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 500.
[12] T.
Hobbes, Leviatano, XIII.
[13] EN VIII.
[14] Thomas
Hobbes, De cive, I, 2.
[15] Ivi, V, 5.
[16] Leviatano, XVII.
[17] Repubblica 358e – 359a.
[18] Ivi, 359b.
[19] P. P.
Portinaro, Il realismo cit., p. 26.
[20] Leviatano, XIX.
[21] Il contratto sociale, III, 4.
[22] Leviatano, XXVIII.
[23] Il contratto sociale, III, 15.
[24] A.
Badiou, Il risveglio della storia.
Filosofia delle nuove rivolte mondiali, Adriano Salani, Milano 2012 (2011),
p. 38.
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