giovedì 9 agosto 2012

Natura umana e teoria politica in Platone

Pubblico a pezzi una tesina che ho scritto per l'esame di Filosofia politica.


INTRODUZIONE




Scopo del presente lavoro è mettere in luce l’importanza degli assunti antropologici che stanno alla base delle teorie politiche di Platone, Aristotele, Hobbes e Spinoza. La scelta degli autori non è casuale: i primi due rappresentano il paradigma antico di costruzioni teoriche basate su una concezione rispettivamente “pessimistica” e “ottimistica” della natura umana; gli ultimi due, ne costituiscono il corrispettivo moderno. Essendo il punto di partenza di questo studio così circoscritto, si istituirà un parallelo, da una parte, tra Platone e Hobbes, dall’altra, tra Aristotele e Spinoza, pur nella consapevolezza dell’abissale diversità di spirito tra gli antichi e i moderni. Cosa, peraltro, che generalmente non viene tenuta in debito conto, quando si vuole, per esempio, ravvisare nella filosofia antica l’enunciazione ancora imperfetta dei principi della politica moderna, o quando si traduce del tutto arbitrariamente “polis con “Stato”.
Naturalmente, i moderni cui si fa riferimento svolgono la loro riflessione in un’epoca storica che vede il consolidamento della forma-Stato cui ancora siamo abituati a pensare (nonostante il suo palese declino) e della quale, ad avviso di scrive, il Leviatano rappresenta l’emblema; gli antichi hanno invece di fronte a loro la realtà politica delle poleis greche, molto più ristrette dei moderni Stati e nelle quali soltanto era possibile che il cittadino manifestasse un «istinto sociale»[1], che in epoca moderna è decisamente scomparso (o, per lo meno, ha cambiato completamente di significato). Di tutto ciò, com’è ovvio, gli scritti dei filosofi sono la forse più eloquente testimonianza e perciò, inevitabilmente, anche di questo si terrà conto, pur nell’intento di gettare un ponte tra l’antico e il moderno.
L’assunto di base del lavoro è il seguente: una concezione della natura umana come conflittuale (sia entro sé, a causa del dominio delle passioni irrazionali, che all’esterno, nelle relazioni con gli altri) ha come necessaria conseguenza una teoria politica che nega la possibilità di una convivenza sociale armonica e ordinata, a meno che il potere si faccia coercitivo ed adoperi la sua violenza sia sul corpo che sull’anima dei sudditi. Che l’uomo sia per natura un animale conflittuale è il presupposto realista[2] di questa filosofia, la quale, tuttavia, proprio in quanto filosofia, non può coerentemente trarre le radicali conseguenze logiche di questa premessa, e descrive pertanto una società politica che, pur con i caratteri cui si è accennato, riesca a mantenere la propria stabilità[3]. Per contro, se si intende l’uomo come animale politico, la conseguenza è una teoria politica che vede nell’armonizzazione delle passioni individuali e dei rapporti sociali un’autentica possibilità, una sfida per la prassi politica, nonché un compito di ciascuno. Ne risulta l’immagine di un potere non coercitivo, ma voluto o per lo meno riconosciuto da tutti i cittadini (non più sudditi).
Ciascuno dei due presupposti è, in qualche modo, una petizione di principio ed è assai probabile che l’adesione ad uno piuttosto che all’altro sia dettata in larga parte dalle esperienze biografiche dell’autore. Nondimeno si intende qui sostenere come la filosofia aristotelica e spinoziana siano in grado di offrire un quadro assai più convincente o, almeno, più efficace nella critica al potere e nella progettazione di una società migliore, il cui auspicio, per quanto così spesso frustrato, è il primo indizio del fatto che il potere non ha ancora assoggettato a sé completamente le singole volontà, ed è una prova del fatto che, come scrive Spinoza, «non può accadere che l’animo sia in assoluto di diritto di un altro, giacché nessuno può trasferire ad un altro il proprio diritto naturale, ossia la propria facoltà di ragionare liberamente e di giudicare di qualunque cosa, né può esservi costretto»[4].
  



 1.     PLATONE. Il conflitto e la sua fragile soluzione.


Il Conflitto è padre di tutte le cose e di tutte re;
gli uni li ha fatti essere dèi, gli altri uomini,
gli uni schiavi e gli altri liberi.

ERACLITO

L’essere è ingenerato e imperituro,
infatti è un intero nel suo insieme, immobile e senza fine.

PARMENIDE




Secondo Aristotele, il nucleo della filosofia platonica si può riassumere come una sintesi fra la dottrina eraclitea dell’eterno divenire delle cose sensibili e quella socratica della necessità di cogliere l’essenza delle cose[5]. Le Idee, infatti, pur con la dinamicità loro riconosciuta nel Sofista[6], mantengono quel carattere di immutabilità e di eternità che è lecito attribuire alle essenze, e che, al contempo, conserva in qualche misura anche la stabilità propria dell’Essere di Parmenide. Di Eraclito è, parimenti, il principio politico fondamentale di tutta le teoria platonica, così come di qualsiasi filosofia realista: «il Conflitto è padre di tutte le cose»[7], il quale principio, nell’ambito nel cosmo sociale, trova la sua giustificazione nel fatto che «l’uomo per natura è irrazionale» e solo partecipando del logos divino egli può divenire razionale[8].
Che la dottrina eraclitea avesse delle implicazioni politiche è non soltanto conforme allo spirito greco cui sopra si è accennato, ma è anche testimoniato da fonti antiche[9], nonché appurato da una consolidata linea interpretativa[10]. Lo stesso discorso, del resto, vale per quel grande legislatore di Elea che fu Parmenide[11], sicché si può affermare con discreta certezza che la dottrina delle Idee, nel suo risvolto politico, costituisce il presupposto per la costruzione di una polis (ideale o reale) che assuma i caratteri propri dell’Essere, contrapponendosi alle spinte dissolutorie del divenire che sono proprie di un’indomata natura umana e che caratterizzano ogni regime politico. Solo un tentativo di questo genere può far pensare alla possibilità che «dalle cose in contrasto» nasca «l’armonia più bella»[12].
Proprio questa ambivalenza tra una consapevolezza tutta realista della natura conflittuale della realtà politica e il desiderio di costruire una città giusta costituisce la cifra della riflessione etico-politica di Platone, in difficile equilibrio tra un ideale altissimo di giustizia e la raccomandazione di forme di vita e di potere che la nostra sensibilità non può considerare ammissibili, come già, del resto, riteneva Aristotele.
La contraddizione tra realismo politico e istanza filosofica emerge chiaramente in alcuni dialoghi di Platone, nei quali egli rappresenta drammaticamente i due principi, i quali dovevano essere entrambi presenti nel suo animo. Un esempio emblematico di ciò è quel passo del Gorgia dove Platone fa dire a Socrate, che dialoga con Polo (il quale sostiene che il compiere ingiustizia non è affatto un male se, come avviene a tanti politici, pur avendolo fatto non se ne subiscono spiacevoli conseguenze): «io non sono d’accordo su nessuna delle cose che dici», e Polo replica con forza: «perché non vuoi! Infatti, anche tu sei del mio parere»[13]. L’integrità morale di Socrate, che corrisponde alla coerenza dell’impianto platonico, è continuamente messa in dubbio dalle difficoltà della prassi virtuosa e dal potere della realtà sull’Idea.
La natura conflittuale dell’anima è espressa da Platone praticamente ovunque egli parli di questa, ma ciò che qui più ci interessa non può che essere il parallelo tra l’anima e la città che egli istituisce nella Repubblica. Qui il filosofo nota come l’elemento peggiore dell’anima guidi l’azione della maggioranza degli individui della città (i bambini, le donne, i servi di casa e i «cosiddetti liberi»)[14], che, così, sono vinti da loro stessi, nel senso che le passioni irrazionali prevalgono nella «guerra intestina»[15] che caratterizza l’uomo. L’irrazionalità è ciò che pone capo alla pleonexia, alla spinta verso la sopraffazione violenta dell’altro in vista dell’acquisizione di prestigio, potere e ricchezza e che costituisce la natura umana secondo il ritratto antropologico tratteggiato nella Repubblica da Glaucone, il quale, lungi dall’essere un personaggio fittizio in bocca del quale Platone mette in bocca tesi opposte alle sue, è in realtà espressione di un pensiero proprio del filosofo. Prova ne sia ciò che Platone ancora scrive nell’ultima delle sue opere: «tutti sono nemici di tutti in ambito pubblico e… in ambito privato ognuno è nemico di se stesso»[16].
Dobbiamo comprendere questa affermazione in tutta la sua portata. In primo luogo, per guerra (polemos) si deve intendere lo scontro armato tra città e città: «per tutti i membri di una comunità è in atto una guerra continua, per tutto il corso della sua esistenza, contro le altre città» , sicché «ciò che la maggior parte degli uomini chiama “pace” non è altro che un nome vuoto: secondo natura, in effetti, fra tutte le città intercorre senza pause una guerra non dichiarata»[17]; in secondo luogo lo scontro armato può avvenire anche tra fazioni opposte della stessa città: in tal caso prende il nome di discordia civile (stasis), assicurarsi dalla quale è compito primo del legislatore[18]; in terzo luogo si può avere guerra tra individui, quando uno usi violenza sull’altro.
Ma per polemos si deve intendere, in quarto luogo, anche un conflitto etico, che avviene tra ciò che è migliore e ciò che è peggiore e che può verificarsi a) tra città e città (quando l’una fosse sotto il dominio dell’altra); b) tra fazioni di una stessa polis; c) tra villaggio e villaggio; d) tra porzioni diverse di uno solo di questi; e) tra famiglia e famiglia; f) tra membri di questa; g) tra individuo e individuo; h) nella singola anima di ciascuno. Nel conflitto etico, si ha vittoria quando la parte migliore domina quella peggiore, sconfitta nel caso contrario.
Come si vede, non soltanto siamo molto vicini alle parole di Hobbes, ma, se possibile, abbiamo una descrizione della brutalità della natura umana ancora più radicale. Le conseguenze politiche di questa condizione sono evidenti: se, infatti, la città può essere giusta solo se nell’animo degli individui regna la giustizia (cioè l’armonia tra le sue parti), il fatto che la comunità progettata nella Repubblica sia soltanto un paradigma rispetto al quale tutte le realtà politiche esistenti possono a ragione dirsi delle degenerazioni, significa precisamente che non si da, se non idealmente, un governo della parte razionale dell’anima, così come storicamente non si è mai visto che un filosofo governasse una città. Tutto ciò, ancora implicito nella Repubblica, diviene esplicito nel Politico, dove si afferma che tutte le forme di governo la cui realizzazione può essere ragionevolmente sperata sono rette da leggi che sono soltanto «imitazione della verità»[19], cioè di «quell’unica [forma di governo] retta per il meglio»[20] che corrisponde al governo di un re, esperto di arte politica, e che ha tutte le caratteristiche per essere assimilato al filosofo della Repubblica.
Così, la tensione ideale che è propria di tutta l’opera platonica (e che si tradusse anche nella sua esperienza siracusana), lascia spazio, al termine della vita del filosofo, all’amara constatazione che è «proprio difficile» che «le costituzioni riescano ad essere incontestabilmente valide tanto nella pratica quanto nella teoria»[21].
Non si può certo affermare che Platone ritenga l’anima degli uomini votata per natura ad un irreversibile abbrutimento, altrimenti non si spiegherebbe l’importanza da lui attribuita alla buona educazione (paideia) nella formazione di una polis giusta. In effetti, nel progettare tanto kallipolis quanto la legislazione per la colonia cretese, il filosofo immagina di poter disporre di carta bianca per quanto riguarda il programma educativo e l’organizzazione delle arti, che tanta parte hanno nella formazione dell’animo del greco. Platone immaginava che se si fosse seguito un determinato programma di educazione si sarebbe potuta crescere l’anima con i virtuosi principi indicati dalla ragione filosofica e, con dei buoni cittadini, erigere una buona città.
Tuttavia sarebbe stato impossibile fondare una polis di soli bambini, sicché gli uomini che l’avrebbero abitata sarebbero stati inevitabilmente già plasmati da un’educazione differente e sicuramente peggiore. Per essi, è facile immaginare, Platone avrebbe predisposto un apparato simbolico di persuasione fatto di miti e di logoi: siccome assai pochi sono in grado di «vincere se stessi», cioè di lasciarsi guidare dalla parte razionale dell’anima, e dunque dalla conoscenza del Bene e della Realtà (che sono le Idee), la maggioranza delle persone non sarà in grado, autonomamente, nemmeno se rettamente educata, di comprendere in che cosa davvero consista la giustizia. Queste persone, perciò, dovranno essere convinte ad agire rettamente non già da un’argomentazione razionale, bensì da una di tipo mitico oppure retorico.
Uno di questi miti è volto a che ciascuno comprenda come la natura gli abbia assegnato un certo ruolo all’interno della comunità, dal quale nessuno deve deferire, poiché nello svolgere correttamente ciascuno il proprio compito consiste la giustizia[22]. Il mito narra della natura aurea dell’anima di coloro che sono destinati a governare la polis, argentea di coloro che dovranno esserne guardiani, ferrea e bronzea dei contadini e degli artigiani[23]. Questa favola è detta addirittura vergognosa per la sua assurdità e, tuttavia, si tratta di una «nobile menzogna», sul cui contenuto occorre persuadere tanto i governanti, nella fase della loro formazione, quanto i restanti cittadini, molti dei quali, probabilmente, non raggiungeranno mai verità più alte di quelle mitiche, e per loro tanto basterà, purché si adeguino all’ordine sociale.
Anche i proemi che Platone suggerisce di anteporre alle leggi della colonia cretese sono logoi di tipo retorico: essi non mirano ad insegnare la Verità (sarebbe impossibile sia per il breve spazio loro riservato, sia per il carattere di scritto adialogico, ben lontano dal filosofare platonico), ma a far sì che «il destinatario del legislatore accolga con benevolenza, con maggiore ricettività la prescrizione, cioè la norma»[24]. Più avanti è chiarito che qualunque mezzo di persuasione può essere accompagnato alla necessaria violenza della legge[25]: «che questo avvenga con fatti o con discorsi, tramite piaceri o dolori, onori o disonori, pene pecuniarie o in doni, o in qualunque modo uno farà del tutto odiare l’ingiustizia, e amare o non odiare la natura del giusto, proprio questo è il compito delle leggi più belle»[26].
Possiamo assimilare, in questa sede, il mito al discorso retorico, in quanto entrambi svolgono quella funzione di psicagogia[27] utile per muovere le anime all’opinione vera che, seppur distinta dall’episteme, è considerata da Platone «sufficiente a guidare rettamente l’azione»[28].
E’ noto come Platone abbia inteso difendere, nei suoi scritti, una netta distinzione tra il filosofo e il sofista (o l’oratore[29]); tuttavia questa è stata difesa proprio perché la difficoltà di mettere in luce le differenze tra l’una e l’altra figura è propria non solo del volgo (che può condannare Socrate per questo), ma anche dei lettori dei dialoghi platonici, nei quali la retorica è sempre così vicina alla filosofia, proprio per il suo ruolo psicagogico.
Per Protagora, come per Platone, sono necessarie la paideia e la persuasione per far sì che la giustizia e il rispetto (doni di Zeus[30]) prevalgano sulla pleonexia propria dello “stato di natura” pre-politico. Platone, condividendo gli assunti antropologici del sofista di Abdera, non può che giungere alle stesse conclusioni. L’unico elemento della dottrina di Protagora (e con lui, di tutti i sofisti) che viene radicalmente espunto dalla filosofia è il relativismo.
La critica che Platone muove a questo è funzionale non soltanto all’ammissione filosofica dell’esistenza di una Verità assoluta, ma anche alla critica del regime democratico. Infatti, come sulla condizione di salute di una persona non vale l’opinione di chiunque, così anche «nello stabilire ciò che sia o non sia conveniente per ciascuna [città]… un consigliere differisce da un altro e… una città è diversa da un’altra, rispetto alla verità»[31]. E così come colui che sa che cosa è bene per il corpo è il possessore dell’arte medica, colui che sa cosa è bene per la città è il detentore dell’arte politica (per questo la sofistica e l’oratoria sono pseudoarti e contraffazioni della politica[32]).
Nel Politico è esplicitamente detto che la retorica dev’essere al servizio di costui[33] e, seguendo la lettura di diversi interpreti, se identifichiamo in tutta l’opera platonica il filosofo con il detentore della scienza politica, possiamo dire che la retorica ha da esser serva anche della filosofia. Tuttavia, ciò non può significare che la filosofia faccia uso della persuasione per far raggiungere a tutti la conoscenza della Verità, ché altrimenti Platone avrebbe inteso fondare una repubblica di filosofi, bensì che la retorica serve alla filosofia per indirizzare le anime di tutti verso quei fini che quest’ultima ha individuato, e che gli ignoranti non sono in grado di individuare autonomamente.
Ma è evidente come questa forma di psicagogia sia effimera: come afferma Parmenide, «il sentiero della Persuasione (Peithó)» è quello che «tien dietro alla Verità (Aletheia[34]; di conseguenza, il convincimento proprio delle anime che sono indirizzate ad un fine senza che ne abbiano compresa la Verità filosofica, è sempre passibile di essere deviato dalle realtà inferiori, che le attraggono maggiormente.
Non è dunque interamente corretto affermare che la persuasione filosofica istilla negli animi la verità, mentre quella sofistica resta relegata all’ambito dell’opinione[35]: entrambe mirano a indirizzare l’opinione e soltanto questa. La differenza può, più precisamente, essere individuata nei presupposti e negli scopi dei rispettivi logoi. La filosofia mira infatti a guidare le anime avendo come presupposto la Verità[36]  e come scopo la Giustizia, mentre il sofista ha come presupposto l’opinione e come scopo l’utile comune. I sofisti-retori, infatti, hanno il compito di conformare l’opinione della maggioranza dei cittadini a ciò che per essi è migliore, ma non in senso assoluto, bensì soltanto in relazione al loro utile collettivo, che è la conservazione della società[37], il che non necessariamente significa che i fini – e tanto meno i mezzi – siano giusti nel senso platonico. Al contrario, i filosofi devono mirare ad adeguare l’opinione alla retta Idea di Giustizia, anche se questa rimane sconosciuta agli occhi dei più.
Secondo l’epilogo del mito della caverna, infatti, i filosofi che sono ascesi alla contemplazione del Bene devono «ridiscendere presso quei prigionieri per condividerne le prove e gli onori», per armonizzare i cittadini «sia con la persuasione sia con la forza»[38], non certo per liberarli dalle loro catene, la qual cosa è semplicemente impossibile, a causa della natura della loro anima.
«Colui che sa», allora, deve, socraticamente, confutare la falsa sapienza che i sofisti hanno ingenerato negli uomini e, platonicamente, persuadere di una verità positiva che possa guidare rettamente l’opinione e, con essa, la prassi dei cittadini. Secondo le Leggi al legislatore «non resta altro che indagare e scoprire che cosa deve far credere alla città per procurarle il massimo beneficio e in questo ambito cercare ogni mezzo perché una tale comunità esprima nel suo complesso in relazione a ciò la stessa e unanime opinione nei canti, nei miti, nei discorsi»[39].
Il carattere illusionistico del potere non può, tuttavia, nascondere la propria illusorietà. Platone attribuisce alla propria politica lo statuto di immagine, paragonando il legislatore al pittore che volgendo lo sguardo «verso ciò che è più vero», istituisce «anche quaggiù le norme relative alle cose belle e giuste e buone»[40]. Ma è noto come per Platone l’immagine abbia uno statuto ontologico ambiguo, in quanto è qualcosa, ma non è ciò di cui è immagine[41]. In questo modo, allora, come ha rilevato Milena Bontempi, Platone «si autodenuncia come lontano dal livello del vero in sé»[42]. Il che non significa che la kallipolis non abbia a suo fondamento l’idea del Bene, bensì che vi è sempre uno iato, insopprimibile, tra la costruzione teorica e la realizzazione pratica e perciò il potere dovrà in qualche modo farsi ideologico, presentando la sua precaria costruzione come qualcosa di naturale, nobile e necessario (si pensi al mito della diversità naturale delle anime sopra citato), anche contro la volontà dei singoli.
Il Bene è perciò destinato a restare lontano dal mondo: «quel che è efficace in politica agisce in realtà in quanto immagine, non in quanto realtà che è»; la sua aderenza all’Idea è parziale: esso non può corrispondervi pienamente (in quanto imitazione), sicché «la politica richiede l’esercizio del sospetto»[43]. La Bontempi sottolinea poi un ulteriore significato che lo statuto di immagine attribuito alla scrittura politica porta con sé: essa pre-figura i buoni cittadini e la buona comunità, di modo che diviene

evidente lo scarto, non solo tra il prodotto (la città) e il suo modello reale (il Bene in sé), ma… anche tra il presente della determinazione politica (scrittura, discorso, corso dell’azione) e il futuro degli uomini buoni che ne provano la veridicità: …la politica è tre volte distante dall’essere vero, né modello ideale né oggetto reale, ma imitazione pre-figurativa di ciò che istanzia la realtà in sé[44].

In tutta evidenza emerge il carattere artificiale della politica e della polis, costruita come un’opera d’arte «per far coesistere il diverso»  e per «sopravvivere alla soverchiante forza della natura»[45]. Ancora una volta, siamo assai vicini alla teoria di Hobbes, che vede nella formazione dello Stato una garanzia per ciascun individuo dalla forza della natura brutale dell’individualità.
Per garantire un’almeno provvisoria stabilità a questo artificio, lo scienziato politico è autorizzato ad ingannare i suoi sudditi, se questo inganno corrisponde al fine nobile (il bene comune) che egli ha individuato e si configura perciò come «nobile menzogna». Ma questo genere di persuasione, oltre ad essere, come si è mostrato sopra, instabile, può essere anche del tutto inefficace. In questi casi il politico è legittimato a far uso della violenza fisica, che può portare all’esilio o all’eliminazione del suddito[46].
Il potere di chi governa non ha bisogno di essere riconosciuto volontariamente da tutta la comunità, avendo la sua garanzia nella retta funzione di governo. E’ vero che, nella Repubblica, se uno dei governanti si dimostrasse inadeguato al compito verrebbe declassato, almeno in linea di principio. Ciononostante la prospettiva platonica non è, sotto certi aspetti, lontana da una mentalità moderna, in base alla quale la rettitudine della legge (o dello scienziato politico) non può essere messa in discussione e chi lo fa deve necessariamente essere un barbaro e un ignorante, da persuadere o comunque sottomettere in nome del suo stesso bene.
Pur non condividendo la critica antiplatonica di stile popperiano, che identifica nel grande filosofo greco un autoritario e un nemico della «società aperta»[47], occorre non sottovalutare questo aspetto. Così come non può essere sottaciuta l’utopia (o meglio, distopia) eugenetica che pervade la Repubblica e di cui rimane eco anche nella più tardiva produzione platonica. Come ha scritto Costanzo Preve, anche questi caratteri corrispondono ad un ideale di salvaguardia della comunità politica, della quale costituiscono tuttavia una «inaccettabile patologia», che si può definire nei termini di una «hybris “scientistica” della regolazione integrale e trasparente della comunità stessa»[48].
Platone teorizza esplicitamente un potere assoluto, nel senso di superiorem non recognoscentes, il quale, tuttavia, essendo detenuto da filosofi, ha di mira il Bene e la Verità; il che lo porta sideralmente distante tanto da Hobbes quanto da qualunque regime totalitario quanto, purtroppo o per fortuna, da qualsiasi regime politico esistente. Così, il realismo politico di Platone si è rovesciato nel più filosofico idealismo[49], a costo, tuttavia, di accettare teoricamente la tirannia del filosofo che può, contraddittoriamente, costringere all’accettazione volontaria della propria autorità[50].
Mi sembra assai inerente allo spirito platonico l’interpretazione che Giovanni Giorgini dà del rapporto tra filosofo e tiranno[51]. Come quello tra filosofo e sofista, anche questo è ambiguo, e l’unica reale differenza tra i due sta nel fine al quale è diretto il loro governare (rispettivamente l’interesse comune e quello privato). È infatti probabile

che Platone non considerasse la tirannide una forma di governo non-riformabile ma ritenesse anzi che la magnitudine e la concentrazione del potere tirannico consentissero al suo detentore di effettuare più facilmente le drastiche riforme necessarie a realizzare l’ordinamento politico veramente giusto perché non vi era necessità di passare per il dibattito pubblico sull’agorà [confrontandosi, dunque, con l’opinione degli incompetenti], né per le trame occulte delle consorterie[52].

Queste considerazioni rivelano ulteriormente il carattere realista del filosofare platonico, imponendoci di ricordare come il modello della polis giusta non fosse soltanto un’astratta utopia, ma il paradigma alla luce del quale condurre una precisa e concreta azione politica. Se si considerano i viaggi compiuti dal filosofo in Sicilia, è probabile che egli ritenesse il progetto davvero realizzabile. In questo modo, dialetticamente, il più utopista si rivela realista, se, di fronte alla crisi storica delle poleis, ne immaginava un nuovo inizio, unica possibilità per reagire al loro declino; per contro, Aristotele, che non elabora alcun progetto radicalmente diverso dalla realtà storica, può essere considerato più utopista, essendo convinto di una riformabilità della situazione esistente[53].




[1] Così M. Pohlenz, L’uomo greco, La nuova Italia, Firenze 1962 (1947), p. 186.
[2] Si fa riferimento, naturalmente, al realismo politico.
[3] Sul rapporto ostile tra filosofia e realismo politico si veda P. P. Portinaro, Il realismo politico, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 33-36.
[4] B. Spinoza, Trattato teologico-politico, XX. (Le traduzioni utilizzate sono indicate in Bibliografia).
[5] Metafisica A, 6, 987 a 29 – 987 b 8.
[6] Cfr. Sofista, 248 a e ss.
[7] DK, 22 B 53.
[8] DK, 22 A 16.
[9] Diogene Laerzio riferisce come il grammatico Diodoto si accorse che lo scritto di Eraclito non verteva tanto sulla physis, quanto sulla politèia: vedi DK, 22 A 1.
[10] Di questa si trova un’efficace sintesi in Diego Fusaro, Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, Bompiani, Milano 2012, in particolare pp. 112-116.
[11] Cfr. DK, 28 A 12; Diego Fusaro, Minima mercatalia cit., pp. 116-120.
[12] Eraclito, DK, 22 B 8.
[13] Gorgia, 471 a-e.
[14] Repubblica, 431 c.
[15] Leggi, 626 e.
[16] Leggi, 626 d.
[17] Ivi, 626 e, corsivo mio.
[18] Ivi, 626 b.
[19] Politico, 300 c.
[20] Ivi, 297 c.
[21] Leggi, 636 a.
[22] Repubblica, 433 a-b, 434 c. La stessa cosa vale per l’anima: 443 d, 444 d.
[23] Repubblica, 414 b – 415 d.
[24] Leggi, 723 b.
[25] Ivi, 721 e.
[26] Ivi, 862 d.
[27] Cfr. Fedro, 271 d.
[28] G. Giorgini, Introduzione, in Platone, Politico, a cura di G. Giorgini, Rizzoli, Milano 2005, p. 42. Dissento dall’opinione di Giorgini, il quale individua un netto distacco tra l’accordo concesso da Platone all’opinione vera nel Politico e nelle Leggi e il discredito della doxa rispetto all’episteme sostenuto in Repubblica. Infatti, se anche in quest’ultima opera si immagina che tutti i cittadini siano giusti, non si può certo immaginare che tutti lo siano per conoscenza del Bene; dunque anche qui Platone deve aver tenuto in una certa considerazione l’opinione vera.
[29] Le due figure sono strettamente imparentate (synghenos) e perciò possono essere assimilate. Cfr. Sofista, 264c ss.
[30] Protagora, 320 c – 322 d.
[31] Teeteto, 172 a.
[32] Gorgia 464 b – 466 a.
[33] Politico, 304 d.
[34] DK, 28 B 2.
[35] «La verità – dice Clinia nelle Leggi – è cosa bella e stabile, ma difficile, pare, da inculcare»: 663 e.
[36] Seguo in parte F. Adorno, Introduzione a Platone, Laterza, Roma-Bari 1978, pp. 144-45, dove, però, si sostiene che la filosofia persuada alla verità.
[37] Cfr. F. Li Vigni, Protagora e l’arte politica, La Scuola di Pitagora, Napoli 2010, pp. 150-152.
[38] Repubblica, 519 d – 520 a.
[39] Leggi, 664 a.
[40] Repubblica, 484 c.
[41] Questo è il problema che sta alla base della trattazione ontologica in Sofista, 236 e ss.
[42] M. Bontempi, Politica e immagini in Platone, in G. M. Chiodi, R. Gatti, (a cura di), La filosofia politica di Platone, FrancoAngeli, Milano 2008, p. 87. Cfr. ibidem per una rapida rassegna dei luoghi in cui Platone istituisce un legame tra la propria scrittura politica e l’immagine artistica.
[43] Ivi, p. 91.
[44] Ibidem.
[45] G. Giorgini, Introduzione cit., p. 33.
[46] Cfr. per esempio Leggi, 735 e – 736 b.
[47] K. Popper, La società aperta e i suoi nemici. Platone totalitario, citato e adeguatamente criticato in F. Ferrari, Introduzione in Platone, Leggi, Rizzoli, Milano 2005, pp. 24 e ss.
[48] C. Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente, Napoli 2006, p. 99.
[49] La filosofia politica di Platone «è insieme negazione e conservazione, autentica Aufhebung» rispetto alla sfida del realismo di stampo tucidideo. (P. P. Portinaro, Il realismo cit., p. 33).
[50] Uso qui il lessico di Leggi 627 e, anche se nello specifico contesto si riferisce ad altro.
[51] G. Giorgini, L’instaurazione dell’ordine nuovo. Un’indagine sulla realizzabilità della città perfetta nella Repubblica di Platone, in G. M. Chiodi, R. Gatti, (a cura di), La filosofia politica cit., pp. 47-64.
[52] Ivi, pp. 50-51.
[53] Questa la posizione espressa da L. Alfieri, Platone Realpolitiker?, in G. M. Chiodi, R. Gatti, (a cura di), La filosofia politica cit., p. 67.

Nessun commento: