INTRODUZIONE
Scopo del presente lavoro è mettere in luce l’importanza degli assunti
antropologici che stanno alla base delle teorie politiche di Platone,
Aristotele, Hobbes e Spinoza. La scelta degli autori non è casuale: i primi due
rappresentano il paradigma antico di costruzioni teoriche basate su una
concezione rispettivamente “pessimistica” e “ottimistica” della natura umana;
gli ultimi due, ne costituiscono il corrispettivo moderno. Essendo il punto di
partenza di questo studio così circoscritto, si istituirà un parallelo, da una
parte, tra Platone e Hobbes, dall’altra, tra Aristotele e Spinoza, pur nella
consapevolezza dell’abissale diversità di spirito tra gli antichi e i moderni.
Cosa, peraltro, che generalmente non viene tenuta in debito conto, quando si
vuole, per esempio, ravvisare nella filosofia antica l’enunciazione ancora
imperfetta dei principi della politica moderna, o quando si traduce del tutto
arbitrariamente “polis” con “Stato”.
Naturalmente, i moderni cui si fa riferimento svolgono la loro riflessione
in un’epoca storica che vede il consolidamento della forma-Stato cui ancora
siamo abituati a pensare (nonostante il suo palese declino) e della quale, ad
avviso di scrive, il Leviatano rappresenta l’emblema; gli antichi hanno invece
di fronte a loro la realtà politica delle poleis
greche, molto più ristrette dei moderni Stati e nelle quali soltanto era
possibile che il cittadino manifestasse un «istinto sociale»[1], che in
epoca moderna è decisamente scomparso (o, per lo meno, ha cambiato
completamente di significato). Di tutto ciò, com’è ovvio, gli scritti dei
filosofi sono la forse più eloquente testimonianza e perciò, inevitabilmente,
anche di questo si terrà conto, pur nell’intento di gettare un ponte tra
l’antico e il moderno.
L’assunto di base del lavoro è il seguente: una concezione della natura
umana come conflittuale (sia entro sé, a causa del dominio delle passioni
irrazionali, che all’esterno, nelle relazioni con gli altri) ha come necessaria
conseguenza una teoria politica che nega la possibilità di una convivenza
sociale armonica e ordinata, a meno che il potere si faccia coercitivo ed
adoperi la sua violenza sia sul corpo che sull’anima dei sudditi. Che l’uomo
sia per natura un animale conflittuale è il presupposto realista[2] di
questa filosofia, la quale, tuttavia, proprio in quanto filosofia, non può coerentemente
trarre le radicali conseguenze logiche di questa premessa, e descrive pertanto
una società politica che, pur con i caratteri cui si è accennato, riesca a
mantenere la propria stabilità[3]. Per
contro, se si intende l’uomo come animale politico, la conseguenza è una teoria
politica che vede nell’armonizzazione delle passioni individuali e dei rapporti
sociali un’autentica possibilità, una sfida per la prassi politica, nonché un
compito di ciascuno. Ne risulta l’immagine di un potere non coercitivo, ma
voluto o per lo meno riconosciuto da tutti i cittadini (non più sudditi).
Ciascuno dei due presupposti è, in qualche modo, una petizione di
principio ed è assai probabile che l’adesione ad uno piuttosto che all’altro
sia dettata in larga parte dalle esperienze biografiche dell’autore. Nondimeno
si intende qui sostenere come la filosofia aristotelica e spinoziana siano in
grado di offrire un quadro assai più convincente o, almeno, più efficace nella
critica al potere e nella progettazione di una società migliore, il cui
auspicio, per quanto così spesso frustrato, è il primo indizio del fatto che il
potere non ha ancora assoggettato a sé completamente le singole volontà, ed è
una prova del fatto che, come scrive Spinoza, «non può accadere che l’animo sia
in assoluto di diritto di un altro, giacché nessuno può trasferire ad un altro
il proprio diritto naturale, ossia la propria facoltà di ragionare liberamente
e di giudicare di qualunque cosa, né può esservi costretto»[4].
Il Conflitto è padre di tutte le cose e di tutte re;
gli uni li ha fatti essere dèi, gli altri uomini,
gli uni schiavi e gli altri liberi.
ERACLITO
L’essere è ingenerato e imperituro,
infatti è un intero nel suo insieme, immobile e senza fine.
PARMENIDE
Secondo Aristotele, il nucleo della filosofia platonica si può riassumere
come una sintesi fra la dottrina eraclitea dell’eterno divenire delle cose
sensibili e quella socratica della necessità di cogliere l’essenza delle cose[5]. Le
Idee, infatti, pur con la dinamicità loro riconosciuta nel Sofista[6],
mantengono quel carattere di immutabilità e di eternità che è lecito attribuire
alle essenze, e che, al contempo, conserva in qualche misura anche la stabilità
propria dell’Essere di Parmenide. Di Eraclito è, parimenti, il principio
politico fondamentale di tutta le teoria platonica, così come di qualsiasi
filosofia realista: «il Conflitto è padre di tutte le cose»[7], il
quale principio, nell’ambito nel cosmo sociale, trova la sua giustificazione
nel fatto che «l’uomo per natura è irrazionale» e solo partecipando del logos divino egli può divenire razionale[8].
Che la dottrina eraclitea avesse delle implicazioni politiche è non
soltanto conforme allo spirito greco cui sopra si è accennato, ma è anche
testimoniato da fonti antiche[9], nonché
appurato da una consolidata linea interpretativa[10]. Lo
stesso discorso, del resto, vale per quel grande legislatore di Elea che fu
Parmenide[11], sicché
si può affermare con discreta certezza che la dottrina delle Idee, nel suo
risvolto politico, costituisce il presupposto per la costruzione di una polis (ideale o reale) che assuma i
caratteri propri dell’Essere, contrapponendosi alle spinte dissolutorie del
divenire che sono proprie di un’indomata natura umana e che caratterizzano ogni
regime politico. Solo un tentativo di questo genere può far pensare alla
possibilità che «dalle cose in contrasto» nasca «l’armonia più bella»[12].
Proprio questa ambivalenza tra una consapevolezza tutta realista della
natura conflittuale della realtà politica e il desiderio di costruire una città
giusta costituisce la cifra della riflessione etico-politica di Platone, in
difficile equilibrio tra un ideale altissimo di giustizia e la raccomandazione
di forme di vita e di potere che la nostra sensibilità non può considerare
ammissibili, come già, del resto, riteneva Aristotele.
La contraddizione tra realismo politico e istanza filosofica emerge
chiaramente in alcuni dialoghi di Platone, nei quali egli rappresenta
drammaticamente i due principi, i quali dovevano essere entrambi presenti nel
suo animo. Un esempio emblematico di ciò è quel passo del Gorgia dove Platone fa dire a Socrate, che dialoga con Polo (il
quale sostiene che il compiere ingiustizia non è affatto un male se, come avviene
a tanti politici, pur avendolo fatto non se ne subiscono spiacevoli
conseguenze): «io non sono d’accordo su nessuna delle cose che dici», e Polo replica
con forza: «perché non vuoi! Infatti, anche tu sei del mio parere»[13].
L’integrità morale di Socrate, che corrisponde alla coerenza dell’impianto
platonico, è continuamente messa in dubbio dalle difficoltà della prassi
virtuosa e dal potere della realtà sull’Idea.
La natura conflittuale dell’anima è espressa da Platone praticamente
ovunque egli parli di questa, ma ciò che qui più ci interessa non può che
essere il parallelo tra l’anima e la città che egli istituisce nella Repubblica. Qui il filosofo nota come
l’elemento peggiore dell’anima guidi l’azione della maggioranza degli individui
della città (i bambini, le donne, i servi di casa e i «cosiddetti liberi»)[14], che,
così, sono vinti da loro stessi, nel senso che le passioni irrazionali
prevalgono nella «guerra intestina»[15] che
caratterizza l’uomo. L’irrazionalità è ciò che pone capo alla pleonexia, alla spinta verso la
sopraffazione violenta dell’altro in vista dell’acquisizione di prestigio,
potere e ricchezza e che costituisce la natura umana secondo il ritratto
antropologico tratteggiato nella Repubblica
da Glaucone, il quale, lungi dall’essere un personaggio fittizio in bocca del
quale Platone mette in bocca tesi opposte alle sue, è in realtà espressione di un
pensiero proprio del filosofo. Prova ne sia ciò che Platone ancora scrive
nell’ultima delle sue opere: «tutti sono nemici di tutti in ambito pubblico e…
in ambito privato ognuno è nemico di se stesso»[16].
Dobbiamo comprendere questa affermazione in tutta la sua portata. In
primo luogo, per guerra (polemos) si
deve intendere lo scontro armato tra città e città: «per tutti i membri di una
comunità è in atto una guerra continua, per tutto il corso della sua esistenza,
contro le altre città» , sicché «ciò che la maggior parte degli uomini chiama
“pace” non è altro che un nome vuoto: secondo
natura, in effetti, fra tutte le città intercorre senza pause una guerra
non dichiarata»[17]; in
secondo luogo lo scontro armato può avvenire anche tra fazioni opposte della
stessa città: in tal caso prende il nome di discordia civile (stasis), assicurarsi dalla quale è
compito primo del legislatore[18]; in
terzo luogo si può avere guerra tra individui, quando uno usi violenza
sull’altro.
Ma per polemos si deve
intendere, in quarto luogo, anche un conflitto etico, che avviene tra ciò che è
migliore e ciò che è peggiore e che può verificarsi a) tra città e città (quando l’una fosse sotto il dominio
dell’altra); b) tra fazioni di una
stessa polis; c) tra villaggio e villaggio; d)
tra porzioni diverse di uno solo di questi; e) tra famiglia e famiglia; f)
tra membri di questa; g) tra
individuo e individuo; h) nella
singola anima di ciascuno. Nel conflitto etico, si ha vittoria quando la parte
migliore domina quella peggiore, sconfitta nel caso contrario.
Come si vede, non soltanto siamo molto vicini alle parole di Hobbes, ma,
se possibile, abbiamo una descrizione della brutalità della natura umana ancora
più radicale. Le conseguenze politiche di questa condizione sono evidenti: se,
infatti, la città può essere giusta solo se nell’animo degli individui regna la
giustizia (cioè l’armonia tra le sue parti), il fatto che la comunità
progettata nella Repubblica sia
soltanto un paradigma rispetto al quale tutte le realtà politiche esistenti
possono a ragione dirsi delle degenerazioni, significa precisamente che non si
da, se non idealmente, un governo della parte razionale dell’anima, così come
storicamente non si è mai visto che un filosofo governasse una città. Tutto ciò,
ancora implicito nella Repubblica,
diviene esplicito nel Politico, dove
si afferma che tutte le forme di governo la cui realizzazione può essere
ragionevolmente sperata sono rette da leggi che sono soltanto «imitazione della
verità»[19], cioè
di «quell’unica [forma di governo] retta per il meglio»[20] che
corrisponde al governo di un re, esperto di arte politica, e che ha tutte le
caratteristiche per essere assimilato al filosofo della Repubblica.
Così, la tensione ideale che è propria di tutta l’opera platonica (e che
si tradusse anche nella sua esperienza siracusana), lascia spazio, al termine
della vita del filosofo, all’amara constatazione che è «proprio difficile» che
«le costituzioni riescano ad essere incontestabilmente valide tanto nella
pratica quanto nella teoria»[21].
Non si può certo affermare che Platone ritenga l’anima degli uomini
votata per natura ad un irreversibile abbrutimento, altrimenti non si
spiegherebbe l’importanza da lui attribuita alla buona educazione (paideia) nella formazione di una polis giusta. In effetti, nel progettare
tanto kallipolis quanto la
legislazione per la colonia cretese, il filosofo immagina di poter disporre di
carta bianca per quanto riguarda il programma educativo e l’organizzazione
delle arti, che tanta parte hanno nella formazione dell’animo del greco.
Platone immaginava che se si fosse seguito un determinato programma di
educazione si sarebbe potuta crescere l’anima con i virtuosi principi indicati
dalla ragione filosofica e, con dei buoni cittadini, erigere una buona città.
Tuttavia sarebbe stato impossibile fondare una polis di soli bambini, sicché gli uomini che l’avrebbero abitata
sarebbero stati inevitabilmente già plasmati da un’educazione differente e
sicuramente peggiore. Per essi, è facile immaginare, Platone avrebbe
predisposto un apparato simbolico di persuasione fatto di miti e di logoi: siccome assai pochi sono in grado
di «vincere se stessi», cioè di lasciarsi guidare dalla parte razionale
dell’anima, e dunque dalla conoscenza del Bene e della Realtà (che sono le
Idee), la maggioranza delle persone non sarà in grado, autonomamente, nemmeno
se rettamente educata, di comprendere in che cosa davvero consista la
giustizia. Queste persone, perciò, dovranno essere convinte ad agire rettamente
non già da un’argomentazione razionale, bensì da una di tipo mitico oppure
retorico.
Uno di questi miti è volto a che ciascuno comprenda come la natura gli abbia
assegnato un certo ruolo all’interno della comunità, dal quale nessuno deve
deferire, poiché nello svolgere correttamente ciascuno il proprio compito
consiste la giustizia[22]. Il
mito narra della natura aurea dell’anima di coloro che sono destinati a governare
la polis, argentea di coloro che
dovranno esserne guardiani, ferrea e bronzea dei contadini e degli artigiani[23]. Questa
favola è detta addirittura vergognosa per la sua assurdità e, tuttavia, si
tratta di una «nobile menzogna», sul cui contenuto occorre persuadere tanto i
governanti, nella fase della loro formazione, quanto i restanti cittadini,
molti dei quali, probabilmente, non raggiungeranno mai verità più alte di
quelle mitiche, e per loro tanto basterà, purché si adeguino all’ordine
sociale.
Anche i proemi che Platone suggerisce di anteporre alle leggi della
colonia cretese sono logoi di tipo
retorico: essi non mirano ad insegnare la Verità (sarebbe impossibile sia per
il breve spazio loro riservato, sia per il carattere di scritto adialogico, ben
lontano dal filosofare platonico), ma a far sì che «il destinatario del
legislatore accolga con benevolenza, con maggiore ricettività la prescrizione,
cioè la norma»[24]. Più
avanti è chiarito che qualunque mezzo di persuasione può essere accompagnato
alla necessaria violenza della legge[25]: «che
questo avvenga con fatti o con discorsi, tramite piaceri o dolori, onori o
disonori, pene pecuniarie o in doni, o in qualunque modo uno farà del tutto
odiare l’ingiustizia, e amare o non odiare la natura del giusto, proprio questo
è il compito delle leggi più belle»[26].
Possiamo assimilare, in questa sede, il mito al discorso retorico, in
quanto entrambi svolgono quella funzione di psicagogia[27] utile
per muovere le anime all’opinione vera che, seppur distinta dall’episteme, è considerata da Platone
«sufficiente a guidare rettamente l’azione»[28].
E’ noto come Platone abbia inteso difendere, nei suoi scritti, una netta
distinzione tra il filosofo e il sofista (o l’oratore[29]);
tuttavia questa è stata difesa proprio perché la difficoltà di mettere in luce
le differenze tra l’una e l’altra figura è propria non solo del volgo (che può
condannare Socrate per questo), ma anche dei lettori dei dialoghi platonici,
nei quali la retorica è sempre così vicina alla filosofia, proprio per il suo
ruolo psicagogico.
Per Protagora, come per Platone, sono necessarie la paideia e la persuasione per far sì che la giustizia e il rispetto
(doni di Zeus[30])
prevalgano sulla pleonexia propria
dello “stato di natura” pre-politico. Platone, condividendo gli assunti
antropologici del sofista di Abdera, non può che giungere alle stesse
conclusioni. L’unico elemento della dottrina di Protagora (e con lui, di tutti
i sofisti) che viene radicalmente espunto dalla filosofia è il relativismo.
La critica che Platone muove a questo è funzionale non soltanto
all’ammissione filosofica dell’esistenza di una Verità assoluta, ma anche alla
critica del regime democratico. Infatti, come sulla condizione di salute di una
persona non vale l’opinione di chiunque, così anche «nello stabilire ciò che
sia o non sia conveniente per ciascuna [città]… un consigliere differisce da un
altro e… una città è diversa da un’altra, rispetto alla verità»[31]. E così
come colui che sa che cosa è bene per il corpo è il possessore dell’arte medica,
colui che sa cosa è bene per la città è il detentore dell’arte politica (per
questo la sofistica e l’oratoria sono pseudoarti e contraffazioni della
politica[32]).
Nel Politico è esplicitamente
detto che la retorica dev’essere al servizio di costui[33] e, seguendo
la lettura di diversi interpreti, se identifichiamo in tutta l’opera platonica
il filosofo con il detentore della scienza politica, possiamo dire che la
retorica ha da esser serva anche della filosofia. Tuttavia, ciò non può
significare che la filosofia faccia uso della persuasione per far raggiungere a
tutti la conoscenza della Verità, ché altrimenti Platone avrebbe inteso fondare
una repubblica di filosofi, bensì che la retorica serve alla filosofia per
indirizzare le anime di tutti verso quei fini che quest’ultima ha individuato,
e che gli ignoranti non sono in grado di individuare autonomamente.
Ma è evidente come questa forma di psicagogia sia effimera: come afferma
Parmenide, «il sentiero della Persuasione (Peithó)»
è quello che «tien dietro alla Verità (Aletheia)»[34]; di
conseguenza, il convincimento proprio delle anime che sono indirizzate ad un
fine senza che ne abbiano compresa la Verità filosofica, è sempre passibile di
essere deviato dalle realtà inferiori, che le attraggono maggiormente.
Non è dunque interamente corretto affermare che la persuasione filosofica
istilla negli animi la verità, mentre quella sofistica resta relegata
all’ambito dell’opinione[35]: entrambe
mirano a indirizzare l’opinione e soltanto questa. La differenza può, più
precisamente, essere individuata nei presupposti e negli scopi dei rispettivi logoi. La filosofia mira infatti a
guidare le anime avendo come presupposto la
Verità[36] e come scopo la Giustizia, mentre il sofista
ha come presupposto l’opinione e come scopo l’utile comune. I sofisti-retori,
infatti, hanno il compito di conformare l’opinione della maggioranza dei
cittadini a ciò che per essi è migliore, ma non in senso assoluto, bensì
soltanto in relazione al loro utile collettivo, che è la conservazione della
società[37], il che
non necessariamente significa che i fini – e tanto meno i mezzi – siano giusti
nel senso platonico. Al contrario, i filosofi devono mirare ad adeguare
l’opinione alla retta Idea di Giustizia, anche se questa rimane sconosciuta
agli occhi dei più.
Secondo l’epilogo del mito della caverna, infatti, i filosofi che sono
ascesi alla contemplazione del Bene devono «ridiscendere presso quei
prigionieri per condividerne le prove e gli onori», per armonizzare i cittadini
«sia con la persuasione sia con la forza»[38], non
certo per liberarli dalle loro catene, la qual cosa è semplicemente
impossibile, a causa della natura della loro anima.
«Colui che sa», allora, deve, socraticamente, confutare la falsa sapienza
che i sofisti hanno ingenerato negli uomini e, platonicamente, persuadere di
una verità positiva che possa guidare rettamente l’opinione e, con essa, la
prassi dei cittadini. Secondo le Leggi al
legislatore «non resta altro che indagare e scoprire che cosa deve far credere
alla città per procurarle il massimo beneficio e in questo ambito cercare ogni
mezzo perché una tale comunità esprima nel suo complesso in relazione a ciò la
stessa e unanime opinione nei canti, nei miti, nei discorsi»[39].
Il carattere illusionistico del potere non può, tuttavia, nascondere la
propria illusorietà. Platone attribuisce alla propria politica lo statuto di
immagine, paragonando il legislatore al pittore che volgendo lo sguardo «verso
ciò che è più vero», istituisce «anche quaggiù le norme relative alle cose belle
e giuste e buone»[40]. Ma è
noto come per Platone l’immagine abbia uno statuto ontologico ambiguo, in
quanto è qualcosa, ma non è ciò di cui è immagine[41]. In
questo modo, allora, come ha rilevato Milena Bontempi, Platone «si autodenuncia
come lontano dal livello del vero in sé»[42]. Il che
non significa che la kallipolis non
abbia a suo fondamento l’idea del Bene, bensì che vi è sempre uno iato,
insopprimibile, tra la costruzione teorica e la realizzazione pratica e perciò
il potere dovrà in qualche modo farsi ideologico, presentando la sua precaria
costruzione come qualcosa di naturale, nobile e necessario (si pensi al mito
della diversità naturale delle anime sopra citato), anche contro la volontà dei
singoli.
Il Bene è perciò destinato a restare lontano dal mondo: «quel che è
efficace in politica agisce in realtà in quanto immagine, non in quanto realtà
che è»; la sua aderenza all’Idea è parziale: esso non può corrispondervi
pienamente (in quanto imitazione), sicché «la politica richiede l’esercizio del
sospetto»[43]. La
Bontempi sottolinea poi un ulteriore significato che lo statuto di immagine
attribuito alla scrittura politica porta con sé: essa pre-figura i buoni
cittadini e la buona comunità, di modo che diviene
evidente
lo scarto, non solo tra il prodotto (la città) e il suo modello reale (il Bene
in sé), ma… anche tra il presente della determinazione politica (scrittura,
discorso, corso dell’azione) e il futuro degli uomini buoni che ne provano la
veridicità: …la politica è tre volte distante dall’essere vero, né modello
ideale né oggetto reale, ma imitazione pre-figurativa di ciò che istanzia la
realtà in sé[44].
In tutta evidenza emerge il carattere artificiale
della politica e della polis,
costruita come un’opera d’arte «per far coesistere il diverso» e per «sopravvivere alla soverchiante forza
della natura»[45]. Ancora
una volta, siamo assai vicini alla teoria di Hobbes, che vede nella formazione
dello Stato una garanzia per ciascun individuo dalla forza della natura brutale
dell’individualità.
Per garantire un’almeno provvisoria stabilità a questo artificio, lo
scienziato politico è autorizzato ad ingannare i suoi sudditi, se questo
inganno corrisponde al fine nobile (il bene comune) che egli ha individuato e
si configura perciò come «nobile menzogna». Ma questo genere di persuasione,
oltre ad essere, come si è mostrato sopra, instabile, può essere anche del
tutto inefficace. In questi casi il politico è legittimato a far uso della
violenza fisica, che può portare all’esilio o all’eliminazione del suddito[46].
Il potere di chi governa non ha bisogno di essere riconosciuto
volontariamente da tutta la comunità, avendo la sua garanzia nella retta
funzione di governo. E’ vero che, nella Repubblica,
se uno dei governanti si dimostrasse inadeguato al compito verrebbe declassato,
almeno in linea di principio. Ciononostante la prospettiva platonica non è,
sotto certi aspetti, lontana da una mentalità moderna, in base alla quale la
rettitudine della legge (o dello scienziato politico) non può essere messa in
discussione e chi lo fa deve necessariamente essere un barbaro e un ignorante,
da persuadere o comunque sottomettere in nome del suo stesso bene.
Pur non condividendo la critica antiplatonica di stile popperiano, che
identifica nel grande filosofo greco un autoritario e un nemico della «società
aperta»[47],
occorre non sottovalutare questo aspetto. Così come non può essere sottaciuta
l’utopia (o meglio, distopia) eugenetica che pervade la Repubblica e di cui rimane eco anche nella più tardiva produzione
platonica. Come ha scritto Costanzo Preve, anche questi caratteri corrispondono
ad un ideale di salvaguardia della comunità politica, della quale costituiscono
tuttavia una «inaccettabile patologia», che si può definire nei termini di una
«hybris “scientistica” della
regolazione integrale e trasparente della comunità stessa»[48].
Platone teorizza esplicitamente un potere assoluto, nel senso di superiorem non recognoscentes, il quale,
tuttavia, essendo detenuto da filosofi, ha di mira il Bene e la Verità; il che
lo porta sideralmente distante tanto da Hobbes quanto da qualunque regime
totalitario quanto, purtroppo o per fortuna, da qualsiasi regime politico
esistente. Così, il realismo politico di Platone si è rovesciato nel più filosofico
idealismo[49], a
costo, tuttavia, di accettare teoricamente la tirannia del filosofo che può,
contraddittoriamente, costringere all’accettazione volontaria della propria
autorità[50].
Mi sembra assai inerente allo spirito platonico l’interpretazione che Giovanni
Giorgini dà del rapporto tra filosofo e tiranno[51]. Come
quello tra filosofo e sofista, anche questo è ambiguo, e l’unica reale
differenza tra i due sta nel fine al quale è diretto il loro governare
(rispettivamente l’interesse comune e quello privato). È infatti probabile
che
Platone non considerasse la tirannide una forma di governo non-riformabile ma
ritenesse anzi che la magnitudine e la concentrazione del potere tirannico
consentissero al suo detentore di effettuare più facilmente le drastiche riforme
necessarie a realizzare l’ordinamento politico veramente giusto perché non vi
era necessità di passare per il dibattito pubblico sull’agorà [confrontandosi, dunque, con l’opinione degli incompetenti],
né per le trame occulte delle consorterie[52].
Queste considerazioni rivelano ulteriormente il
carattere realista del filosofare platonico, imponendoci di ricordare come il
modello della polis giusta non fosse
soltanto un’astratta utopia, ma il paradigma alla luce del quale condurre una
precisa e concreta azione politica. Se si considerano i viaggi compiuti dal
filosofo in Sicilia, è probabile che egli ritenesse il progetto davvero
realizzabile. In questo modo, dialetticamente, il più utopista si rivela
realista, se, di fronte alla crisi storica delle poleis, ne immaginava un nuovo inizio, unica possibilità per
reagire al loro declino; per contro, Aristotele, che non elabora alcun progetto
radicalmente diverso dalla realtà storica, può essere considerato più utopista,
essendo convinto di una riformabilità della situazione esistente[53].
[1] Così M.
Pohlenz, L’uomo greco, La nuova
Italia, Firenze 1962 (1947), p. 186.
[2] Si fa
riferimento, naturalmente, al realismo
politico.
[3] Sul
rapporto ostile tra filosofia e realismo politico si veda P. P. Portinaro, Il realismo politico, Laterza, Roma-Bari
1999, pp. 33-36.
[4] B.
Spinoza, Trattato teologico-politico,
XX. (Le traduzioni utilizzate sono indicate in Bibliografia).
[5] Metafisica A, 6, 987 a 29 – 987 b 8.
[6] Cfr. Sofista, 248 a e ss.
[7] DK, 22 B
53.
[8] DK, 22 A
16.
[9] Diogene
Laerzio riferisce come il grammatico Diodoto si accorse che lo scritto di
Eraclito non verteva tanto sulla physis,
quanto sulla politèia: vedi DK, 22 A
1.
[10] Di
questa si trova un’efficace sintesi in Diego Fusaro, Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, Bompiani, Milano 2012,
in particolare pp. 112-116.
[11] Cfr.
DK, 28 A 12; Diego Fusaro, Minima
mercatalia cit., pp. 116-120.
[12]
Eraclito, DK, 22 B 8.
[13] Gorgia, 471 a-e.
[14] Repubblica, 431 c.
[15] Leggi, 626 e.
[16] Leggi, 626 d.
[17] Ivi, 626 e, corsivo mio.
[18] Ivi, 626 b.
[19] Politico, 300 c.
[20] Ivi,
297 c.
[21] Leggi, 636 a.
[22] Repubblica, 433 a-b, 434 c. La stessa
cosa vale per l’anima: 443 d, 444 d.
[23] Repubblica, 414 b – 415 d.
[24] Leggi, 723 b.
[25] Ivi, 721 e.
[26] Ivi, 862 d.
[27] Cfr. Fedro, 271 d.
[28] G.
Giorgini, Introduzione, in Platone, Politico, a cura di G. Giorgini,
Rizzoli, Milano 2005, p. 42. Dissento dall’opinione di Giorgini, il quale
individua un netto distacco tra l’accordo concesso da Platone all’opinione vera
nel Politico e nelle Leggi e il discredito della doxa rispetto all’episteme sostenuto in Repubblica.
Infatti, se anche in quest’ultima opera si immagina che tutti i cittadini siano
giusti, non si può certo immaginare che tutti lo siano per conoscenza del Bene;
dunque anche qui Platone deve aver tenuto in una certa considerazione
l’opinione vera.
[29] Le due
figure sono strettamente imparentate (synghenos)
e perciò possono essere assimilate. Cfr. Sofista,
264c ss.
[30] Protagora, 320 c – 322 d.
[31] Teeteto, 172 a.
[32] Gorgia 464 b – 466 a.
[33] Politico, 304 d.
[34] DK, 28
B 2.
[35] «La
verità – dice Clinia nelle Leggi – è
cosa bella e stabile, ma difficile, pare, da inculcare»: 663 e.
[36] Seguo
in parte F. Adorno, Introduzione a Platone,
Laterza, Roma-Bari 1978, pp. 144-45, dove, però, si sostiene che la filosofia
persuada alla verità.
[37] Cfr. F.
Li Vigni, Protagora e l’arte politica,
La Scuola di Pitagora, Napoli 2010, pp. 150-152.
[38] Repubblica, 519 d – 520 a.
[39] Leggi, 664 a.
[40] Repubblica, 484 c.
[41] Questo
è il problema che sta alla base della trattazione ontologica in Sofista, 236 e ss.
[42] M.
Bontempi, Politica e immagini in Platone,
in G. M. Chiodi, R. Gatti, (a cura di), La
filosofia politica di Platone, FrancoAngeli, Milano 2008, p. 87. Cfr. ibidem per una rapida rassegna dei
luoghi in cui Platone istituisce un legame tra la propria scrittura politica e
l’immagine artistica.
[43] Ivi, p. 91.
[44] Ibidem.
[45] G.
Giorgini, Introduzione cit., p. 33.
[46] Cfr.
per esempio Leggi, 735 e – 736 b.
[47] K.
Popper, La società aperta e i suoi nemici. Platone totalitario,
citato e adeguatamente criticato in F. Ferrari, Introduzione in Platone, Leggi,
Rizzoli, Milano 2005, pp. 24 e ss.
[48] C.
Preve, Elogio del comunitarismo,
Controcorrente, Napoli 2006, p. 99.
[49] La
filosofia politica di Platone «è insieme negazione e conservazione, autentica Aufhebung» rispetto alla sfida del
realismo di stampo tucidideo. (P. P. Portinaro, Il realismo cit., p. 33).
[50] Uso qui
il lessico di Leggi 627 e, anche se nello
specifico contesto si riferisce ad altro.
[51] G.
Giorgini, L’instaurazione dell’ordine
nuovo. Un’indagine sulla realizzabilità della città perfetta nella Repubblica
di Platone, in G. M. Chiodi, R.
Gatti, (a cura di), La filosofia politica
cit., pp. 47-64.
[52] Ivi, pp. 50-51.
[53] Questa
la posizione espressa da L. Alfieri, Platone
Realpolitiker?, in G. M. Chiodi,
R. Gatti, (a cura di), La filosofia
politica cit., p. 67.
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