1.
ARISTOTELE.
Una natura umana da realizzare politicamente.
È evidente che, come noi diciamo uomo libero colui
che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così
questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo
libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa.
ARISTOTELE
Però i più non compiono queste cose, ma rifugiandosi nella
definizione, pensano di far filosofia e che così saranno virtuosi,
comportandosi in modo simile a quei malati che ascoltano attentamente
i medici, ma non mettono in atto nessuna delle prescrizioni.
ARISTOTELE
In Aristotele è assente un modello di repubblica utopica (cioè non
presente in nessun luogo). Egli ha a disposizione dei modelli reali[1] che
propone di estendere a tutte le città e che vede basati sulla conoscenza e
sulla prassi virtuosa, i cui fini sono da una parte il bene comune e dall’altra
la felicità individuale. Il suo ideale è dunque quello di una polis giusta, i cui conflitti sociali
siano sanati sulla base di un’equità in grado di dare a ciascuno ciò che gli
spetta (proporzionalmente) e nella quale la naturalità dell’uomo sia realizzata
in pienezza, laddove egli considera la natura umana essenzialmente politica.
«L’uomo è per natura un animale politico»[2]: è
questa sicuramente una delle citazioni più ricorrenti dagli scritti di
Aristotele. Tuttavia, mi sembra che non sia stata presa abbastanza sul serio. Anzitutto,
occorre notare che si tratta di una definizione, indicante, perciò, il genere
prossimo e la differenza specifica[3]; ciò
significa che quello che distingue l’uomo dagli altri animali è la sua
politicità. È vero, infatti, che anche le api e altri animali che vivono in
gregge sono, in un certo senso, sociali; ma l’uomo lo è assai precipuamente, in
quanto, come strumento della sua socialità, egli è dotato di un linguaggio
articolato che «serve a indicare l’utile e il dannoso, e perciò anche il giusto e l’ingiusto»[4].
La naturalità della polis (che
pone Aristotele in netto contrasto con Platone) non significa l’assenza di
conflitto o che questo sia considerato dallo Stagirita qualcosa di puramente
accidentale e perciò facilmente estirpabile. Al contrario, Aristotele è ben
consapevole che gli uomini virtuosi sono rari e che la perfetta costituzione
(la monarchia personificata in un uomo virtuoso, non così distante dalla figura
del filosofo platonico) sia quasi impossibile da raggiungere[5].
Nondimeno, il conflitto è ciò che si oppone all’attualizzazione delle potenzialità
umane e perciò è, in questo senso, “contro natura”.
Secondo la dottrina aristotelica della potenza e dell’atto, la dynamis è capacità, movimento orientato
ad un fine; l’atto è la causa finale, il telos
verso il quale tende qualsiasi dynamis.
Per questo, «secondo la sostanza» esso «è anteriore» rispetto alla potenza:
«tutto ciò che diviene procede verso un principio, ossia verso il fine:
infatti, lo scopo (telos) costituisce
un principio e il divenire ha luogo in funzione del fine. E il fine è l’atto (energheia)»[6]. Ogni
cosa realizza pienamente la propria natura soltanto quando perviene
all’attualizzazione, in quanto «l’atto è l’esistere della cosa»[7]. In base
a questo principio possiamo dire che la politicità è l’essere-in-potenza
dell’uomo, una dynamis che può
realizzarsi soltanto nella comunità giusta. Il conflitto, il vizio, è ciò che
si frappone al raggiungimento dell’energheia.
Infatti l’uomo è sì un essere naturale, ma soltanto le sue potenzialità fisiche
e biologiche possono giungere all’atto «per virtù propria». La sue
caratteristiche razionali, che fanno di lui uno zoon politikon logon echon, possono attualizzarsi soltanto «quando
siano volute e non intervengano ostacoli dal di fuori»[8].
È chiaro, allora, come, nella definizione, «per natura» non significa che
la politicità dell’uomo sottostia a regole naturali del tipo di quelle che
regolano la fisica o la biologia. Così si potrebbe intendere se la socialità si
risolvesse semplicemente nell’ambito dell’utile, in considerazione del fatto
che l’uomo non può fisicamente e biologicamente sopravvivere da solo e perciò
ha un bisogno naturale degli altri; ma per Aristotele la polis è molto di più:
la
comunità cittadina non è costituita soltanto dall’identità del luogo,
dall’astinenza dal danno reciproco e dalla garanzia dei rapporti commerciali,
perché, sebbene queste cose siano imprescindibili per l’esistenza della città,
tuttavia, anche se si realizzano tutte, non c’è ancora una città, ma questa è
la comunità che garantisce la buona vita e alle famiglie e alle stirpi, e ha
come fine una vita indipendente e perfetta[9].
«Natura» (physis) è semmai,
qui, sinonimo di essenza (ousia), non
individuale, bensì universale (una «sostanza seconda» nel linguaggio di Categorie). Si tratta, evidentemente, di
un principio metafisico (immutabile e necessariamente vero) che sta alla base
di qualunque verità possa essere indagata dalle scienze pratiche[10].
Nella Metafisica è posto quale archè dell’intero cosmo fisico un motore
immobile, atto puro, causa finale e principio del movimento; per converso,
possiamo affermare che il microcosmo sociale, che risponde a regole ben diverse
da quelle della fisica, è fondato su di una potenza
pura, che è orientata teleologicamente alla propria piena realizzazione.
Essendo la realtà politica dominio del contingente, tuttavia, è necessaria
l’aderenza delle singole volontà (unite comunitaristicamente in una sola) alla
realizzazione di questo telos insito
nella natura dell’uomo, la quale è in un certo senso alienata, e deve trovare
la propria realizzazione. Proseguendo questo parallelo, se il cosmo ha un
fondamento meta-fisico (è fondato su qualcosa
che è “oltre” il fisico, ed è un principio immutabile), possiamo dire che il
microcosmo ha un fondamento meta-politico, qualcosa che è “oltre” il politico
ed è, ancora una volta, un principio immutabile che noi possiamo chiamare metafisico
per il significato che attribuiamo oggi a questa parola[11].
Volendo azzardare una tesi di
carattere filologico, è probabilmente per questa ragione che il primo libro
della Metafisica ci presenta soltanto
le tesi cosiddette “naturalistiche” dei presocratici (che andrebbero in realtà
chiamate “metafisiche”, perché avevano davvero poco a che vedere con il
naturalismo come lo intendiamo noi): Aristotele si apprestava a compiere una
ricerca analoga, a fornire la sua risposta al problema del fondamento del
macrocosmo che, essendo qualcosa di assolutamente imperscrutabile, si
presentava come una questione tanto difficile e complessa (anche soltanto da
esporre) da dover essere discussa a partire dalle tesi altrui. In fin dei conti
Aristotele, analizzando queste tesi, le trova infondate semplicemente perché
aporetiche o contraddittorie, e a partire dalla confutazione di queste tesi
egli riesce a compiere un’inferenza alla spiegazione migliore per parlare di
una cosa di cui non si può e non si potrà mai avere alcuna esperienza. Nelle
opere di etica e di politica Aristotele si occupa invece di qualcosa di molto
più immediato, perché la comunità umana è qualcosa di cui ciascuno fa (faceva?)
esperienza; forse è per questo che in quelle opere non si trovano esposizioni e
confutazioni di tesi precedenti così dettagliate come nella Metafisica (anche se ovviamente non
mancano).
Sintetizzando, non dobbiamo
aspettarci di trovare nell’opera aristotelica intitolata così tutta la
sua metafisica (nel senso odierno di questo termine): la metafisica
aristotelica si può ben dire, a mio avviso, che fondi su Dio il macrocosmo e
sull’uomo il microcosmo. Non sull’uomo individualisticamente inteso, bensì
sulla sua natura specifica. L’individuo infatti non è una di quelle cose della
forma “a = a” (altrimenti Aristotele non darebbe tanta importanza
all’educazione e all’acquisizione di disposizioni etiche), come i principi
immutabili della metafisica, della quale, non a caso, uno dei basilari principi
è quello di identità e non-contraddizione; di quella forma è però la sua
natura, che lo costituisce quale essere comunitario dotato di linguaggio.
In questo contesto assume tutta la
sua rilevanza etica la confutazione del relativismo di Protagora che è svolta nel
quarto libro della Metafisica. Colui
che nega che esistano principi della forma “a = a”, destituendo la realtà di
qualunque fondamento, non avrà a che aggrapparsi per condurre un discorso che
possa considerarsi vero in senso assoluto. Negare il principio di
non-contraddizione equivale a negare che esistano delle solide verità e ad
affermare che tutto è relativo, a seconda dell’apparenza e dell’opinione di
ciascuno. Così, il relativismo si trasforma immediatamente in individualismo, laddove ciascun individuo resta isolato nell’unicità
della propria percezione-opinione e non ha una ragione comune da condividere
con i suoi simili.
Il relativista-individualista
negherà, pertanto, tra le altre cose, che esista una natura umana e, così
facendo, negherà la possibilità che nell’ambito dell’etica e della politica
esistano affermazioni vere e altre false, rendendo con ciò impossibile il giudizio.
Ma, privati di quest’ultimo, come sarà possibile la filosofia? «Cercare la
verità sarebbe come correre addietro ad un uccello in volo»[12]:
non sarà dunque più possibile, su base veritativa, criticare un regime politico
o immaginarne un’alternativa.
Aristotele non nega in toto la validità del ragionamento del
sofista: è vero che a ciascuno appare una verità differente e che
ciascuno considera vero ciò che gli appare tale, ma questa è appunto una verità
soltanto relativa. «Non tutte le cose
– però - sono relative, ma ci sono alcune cose che esistono in sé e per sé» e
allora «non tutto ciò che appare potrà essere vero»[13]. Per
conoscere ciò che, nell’ambito dell’agire umano, corrisponde al vero, occorre
perciò fare riferimento ad un principio saldo, che è alla base, come dicevamo,
della scienza pratica. Di contro alla celebre massima di Protagora, Aristotele
afferma, di conseguenza, che «la virtù e l’uomo buono in quanto tale sono
misura di tutte le cose»[14].
Tale è anche il valore della
confutazione di Protagora compiuta nel Teeteto
platonico: soltanto se esiste il Bene si può giudicare il reale in base
alla sua vicinanza o distanza dal modello ideale. È evidente, allora, che anche
la realtà sociale, per Aristotele come per il suo maestro, necessita di un
fondamento metafisico. Non riconoscere questo aspetto della filosofia dello
Stagirita mi sembra una mancanza che ne travisa l’intero pensiero.
Un’interpretazione che mi pare piuttosto
diffusa sostiene che Aristotele, in un certo senso elaborando la
sconfitta siracusana del maestro, avrebbe separato la theoria dalla praxis,
identificando nella prima l’attività propria del sapiente e la massima felicità
possibile, lontana e al riparo dalla vita politica[15]. In tal
modo, Aristotele diverrebbe un precursore di Epicuro, mentre bastano due
semplici dati biografici per dimostrare come egli non si ispirò mai ad un
principio come il famoso «vivi nascosto»: la sua permanenza ventennale nell’Accademia,
che era divenuta un «luogo di formazione etico-politica per futuri governanti»,
e i suoi contatti con la corte macedone e l’insegnamento impartito ad
Alessandro Magno (i cui contenuti furono, secondo gli studiosi, prevalentemente
politici)[16]. Ma al
di là di questi dati biografici, che non sono determinanti, vi sono i contenuti
dottrinali a confutare un’ipotesi siffatta: alcuni sono già emersi, altri sono
esposti nel seguito.
Secondo la classificazione delle virtù nell’Etica Nicomachea, alla parte razionale dell’anima afferiscono le
virtù dianoetiche della sapienza (sophia)
e della saggezza pratica (phronesis).
L’attività razionale si distingue infatti in due parti: una «scientifica» (epistemonikòn), l’altra «calcolatrice» (loghistikón)[17]. La
prima corrisponde all’attività teoretica, il cui compito è di indagare i principi
delle scienze e le conseguenze che da essi derivano[18].
Perciò, come ha ben rilevato Marcello Zanatta, «anche le scienze pratiche, in
quanto scienze, sono attività della parte scientifica dell’anima razionale,
ossia della ragione teoretica»[19].
Di conseguenza, sono oggetto dell’attività contemplativa anche i principi
dell’etica e della politica. Secondo Aristotele, ogni scienza possiede propri
principi, che indaga in relazione a quella parte dell’essere che costituisce il
suo oggetto proprio[20];
principio della scienza pratica sarà allora esattamente quel concetto astratto
e universale (pur nell’ambito di un solo genere dell’essere) di natura umana
che sopra si è visto, che è la causa prima dell’essere sociale. Oggetto di tale
scienza, poi, saranno i beni assoluti dell’uomo, considerati in relazione al
principio[21], ed
andranno a costituire la premessa maggiore (di carattere universale) del
sillogismo pratico. È invece proprio della phronesis
valutare i casi particolari e dunque stabilire la premessa minore, grazie
alla quale verrà di necessità la regola per l’agire, conforme alla verità[22].
Si vede bene dunque come la teoresi abbia un’importanza fondamentale per
(ed uno stretto legame con) la praxis.
Del resto, Aristotele critica coloro che «rifugiandosi nella definizione,
pensano di far filosofia e che così saranno virtuosi, comportandosi in modo
simile a quei malati che ascoltano attentamente i medici, ma non mettono in
atto nessuna delle prescrizioni»[23].
Non c’è tutta quella distanza che si vorrebbe tra la teoria aristotelica
e la contemplazione platonica. Del resto, è proprio per l’importanza che lo
Stagirita attribuisce alla prassi che egli critica l’idea del Bene, la quale,
essendo un principio totalmente trascendente non può essere un’efficace guida
per l’azione: «se anche esiste un bene unico, che sia un predicato comune, o
separato, esistente come una cosa in sé, è evidente che non sarebbe oggetto
d’azione né acquisibile per l’uomo»[24].
È vero che, per Aristotele, l’attività contemplativa è la più perfetta ed
in grado di assicurare la massima felicità. Essa, infatti, è la realizzazione
virtuosa della parte dell’anima che ha in sé il logos (è la maggiore virtù dianoetica); essendo questa la parte
migliore, segue da ciò che il suo scopo sarà anche il più perfetto. Ma l’anima,
per natura, è composta anche da una parte vegetativa (che non possiede né può
seguire il logos e corrisponde alle
funzioni biologiche) e da una parte appetitiva (la quale può essere guidata dal
logos ed essere virtuosa). Se la
felicità consiste nella realizzazione della natura dell’uomo, allora essa, per
essere completa non potrà non
riguardare queste due parti dell’anima. Allora la teoresi sarà sì il grado
supremo della felicità, ma pur sempre solo una sua parte. Ad essa si aggiungerà
quella relativa all’anima vegetativa, consistente nella soddisfazione dei
bisogni del corpo, implicando sia beni materiali (ad esempio il cibo) sia
piaceri (che, adeguatamente misurati, sono inclusi nell’etica aristotelica);
infine si avrà la felicità conseguente alla soddisfazione degli appetiti
opportunamente indirizzati dal logos,
ciò che permetterà all’uomo di ottenere, ancora una volta, sia beni materiali
che piaceri, agendo con moderazione nell’ambito della comunità politica.
Come si è visto, la differenza specifica dell’animale uomo è la sua
politicità, non la sua razionalità. Propria
dell’uomo è allora la vita che consiste «in un’attività e in un’azione accompagnate da ragione»[25]. Sul
piano quantitativo, anzi, è normale che la vita sociale assuma per l’uomo una
rilevanza ancora maggiore di quella teoretica, ancorché ad essa
qualitativamente inferiore, in quanto intrinsecamente instabile e problematica.
Inoltre, anche la stessa contemplazione assume un significato politico. Per
Aristotele ogni attività utile è sempre un mezzo e come tale indica
un’incompletezza relativa al fine; ciò che costituisce il telos dell’uomo deve essere inutile in quanto completezza, non
finalizzato all’ottenimento di altro. L’utile non può mai essere fine in se
stesso perché costituisce sempre un rimando, ingenerando un movimento
insaziabile del desiderio che non può essere soddisfatto e che non può dunque
portare alla felicità. Tale è l’atteggiamento di coloro che hanno di mira
l’onore, il prestigio, il potere, la ricchezza, eccetera.
Soltanto in questo senso la politica è da fuggire, ma non in quanto
anch’essa può essere un mezzo per il raggiungimento delle condizioni che
permettano la felicità suprema dell’attività contemplativa. Come ha scritto
Enrico Berti «è necessario liberare l’uomo dal bisogno, affinché egli possa
dedicarsi a quelle attività teoretiche»[26].
Le attività che non hanno in sé il proprio fine sono attività da schiavi,
nel senso che se un bene materiale, o il potere, o che altro (che secondo
natura sono soltanto mezzi) viene assunto come fine, l’anima umana ne diviene
serva. Il fine autentico dell’uomo non può che essere “spirituale”, perché solo
il bene dell’anima (che è l’autentica felicità, come voleva anche Platone) può
essere perseguito infinitamente senza che questo divenga padrone e tiranno.
Questo elogio dell’inutilità chiarisce in che senso la vita contemplativa sia
di genere superiore alle altre, ma al contempo mette bene in luce la vena
critica (per esempio anticrematistica) di Aristotele, mostrando così le sue
evidenti implicazioni politiche.
Se fin qui si è trattato di mettere in luce la complessa concezione
aristotelica della natura umana, occorre adesso mettere in luce che tipo di
società politica possa essere conseguenza di queste considerazioni (anche se in
parte lo si è già detto).
«Non bisogna forse dire che, in assoluto e secondo verità, oggetto del
volere è il bene, ma che per ciascuno è un bene apparente; che per l’uomo
eccellente è il bene secondo verità, mentre per l’uomo dappoco è ciò che
capita… ?»[27]. Questo
passo dell’Etica Nicomachea si pone
sulla stessa linea della critica alla dottrina relativistica di Protagora
condotta con appassionata verve nella Metafisica.
Ma chi è quell’uomo virtuoso, lo scienziato pratico, in grado di determinare
ciò che è bene «secondo verità»?
Nella Metafisica Aristotele
riprende una critica che già Platone, nel Teeteto,
aveva mosso contro Protagora per voce di Socrate[28].
L’argomento suona più o meno così: non si può affermare che la verità che
appare a uno è dello stesso valore della verità che appare a un altro,
altrimenti si dovrebbe arrivare a sostenere, per esempio, che farsi curare da
un medico (che conosce una certa verità circa la salute) o da una persona
qualsiasi (che pure conosce una certa verità sulla questione) sia la stessa
cosa. Così, dunque, come si sceglie il medico per curare il corpo, si dovrà
scegliere l’uomo eccellente, diciamo, per curare l’anima. Ma questi non è altri
che il politico; infatti è il politico che determina ciò che è bene e male per
la comunità, e perciò legifera, in base alla sua saggezza riconosciuta e
all’autorità che su questa si fonda. Se un politico perde questa
considerazione, perde anche la legittimità.
Il saggio è colui che sa cogliere il bene tanto per se stesso quanto per
gli altri: Aristotele porta l’esempio di Pericle[29] ed
afferma che «il vero politico [compie] ogni sforzo in vista della virtù,
infatti vuole rendere i cittadini buoni e osservanti delle leggi»[30].
Tutta la comunità, se virtuosa, sa e deve riconoscere chi è o chi sono
gli uomini dotati di maggiore phronesis,
infatti è soltanto in base alla loro opinione autorevole che si può convalidare
ciò che il singolo individuo ritiene essere virtù: «la virtù è uno stato
abituale che produce scelte, consistente in una medietà rispetto a noi,
determinato razionalmente, e come
verrebbe a determinarlo l’uomo saggio, medietà tra due mali, l’uno secondo
l’eccesso e l’altro secondo il difetto»[31].
Nella costituzione migliore, in cui comanda chi eccelle per virtù (sia
esso uno o, più difficilmente, più), coloro che sono comandati ne accettano
l’autorità perché, essendo anch’essi virtuosi, riconoscono che chi comanda è
moralmente migliore[32]. La
legge, perciò, essendo diretta emanazione della phronesis di chi governa, sarà anch’essa riconosciuta dai cittadini
come giusta e sarà perciò da essi seguita.
Si vede bene che Aristotele, pur partendo da modelli di poleis storicamente reali, finisce con
l’essere non meno distante da esse di quanto non lo fosse Platone. Ma del
resto, è prerogativa dei filosofi opporre alla mutevole realtà un ordine
ideale, se non altro come riferimento per il giudizio.
A differenza di Platone, tuttavia, il potere immaginato da Aristotele non
opera tramite persuasione, inganno e violenza. L’inganno è instabile del fronte
al sospetto, che può farlo crollare. Una società politica come quella auspicata
dallo Stagirita è indubbiamente più solida, laddove il potere riconosciuto è un
potere legittimato dalla collettività e, perciò, meno esposto al sempre
possibile odio dei sudditi che può ingenerare una stasis e portare al mutamento.
Aristotele, rispetto a Platone, si mostra assai più ottimista circa la
possibilità che gli uomini acquisiscano l’abito della virtù e costituiscano
insieme una comunità giusta. Il Bene platonico era troppo distante
dall’affollata caverna di cui narra il celebre mito; Aristotele, negandone la
trascendenza, fa sì che esso sia alla portata di tutti gli uomini, purché essi
sappiano far uso della giusta misura nelle loro deliberazioni e, grazie
all’insegnamento degli uomini saggi, imparino a frenare i loro impulsi ed
istinti irrazionali, sottomettendoli alla guida della phronesis e dei principi che essa trae dalla conoscenza (di
carattere teoretico) della loro più essenziale natura.
[1] Cfr. Etica Nicomachea I, 13, 1102a 10-12; X, 10, 1180a 25-27
[2] EN I, 5,
1097b 11, Politica I, 2, 1253a 2
[3] Non mi
sembra corretto, perciò, come fa Zanatta, tradurre zoon con “vivente”, perché quest’ultimo è un genere remoto. Cfr. M.
Zanatta, Introduzione alla filosofia di
Aristotele, Rizzoli, Milano 2010, p. 316.
[4] Politica I, 2, 1235 a.
[5] Cfr. Politica III, 15, 1286a 16-17
[6] Metafisica Θ, 8, 1050a 7-9.
[7] Metafisica Θ, 6, 1048a 32.
[8] Metafisica Θ, 7, 1049a 5-17.
[9] Politica III, 9, 1280 b 31-35.
[10] Su
quest’ultimo punto, cfr. infra.
[11] È noto
che Aristotele non ha mai utilizzato questo termine, che è stato posto come
titolo dell’opera che conosciamo dall’editore Andronico di Rodi.
[12] Metafisica Γ, 1009b 39-40.
[13] Metafisica Γ, 1011a 17-20.
[14] EN X, 5, 1176a 17.
[15] Questa
posizione è sostenuta, per esempio, in M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari 2010 (1989), pp. 159-218.
[16] M.
Zanatta, Introduzione alla filosofia di
Aristotele, Rizzoli, Milano 2010, p. 23; 77-78.
[17] EN VI, 2, 1139a 11-12
[18] EN VI, 7, 1141a 16-20.
[19] M.
Zanatta, Introduzione cit., p. 295.
[20] Metafisica E I.
[21] Zanatta
sostiene (p. 297) che i singoli beni sono i principi della scienza pratica;
l’ipotesi mi pare insostenibile perché i beni sono tali soltanto se relazionati
ad un principio (la natura umana), perciò non possono essere, essi stessi,
principi.
[22] Cfr. M.
Zanatta, Introduzione cit., pp.
298-300.
[23] EN II, 3, 1105b 12-16.
[24] EN I, 4, 1096b 30-35.
[25] EN I, 6, 1098a 12, corsivo mio.
[26] E.
Berti, Aristotele: dalla dialettica alla
filosofia prima, cit. in G. Reale, Introduzione,
in Aristotele, Metafisica, a cura di
G. Reale, Bompiani, Milano 2000, p. XVII.
[27] EN III, 6, 1113a 23-28.
[28] Vedi
nota 30.
[29] EN VI, 5, 1140b 7-10.
[30] EN I, 13, 1102a 7.
[31] EN, II, 6, 1107a 1-3, corsivo mio.
[32] Cfr. M.
Zanatta, Introduzione cit., p. 338.
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