martedì 21 agosto 2012

Natura umana e teoria politica in Aristotele


1.     ARISTOTELE. Una natura umana da realizzare politicamente.


È evidente che, come noi diciamo uomo libero colui
che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così
questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo
libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa.

ARISTOTELE

Però i più non compiono queste cose, ma rifugiandosi nella
definizione, pensano di far filosofia e che così saranno virtuosi,
comportandosi in modo simile a quei malati che ascoltano attentamente
i medici, ma non mettono in atto nessuna delle prescrizioni.

ARISTOTELE




In Aristotele è assente un modello di repubblica utopica (cioè non presente in nessun luogo). Egli ha a disposizione dei modelli reali[1] che propone di estendere a tutte le città e che vede basati sulla conoscenza e sulla prassi virtuosa, i cui fini sono da una parte il bene comune e dall’altra la felicità individuale. Il suo ideale è dunque quello di una polis giusta, i cui conflitti sociali siano sanati sulla base di un’equità in grado di dare a ciascuno ciò che gli spetta (proporzionalmente) e nella quale la naturalità dell’uomo sia realizzata in pienezza, laddove egli considera la natura umana essenzialmente politica.
«L’uomo è per natura un animale politico»[2]: è questa sicuramente una delle citazioni più ricorrenti dagli scritti di Aristotele. Tuttavia, mi sembra che non sia stata presa abbastanza sul serio. Anzitutto, occorre notare che si tratta di una definizione, indicante, perciò, il genere prossimo e la differenza specifica[3]; ciò significa che quello che distingue l’uomo dagli altri animali è la sua politicità. È vero, infatti, che anche le api e altri animali che vivono in gregge sono, in un certo senso, sociali; ma l’uomo lo è assai precipuamente, in quanto, come strumento della sua socialità, egli è dotato di un linguaggio articolato che «serve a indicare l’utile e il dannoso,  e perciò anche il giusto e l’ingiusto»[4].
La naturalità della polis (che pone Aristotele in netto contrasto con Platone) non significa l’assenza di conflitto o che questo sia considerato dallo Stagirita qualcosa di puramente accidentale e perciò facilmente estirpabile. Al contrario, Aristotele è ben consapevole che gli uomini virtuosi sono rari e che la perfetta costituzione (la monarchia personificata in un uomo virtuoso, non così distante dalla figura del filosofo platonico) sia quasi impossibile da raggiungere[5]. Nondimeno, il conflitto è ciò che si oppone all’attualizzazione delle potenzialità umane e perciò è, in questo senso, “contro natura”.
Secondo la dottrina aristotelica della potenza e dell’atto, la dynamis è capacità, movimento orientato ad un fine; l’atto è la causa finale, il telos verso il quale tende qualsiasi dynamis. Per questo, «secondo la sostanza» esso «è anteriore» rispetto alla potenza: «tutto ciò che diviene procede verso un principio, ossia verso il fine: infatti, lo scopo (telos) costituisce un principio e il divenire ha luogo in funzione del fine. E il fine è l’atto (energheia[6]. Ogni cosa realizza pienamente la propria natura soltanto quando perviene all’attualizzazione, in quanto «l’atto è l’esistere della cosa»[7]. In base a questo principio possiamo dire che la politicità è l’essere-in-potenza dell’uomo, una dynamis che può realizzarsi soltanto nella comunità giusta. Il conflitto, il vizio, è ciò che si frappone al raggiungimento dell’energheia. Infatti l’uomo è sì un essere naturale, ma soltanto le sue potenzialità fisiche e biologiche possono giungere all’atto «per virtù propria». La sue caratteristiche razionali, che fanno di lui uno zoon politikon logon echon, possono attualizzarsi soltanto «quando siano volute e non intervengano ostacoli dal di fuori»[8].
È chiaro, allora, come, nella definizione, «per natura» non significa che la politicità dell’uomo sottostia a regole naturali del tipo di quelle che regolano la fisica o la biologia. Così si potrebbe intendere se la socialità si risolvesse semplicemente nell’ambito dell’utile, in considerazione del fatto che l’uomo non può fisicamente e biologicamente sopravvivere da solo e perciò ha un bisogno naturale degli altri; ma per Aristotele la polis è molto di più:

la comunità cittadina non è costituita soltanto dall’identità del luogo, dall’astinenza dal danno reciproco e dalla garanzia dei rapporti commerciali, perché, sebbene queste cose siano imprescindibili per l’esistenza della città, tuttavia, anche se si realizzano tutte, non c’è ancora una città, ma questa è la comunità che garantisce la buona vita e alle famiglie e alle stirpi, e ha come fine una vita indipendente e perfetta[9].

«Natura» (physis) è semmai, qui, sinonimo di essenza (ousia), non individuale, bensì universale (una «sostanza seconda» nel linguaggio di Categorie). Si tratta, evidentemente, di un principio metafisico (immutabile e necessariamente vero) che sta alla base di qualunque verità possa essere indagata dalle scienze pratiche[10].
Nella Metafisica è posto quale archè dell’intero cosmo fisico un motore immobile, atto puro, causa finale e principio del movimento; per converso, possiamo affermare che il microcosmo sociale, che risponde a regole ben diverse da quelle della fisica, è fondato su di una potenza pura, che è orientata teleologicamente alla propria piena realizzazione. Essendo la realtà politica dominio del contingente, tuttavia, è necessaria l’aderenza delle singole volontà (unite comunitaristicamente in una sola) alla realizzazione di questo telos insito nella natura dell’uomo, la quale è in un certo senso alienata, e deve trovare la propria realizzazione. Proseguendo questo parallelo, se il cosmo ha un fondamento meta-fisico (è fondato su qualcosa che è “oltre” il fisico, ed è un principio immutabile), possiamo dire che il microcosmo ha un fondamento meta-politico, qualcosa che è “oltre” il politico ed è, ancora una volta, un principio immutabile che noi possiamo chiamare metafisico per il significato che attribuiamo oggi a questa parola[11].
Volendo azzardare una tesi di carattere filologico, è probabilmente per questa ragione che il primo libro della Metafisica ci presenta soltanto le tesi cosiddette “naturalistiche” dei presocratici (che andrebbero in realtà chiamate “metafisiche”, perché avevano davvero poco a che vedere con il naturalismo come lo intendiamo noi): Aristotele si apprestava a compiere una ricerca analoga, a fornire la sua risposta al problema del fondamento del macrocosmo che, essendo qualcosa di assolutamente imperscrutabile, si presentava come una questione tanto difficile e complessa (anche soltanto da esporre) da dover essere discussa a partire dalle tesi altrui. In fin dei conti Aristotele, analizzando queste tesi, le trova infondate semplicemente perché aporetiche o contraddittorie, e a partire dalla confutazione di queste tesi egli riesce a compiere un’inferenza alla spiegazione migliore per parlare di una cosa di cui non si può e non si potrà mai avere alcuna esperienza. Nelle opere di etica e di politica Aristotele si occupa invece di qualcosa di molto più immediato, perché la comunità umana è qualcosa di cui ciascuno fa (faceva?) esperienza; forse è per questo che in quelle opere non si trovano esposizioni e confutazioni di tesi precedenti così dettagliate come nella Metafisica (anche se ovviamente non mancano). 
Sintetizzando, non dobbiamo aspettarci di trovare nell’opera aristotelica intitolata così tutta la sua metafisica (nel senso odierno di questo termine): la metafisica aristotelica si può ben dire, a mio avviso, che fondi su Dio il macrocosmo e sull’uomo il microcosmo. Non sull’uomo individualisticamente inteso, bensì sulla sua natura specifica. L’individuo infatti non è una di quelle cose della forma “a = a” (altrimenti Aristotele non darebbe tanta importanza all’educazione e all’acquisizione di disposizioni etiche), come i principi immutabili della metafisica, della quale, non a caso, uno dei basilari principi è quello di identità e non-contraddizione; di quella forma è però la sua natura, che lo costituisce quale essere comunitario dotato di linguaggio.
In questo contesto assume tutta la sua rilevanza etica la confutazione del relativismo di Protagora che è svolta nel quarto libro della Metafisica. Colui che nega che esistano principi della forma “a = a”, destituendo la realtà di qualunque fondamento, non avrà a che aggrapparsi per condurre un discorso che possa considerarsi vero in senso assoluto. Negare il principio di non-contraddizione equivale a negare che esistano delle solide verità e ad affermare che tutto è relativo, a seconda dell’apparenza e dell’opinione di ciascuno. Così, il relativismo si trasforma immediatamente in individualismo, laddove ciascun individuo resta isolato nell’unicità della propria percezione-opinione e non ha una ragione comune da condividere con i suoi simili.
Il relativista-individualista negherà, pertanto, tra le altre cose, che esista una natura umana e, così facendo, negherà la possibilità che nell’ambito dell’etica e della politica esistano affermazioni vere e altre false, rendendo con ciò impossibile il giudizio. Ma, privati di quest’ultimo, come sarà possibile la filosofia? «Cercare la verità sarebbe come correre addietro ad un uccello in volo»[12]: non sarà dunque più possibile, su base veritativa, criticare un regime politico o immaginarne un’alternativa.
Aristotele non nega in toto la validità del ragionamento del sofista: è vero che a ciascuno appare una verità differente e che ciascuno considera vero ciò che gli appare tale, ma questa è appunto una verità soltanto relativa. «Non tutte le cose – però - sono relative, ma ci sono alcune cose che esistono in sé e per sé» e allora «non tutto ciò che appare potrà essere vero»[13]. Per conoscere ciò che, nell’ambito dell’agire umano, corrisponde al vero, occorre perciò fare riferimento ad un principio saldo, che è alla base, come dicevamo, della scienza pratica. Di contro alla celebre massima di Protagora, Aristotele afferma, di conseguenza, che «la virtù e l’uomo buono in quanto tale sono misura di tutte le cose»[14].
Tale è anche il valore della confutazione di Protagora compiuta nel Teeteto platonico: soltanto se esiste il Bene si può giudicare il reale in base alla sua vicinanza o distanza dal modello ideale. È evidente, allora, che anche la realtà sociale, per Aristotele come per il suo maestro, necessita di un fondamento metafisico. Non riconoscere questo aspetto della filosofia dello Stagirita mi sembra una mancanza che ne travisa l’intero pensiero.
Un’interpretazione che mi pare piuttosto diffusa sostiene che Aristotele, in un certo senso elaborando la sconfitta siracusana del maestro, avrebbe separato la theoria dalla praxis, identificando nella prima l’attività propria del sapiente e la massima felicità possibile, lontana e al riparo dalla vita politica[15]. In tal modo, Aristotele diverrebbe un precursore di Epicuro, mentre bastano due semplici dati biografici per dimostrare come egli non si ispirò mai ad un principio come il famoso «vivi nascosto»: la sua permanenza ventennale nell’Accademia, che era divenuta un «luogo di formazione etico-politica per futuri governanti», e i suoi contatti con la corte macedone e l’insegnamento impartito ad Alessandro Magno (i cui contenuti furono, secondo gli studiosi, prevalentemente politici)[16]. Ma al di là di questi dati biografici, che non sono determinanti, vi sono i contenuti dottrinali a confutare un’ipotesi siffatta: alcuni sono già emersi, altri sono esposti nel seguito.
Secondo la classificazione delle virtù nell’Etica Nicomachea, alla parte razionale dell’anima afferiscono le virtù dianoetiche della sapienza (sophia) e della saggezza pratica (phronesis). L’attività razionale si distingue infatti in due parti: una «scientifica» (epistemonikòn), l’altra «calcolatrice» (loghistikón)[17]. La prima corrisponde all’attività teoretica, il cui compito è di indagare i principi delle scienze e le conseguenze che da essi derivano[18]. Perciò, come ha ben rilevato Marcello Zanatta, «anche le scienze pratiche, in quanto scienze, sono attività della parte scientifica dell’anima razionale, ossia della ragione teoretica»[19].
Di conseguenza, sono oggetto dell’attività contemplativa anche i principi dell’etica e della politica. Secondo Aristotele, ogni scienza possiede propri principi, che indaga in relazione a quella parte dell’essere che costituisce il suo oggetto proprio[20]; principio della scienza pratica sarà allora esattamente quel concetto astratto e universale (pur nell’ambito di un solo genere dell’essere) di natura umana che sopra si è visto, che è la causa prima dell’essere sociale. Oggetto di tale scienza, poi, saranno i beni assoluti dell’uomo, considerati in relazione al principio[21], ed andranno a costituire la premessa maggiore (di carattere universale) del sillogismo pratico. È invece proprio della phronesis valutare i casi particolari e dunque stabilire la premessa minore, grazie alla quale verrà di necessità la regola per l’agire, conforme alla verità[22].
Si vede bene dunque come la teoresi abbia un’importanza fondamentale per (ed uno stretto legame con) la praxis. Del resto, Aristotele critica coloro che «rifugiandosi nella definizione, pensano di far filosofia e che così saranno virtuosi, comportandosi in modo simile a quei malati che ascoltano attentamente i medici, ma non mettono in atto nessuna delle prescrizioni»[23].
Non c’è tutta quella distanza che si vorrebbe tra la teoria aristotelica e la contemplazione platonica. Del resto, è proprio per l’importanza che lo Stagirita attribuisce alla prassi che egli critica l’idea del Bene, la quale, essendo un principio totalmente trascendente non può essere un’efficace guida per l’azione: «se anche esiste un bene unico, che sia un predicato comune, o separato, esistente come una cosa in sé, è evidente che non sarebbe oggetto d’azione né acquisibile per l’uomo»[24].
È vero che, per Aristotele, l’attività contemplativa è la più perfetta ed in grado di assicurare la massima felicità. Essa, infatti, è la realizzazione virtuosa della parte dell’anima che ha in sé il logos (è la maggiore virtù dianoetica); essendo questa la parte migliore, segue da ciò che il suo scopo sarà anche il più perfetto. Ma l’anima, per natura, è composta anche da una parte vegetativa (che non possiede né può seguire il logos e corrisponde alle funzioni biologiche) e da una parte appetitiva (la quale può essere guidata dal logos ed essere virtuosa). Se la felicità consiste nella realizzazione della natura dell’uomo, allora essa, per essere completa non potrà non riguardare queste due parti dell’anima. Allora la teoresi sarà sì il grado supremo della felicità, ma pur sempre solo una sua parte. Ad essa si aggiungerà quella relativa all’anima vegetativa, consistente nella soddisfazione dei bisogni del corpo, implicando sia beni materiali (ad esempio il cibo) sia piaceri (che, adeguatamente misurati, sono inclusi nell’etica aristotelica); infine si avrà la felicità conseguente alla soddisfazione degli appetiti opportunamente indirizzati dal logos, ciò che permetterà all’uomo di ottenere, ancora una volta, sia beni materiali che piaceri, agendo con moderazione nell’ambito della comunità politica.
Come si è visto, la differenza specifica dell’animale uomo è la sua politicità, non la sua razionalità.  Propria dell’uomo è allora la vita che consiste «in un’attività e in un’azione accompagnate da ragione»[25]. Sul piano quantitativo, anzi, è normale che la vita sociale assuma per l’uomo una rilevanza ancora maggiore di quella teoretica, ancorché ad essa qualitativamente inferiore, in quanto intrinsecamente instabile e problematica.
Inoltre, anche la stessa contemplazione assume un significato politico. Per Aristotele ogni attività utile è sempre un mezzo e come tale indica un’incompletezza relativa al fine; ciò che costituisce il telos dell’uomo deve essere inutile in quanto completezza, non finalizzato all’ottenimento di altro. L’utile non può mai essere fine in se stesso perché costituisce sempre un rimando, ingenerando un movimento insaziabile del desiderio che non può essere soddisfatto e che non può dunque portare alla felicità. Tale è l’atteggiamento di coloro che hanno di mira l’onore, il prestigio, il potere, la ricchezza, eccetera.
Soltanto in questo senso la politica è da fuggire, ma non in quanto anch’essa può essere un mezzo per il raggiungimento delle condizioni che permettano la felicità suprema dell’attività contemplativa. Come ha scritto Enrico Berti «è necessario liberare l’uomo dal bisogno, affinché egli possa dedicarsi a quelle attività teoretiche»[26].
Le attività che non hanno in sé il proprio fine sono attività da schiavi, nel senso che se un bene materiale, o il potere, o che altro (che secondo natura sono soltanto mezzi) viene assunto come fine, l’anima umana ne diviene serva. Il fine autentico dell’uomo non può che essere “spirituale”, perché solo il bene dell’anima (che è l’autentica felicità, come voleva anche Platone) può essere perseguito infinitamente senza che questo divenga padrone e tiranno. Questo elogio dell’inutilità chiarisce in che senso la vita contemplativa sia di genere superiore alle altre, ma al contempo mette bene in luce la vena critica (per esempio anticrematistica) di Aristotele, mostrando così le sue evidenti implicazioni politiche.
Se fin qui si è trattato di mettere in luce la complessa concezione aristotelica della natura umana, occorre adesso mettere in luce che tipo di società politica possa essere conseguenza di queste considerazioni (anche se in parte lo si è già detto).
«Non bisogna forse dire che, in assoluto e secondo verità, oggetto del volere è il bene, ma che per ciascuno è un bene apparente; che per l’uomo eccellente è il bene secondo verità, mentre per l’uomo dappoco è ciò che capita… ?»[27]. Questo passo dell’Etica Nicomachea si pone sulla stessa linea della critica alla dottrina relativistica di Protagora condotta con appassionata verve nella Metafisica. Ma chi è quell’uomo virtuoso, lo scienziato pratico, in grado di determinare ciò che è bene «secondo verità»?
Nella Metafisica Aristotele riprende una critica che già Platone, nel Teeteto, aveva mosso contro Protagora per voce di Socrate[28]. L’argomento suona più o meno così: non si può affermare che la verità che appare a uno è dello stesso valore della verità che appare a un altro, altrimenti si dovrebbe arrivare a sostenere, per esempio, che farsi curare da un medico (che conosce una certa verità circa la salute) o da una persona qualsiasi (che pure conosce una certa verità sulla questione) sia la stessa cosa. Così, dunque, come si sceglie il medico per curare il corpo, si dovrà scegliere l’uomo eccellente, diciamo, per curare l’anima. Ma questi non è altri che il politico; infatti è il politico che determina ciò che è bene e male per la comunità, e perciò legifera, in base alla sua saggezza riconosciuta e all’autorità che su questa si fonda. Se un politico perde questa considerazione, perde anche la legittimità.
Il saggio è colui che sa cogliere il bene tanto per se stesso quanto per gli altri: Aristotele porta l’esempio di Pericle[29] ed afferma che «il vero politico [compie] ogni sforzo in vista della virtù, infatti vuole rendere i cittadini buoni e osservanti delle leggi»[30].
Tutta la comunità, se virtuosa, sa e deve riconoscere chi è o chi sono gli uomini dotati di maggiore phronesis, infatti è soltanto in base alla loro opinione autorevole che si può convalidare ciò che il singolo individuo ritiene essere virtù: «la virtù è uno stato abituale che produce scelte, consistente in una medietà rispetto a noi, determinato razionalmente, e come verrebbe a determinarlo l’uomo saggio, medietà tra due mali, l’uno secondo l’eccesso e l’altro secondo il difetto»[31].
Nella costituzione migliore, in cui comanda chi eccelle per virtù (sia esso uno o, più difficilmente, più), coloro che sono comandati ne accettano l’autorità perché, essendo anch’essi virtuosi, riconoscono che chi comanda è moralmente migliore[32]. La legge, perciò, essendo diretta emanazione della phronesis di chi governa, sarà anch’essa riconosciuta dai cittadini come giusta e sarà perciò da essi seguita.
Si vede bene che Aristotele, pur partendo da modelli di poleis storicamente reali, finisce con l’essere non meno distante da esse di quanto non lo fosse Platone. Ma del resto, è prerogativa dei filosofi opporre alla mutevole realtà un ordine ideale, se non altro come riferimento per il giudizio.
A differenza di Platone, tuttavia, il potere immaginato da Aristotele non opera tramite persuasione, inganno e violenza. L’inganno è instabile del fronte al sospetto, che può farlo crollare. Una società politica come quella auspicata dallo Stagirita è indubbiamente più solida, laddove il potere riconosciuto è un potere legittimato dalla collettività e, perciò, meno esposto al sempre possibile odio dei sudditi che può ingenerare una stasis e portare al mutamento.
Aristotele, rispetto a Platone, si mostra assai più ottimista circa la possibilità che gli uomini acquisiscano l’abito della virtù e costituiscano insieme una comunità giusta. Il Bene platonico era troppo distante dall’affollata caverna di cui narra il celebre mito; Aristotele, negandone la trascendenza, fa sì che esso sia alla portata di tutti gli uomini, purché essi sappiano far uso della giusta misura nelle loro deliberazioni e, grazie all’insegnamento degli uomini saggi, imparino a frenare i loro impulsi ed istinti irrazionali, sottomettendoli alla guida della phronesis e dei principi che essa trae dalla conoscenza (di carattere teoretico) della loro più essenziale natura.













[1] Cfr. Etica Nicomachea I, 13, 1102a 10-12; X, 10, 1180a 25-27
[2] EN I, 5, 1097b 11, Politica I, 2, 1253a 2
[3] Non mi sembra corretto, perciò, come fa Zanatta, tradurre zoon con “vivente”, perché quest’ultimo è un genere remoto. Cfr. M. Zanatta, Introduzione alla filosofia di Aristotele, Rizzoli, Milano 2010, p. 316.
[4] Politica I, 2, 1235 a.
[5] Cfr. Politica III, 15, 1286a 16-17 
[6] Metafisica Θ, 8, 1050a 7-9.
[7] Metafisica Θ, 6, 1048a 32.
[8] Metafisica Θ, 7, 1049a 5-17.
[9] Politica III, 9, 1280 b 31-35.
[10] Su quest’ultimo punto, cfr. infra.
[11] È noto che Aristotele non ha mai utilizzato questo termine, che è stato posto come titolo dell’opera che conosciamo dall’editore Andronico di Rodi.
[12] Metafisica Γ, 1009b 39-40.
[13] Metafisica Γ, 1011a 17-20.
[14] EN X, 5, 1176a 17.
[15] Questa posizione è sostenuta, per esempio, in M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari 2010 (1989), pp. 159-218.
[16] M. Zanatta, Introduzione alla filosofia di Aristotele, Rizzoli, Milano 2010, p. 23; 77-78.
[17] EN VI, 2, 1139a 11-12
[18] EN VI, 7, 1141a 16-20.
[19] M. Zanatta, Introduzione cit., p. 295.
[20] Metafisica E I.
[21] Zanatta sostiene (p. 297) che i singoli beni sono i principi della scienza pratica; l’ipotesi mi pare insostenibile perché i beni sono tali soltanto se relazionati ad un principio (la natura umana), perciò non possono essere, essi stessi, principi.
[22] Cfr. M. Zanatta, Introduzione cit., pp. 298-300.
[23] EN II, 3, 1105b 12-16.
[24] EN I, 4, 1096b 30-35.
[25] EN I, 6, 1098a 12, corsivo mio.
[26] E. Berti, Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima, cit. in G. Reale, Introduzione, in Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, p. XVII.
[27] EN III, 6, 1113a 23-28.
[28] Vedi nota 30.
[29] EN VI, 5, 1140b 7-10.
[30] EN I, 13, 1102a 7.
[31] EN, II, 6, 1107a 1-3, corsivo mio.
[32] Cfr. M. Zanatta, Introduzione cit., p. 338.

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