giovedì 21 giugno 2012

Considerazioni sul Gorgia di Platone

Nel Gorgia Platone mette in scena, con un’intensità drammatica davvero efficace, quello che credo sia il più grande dilemma etico della vita di ciascuno: da una parte, la consapevolezza teorica di ciò che è eticamente retto, di cosa sia la giustizia; dall’altra, la totale (o quasi) inefficacia pratica di tali convinzioni, le quali, proprio per questo, risultano essere – spesso anche alla propria coscienza, oltre che di fronte agli altri – mere narrazioni prive di qualsiasi valore, buone soltanto per consolare l’individuale bisogno di sentirsi moralmente ineccepibili.
Questo dilemma emerge in tutta la sua gravità forse come caratteristica peculiare del nostro tempo, in cui il dominio del capitalismo sulle nostre vite è a tal punto potente e pervasivo che anche colui che con la maggiore coerenza teorica ne critica gli effetti devastanti (in termini di alienazione individuale, sfruttamento di persone e di ambiente, inegualità, ecc.), finisce per vivere immerso in esso e senza riuscire a distaccarsene. Mai, almeno, del tutto.
Ebbene, nel Gorgia, possiamo dire, Socrate rappresenta la grandiosità di un impianto filosofico in grado di dare un sicuro fondamento razionale alla vita etica, al dovuto trionfo della giustizia sull’ingiustizia, dunque, infine, della vera politica sui giochi di potere. Ma è insidiato continuamente dai suoi interlocutori, in maniera via via crescente, tanto che l’ultimo di questi, Callicle, sarà sì sconfitto sul piano della discussione dialettica, ma – come rileva Giovanni Reale (nota 206 dell’edizione Bompiani, pp. 349-350) – non sarà convinto.
Credo che il punto più emblematico di tutto il dialogo, in merito a ciò, sia il 471 a-e. Qui Polo sostiene, contro ciò che Socrate ha appena mostrato, che un ingiusto uomo come il potente Archelao (che pur avendo compiuto efferati omicidi rimane saldo al governo) non può essere considerato infelice, perché può fare tutto quello che vuole. Socrate non condanna soltanto – come ciascuno di noi spontaneamente farebbe – i mezzi con i quali Archelao si è assicurato la sua posizione di prestigio (i crimini e gli omicidi), bensì, più radicalmente, sostiene che la felicità non consiste nel poter agire secondo il proprio arbitrio, poiché così facendo si compiono delle ingiustizie che, anche senza arrivare all’omicidio, fanno sì che chi le compie macchi il suo animo e – siccome quest’ultimo è la cosa più importante – sia, in realtà, un infelice.
Il lettore non può che parteggiare per Socrate: egli impersonifica un senso di giustizia davvero maestoso. Ma proprio qui l’insidioso dialogare di Polo arriva a pungere la coscienza del lettore: Socrate gli dice «io non sono d’accordo su nessuna delle cose che dici» ed egli esclama con forza: «perché non vuoi! Infatti, anche tu sei del mio parere».
Polo accusa Socrate di essere uomo di sole parole: facile, così, sostenere un simile discorso etico; ma, in realtà, anche lui vorrebbe poter fare tutto ciò che vuole, avere il potere, non essere ostacolato in nulla e, così, essere felice. Non è possibile, per Polo, che il discorso socratico si traduca in una reale prassi virtuosa: esso è solo filosofia, non ha niente a che vedere con il reale comportamento degli uomini – nemmeno, secondo Polo, dello stesso Socrate.
Tuttavia, Platone farà infine trionfare Socrate, il quale già subito replica a Polo: «questa argomentazione non ha alcun valore per la verità». Come a dire: se anche fosse vero che tutti gli uomini agiscono nella convinzione di ottenere la felicità anche compiendo delle ingiustizie, tuttavia questo non corrisponderebbe al vero e significherebbe che tutti gli uomini sono infelici. Perché essere ingiusti è guastarsi l’anima (che è il sommo bene) ed è mettere a rischio anche la beatitudine eterna dopo la morte (come narra il mito escatologico posto da Platone in chiusura del dialogo).
Platone, per confermare la validità delle tesi etiche che ha fatto esporre da Socrate nel dialogo, e quindi la possibilità reale che l’uomo agisca in base ad esse, inserisce verso la fine del dialogo una descrizione di ciò che era realmente avvenuto al Socrate storico: la condanna nel tribunale ateniese per corruzione dei giovani, l’incapacità del filosofo di difendersi e il suo affrontare serenamente la morte. Qui Platone ci narra come Socrate poté morire così: proprio perché egli davvero viveva in coerenza con il sistema etico qui impostato.
La grandiosità etica di Socrate vince allora non più soltanto sul piano della discussione teorica, ma anche su quello della prassi.
«Se io dovessi – dice Socrate – presentarmi in tribunale e se corressi il pericolo di cadere in qualcuna di queste sventure che tu [il suo interlocutore Callicle] dici, di questo sarebbe responsabile un malvagio, perché nessun uomo onesto potrebbe mai accusare chi non ha commesso ingiustizia. E non sarebbe, anzi, strano che io dovessi morire. (…) Io credo di essere tra quei pochi Ateniesi, per non dire il solo, che tenti la vera arte politica, e il solo tra i contemporanei che la eserciti. E poiché non per compiacere ai miei uditori io faccio sempre i miei ragionamenti, ma per cercare il meglio e non ciò che dà più piacere; e poiché non voglio seguire gli accorti suggerimenti che tu mi dai, in tribunale io non saprò che cosa rispondere. (…) Io sarò giudicato come potrebbe essere giudicato un medico se lo accusasse un cuoco davanti a dei fanciulli! Considera, infatti, come potrebbe difendersi il medico accusato da costoro, se uno gli muovesse queste accuse: “Ragazzi, quest’uomo vi ha fatto molti mali, e rovina voi e quelli più giovani di voi, tagliando e cauterizzando; vi fa soffrire facendovi digiunare e angustiandovi; vi dà pozioni amarissime e vi fa soffrire fame e sete, non come me, che, invece, vi imbandisco sempre cibi prelibati e di ogni genere”. Che cosa credi che il medico potrebbe rispondere? E se dicesse la verità, ossia se dicesse: “Io, ragazzi, feci tutto questo per la vostra salute”; ebbene, te le immagini le urla che lancerebbero questi giudici? (…)
E in una situazione del genere so che anch’io verrei a trovarmi, se dovessi presentarmi in tribunale. Infatti io non avrei da ricordare loro i piaceri loro procurati da me, ossia quei piaceri che costoro considerano benefici e vantaggi; mentre non invidio né quelli che li procurano, né coloro ai quali sono procurati. E se qualcuno dicesse che io corrompo i giovani, procacciando loro difficoltà, e che dico male dei vecchi facendo pungenti discorsi in privato e in pubblico, io non saprei nemmeno dire la verità, ossia questo: “io per amore di giustizia faccio tutte queste cose nel vostro interesse, o giudici, null’altro”. E, per conseguenza, probabilmente, mi toccherà ciò che dovrà toccarmi».
«E, allora, - risponde Callicle – ti pare, Socrate, che sia bello, per un uomo, trovarsi in questa condizione nella propria Città ed essere incapace di soccorrere a se medesimo?»
«Purché, Callicle, egli abbia quella sola cosa che più volte anche tu mi hai concesso: che, cioè egli abbia aiutato se stesso con non aver né detto né fatto nulla di ingiusto né verso gli uomini né verso gli dèi» (521 c – 522 c; tr. It. G. Reale).
In base a quanto è detto in un bellissimo passo delle Leggi, Socrate è allora l’unico uomo veramente saggio e la grande sfida dell’etica platonica sta proprio in questo: nell’essere all’altezza di una così grande coerenza e di un principio di giustizia così ineccepibile come quello che emerge dai suoi scritti. Chi non vive in questa maniera è degno di essere considerato il più grande ignorante. Dice l’Ateniese nelle Leggi: «Qual è dunque quella che si può legittimamente definire la più grande ignoranza? (…) Quella per cui qualcuno, pur ritenendo una cosa bella o buona, non la ama ma la odia e invece ama e desidera ciò che ritiene spregevole e iniquo. Io credo che questa dissonanza di dolore e di piacere con l’opinione conforme a ragione rappresenti la forma estrema e più grave di ignoranza perché occupa il grosso dell’anima: sofferenza e piacere sono infatti per l’anima ciò che il popolo e la massa sono per la città. Quando l’anima si oppone alle conoscenze o alle opinioni o alla ragione, alle quali per natura spetta il comando, si ha ciò che definisco stoltezza, e lo stesso vale per una città, quando la massa non obbedisce ai magistrati e alle leggi, e per un individuo, quando i bei ragionamenti che albergano nell’anima non portano a nulla ma si verifica l’esatto contrario: tutte queste forme di ignoranza io le considero le più deleterie così per una città come per ogni singolo cittadino, non certo quella degli artigiani, se cogliete, o stranieri, il senso di ciò che dico» (689 a, corsivo mio, tr. it. F. Ferrari).
Quando Socrate, nel passo sopra riportato, dice «io non saprei nemmeno dire la verità», ricorda molto da vicino il silenzio di Gesù Cristo di fronte all’accusa del sinedrio (pur con l’abissale distanza di “spirito” fra la filosofia greca e il cristianesimo). L’assemblea sosteneva a gran voce: «“Noi lo abbiamo udito mentre diceva: io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo”. (…) Allora il sommo sacerdote, levatosi in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: “Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?”. Ma egli taceva e non rispondeva nulla» (Marco, 14, 58-61).
È l’assurdità agli occhi degli stolti della condotta di chi vive alla maniera socratica o cristiana che impedisce a quest’ultimo di far valere la verità di fronte all’ingiustizia e lo costringe al silenzio. Ma sarebbe impossibile per lui rifiutare la morte, difendendosi con la menzogna (come Callicle suggerisce a Socrate): compiere ingiustizia è, infatti, il più grande dei mali.
Ancora in conformità con l’insegnamento platonico e socratico, troviamo un passo della Lettera di Giacomo: «siate di quelli che mettono in pratica la parola, e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché, se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla» (Giacomo 1, 22-25, corsivo mio).
Al contempo emerge chiaramente come questa filosofia sia interamente etica e non soltanto morale: implica una irrinunciabile dimensione comunitaria. Se, infatti, il filosofo rispondesse del suo agire soltanto di fronte alla propria coscienza, la città non lo accuserebbe; ma quest’ultima si sente offesa dall’ardire di Socrate, che confuta le opinioni altrui mostrando ad essi una scomoda verità. Per questo il filosofo diventa il politico (nel senso greco e più propriamente platonico di questo termine). Compito di quest’ultimo è per Platone prendersi cura della città, «con l’intento di rendere i cittadini stessi quanto è possibile migliori» (Gorgia, 513 e).

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