lunedì 22 agosto 2011

Aristotele, polis e libertà

(continuo la riflessione cominciata in post precedenti)

Aristotele vive nel IV secolo a. C., quando l’esperienza della polis era ormai entrata in una fase di declino. La storia aveva in parte dato ragione a coloro i quali avevano, dall’interno, già criticato tale realtà. E’ inutile idealizzare la grecità come periodo di prosperità, eguaglianza e democrazia. Prima di tutto, perché la giustizia di Aristotele è pur sempre una giustizia proporzionale fondata su una società classista, e in secondo luogo perché anche la politica aristotelica è ideale.

Aristotele considera l’uomo come antropologicamente – di più: naturalmente – portato a vivere e a relazionarsi con altri esseri della sua stessa specie. Partendo da questo “dato di fatto” egli cerca allora di elaborare un’etica della convivenza, senza immaginare la fondazione di una repubblica (come aveva fatto Platone) utopica (cioè non reale), ma a partire dalla realtà sociale esistente. Egli ha a disposizione dei modelli reali (cfr. EN 1102a 10-12, 1180a 24-26), che propone di estendere a tutte le città e che vede basati sulla conoscenza e sulla prassi virtuosa, i cui fini sono da una parte il bene comune e dall’altra la felicità individuale. Il suo ideale è dunque quello di una polis giusta, i cui conflitti sociali siano sanati sulla base di un’equità in grado di dare a ciascuno ciò che gli spetta e nella quale la naturalità dell’uomo sia realizzata in pienezza, laddove egli considera la natura umana essenzialmente politica. Per Aristotele una simile città non è repressiva – come vorrebbe Antifonte o, saltando di secoli, Marcuse -, poiché le sue istituzioni non sono altro che la conseguenza della politicizzazione della virtù, della realizzazione della vita comunitaria cui l’uomo naturalmente tende. Aristotele non è ancora vittima del disincanto di fronte al quale si considera il carattere inequivocabilmente oppressivo del potere (come Trasimaco nel I libro della Repubblica di Platone), poiché egli immagina un potere che non si basi sull’impersonalità della legge (come il potere moderno), bensì, insieme alle leggi, sul consenso e sul riconoscimento da parte del popolo della virtù e dell’adeguatezza al compito di governo.

Spunti per queste righe sono ricavati anche da Mario Vegetti, L’etica degli antichi, Roma-Bari, Laterza, 1989, cap. III

N.B. Forse sto dicendo delle castronerie; spero di no e, se sì, di rendermene presto conto! Sono in fase di elaborazione...!

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