venerdì 12 agosto 2011

Ritorno ai Greci

«La virtù è uno stato abituale che produce scelte, consistente in una medietà rispetto a noi, determinato razionalmente, e come verrebbe a determinarlo l’uomo saggio, medietà tra due mali, l’uno secondo l’eccesso e l’altro secondo il difetto.» Questa è la famosa definizione di virtù data da Aristotele in Etica Nicomachea, 1107a (trad. di Carlo Natali, ed. Laterza) e può essere un buon esempio per capire come i filosofi della Grecia antica intendessero la razionalità. Come si vede – e questo è comune a tutta l’etica antica – la ragione è ciò che permette al singolo uomo di agire virtuosamente. E' qualcosa di strettamente individuale: l’azione morale è connaturata all’esser-uomo (non si forza troppo la mano su Aristotele se si giunge a parlare di istinto morale, come fa Lévinas) e la specificazione “come verrebbe a determinarlo l’uomo saggio” mi sembra rimandi a una dimensione comunitaria (la polis, nella fattispecie) entro la quale soltanto può essere nota a tutti l’opinione di colui che viene da tutti riconosciuto come degno di autorità. Ma si badi che si tratta di un’autorità riconosciuta e legittimata in base alla saggezza (phronesis), cioè alla virtù (la saggezza è infatti una delle virtù dianoetiche nello schema aristotelico).

Radicalmente differenti sono la razionalità e l’etica di stampo moderno-illuministico: la ragione non è più eletta quale guida della prassi, bensì asservita alla conoscenza, la quale a sua volta non si configura più come contemplazione, speculazione o teoresi (l’attività più alta per l’uomo secondo Aristotele, nonché fine a se stessa: è l’azione che compie costantemente il Dio della Metafisica), bensì come strumento per il progresso, per il dominio e il potere (sulla natura come sugli uomini). Non sono più la ragione pratica individuale e l’esempio dell’uomo saggio della comunità ad indirizzare la virtù, bensì una ragione astratta e universale, incarnata nella Legge e nello Stato. Dunque l’autorità non è più comunitaria, ma societaria, e non è più riconosciuta in base alla sua virtù (che è sempre prassi – dice infatti Aristotele che il fine dell’etica «non è la conoscenza, ma l’agire», EN 1095a 5), bensì in base ad una bontà presunta e totalmente slegata dalla prassi. Un’autorità peraltro basata sul potere e sulla coercizione, come secoli di filosofia politica e poi di sociologia ci insegnano, che tende ad imporre la Legge quale principio etico universale (vedi Zygmunt Bauman, Le sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano, 1996), non soltanto ai sudditi dello Stato, ma a tutta l’umanità (vedi colonialismo, imperialismo, globalizzazione) che, se ancora non segue tali principi, è soltanto perché è arretrata, «barbarica» (già l’espansione romana era legittimata con un ragionamento simile).

Ciò non significa che per Aristotele non fossero necessarie le leggi, ma le parole che egli spende per descrivere i politici sono molto eloquenti circa la differenza tra i legislatori di una polis e quelli di uno stato moderno. Basti la seguente citazione: «pare inoltre che il vero politico compia ogni sforzo in vista della virtù, infatti vuole rendere i cittadini buoni e osservanti delle leggi» (EN 1102a 10). Il politico dev’essere, nella prospettiva aristotelica, un uomo virtuoso e saggio: la legge è determinata in base a questa saggezza, ed è dunque il politico quel saggio cui si deve fare riferimento nel valutare la moralità di un’azione, secondo la definizione citata all’inizio.

I filosofi greci consideravano sì la ragione come strumento utilizzabile da tutti, ma non consideravano la ragione come universale. Ci si può chiedere come sia possibile che, in base alla ragione, persone diverse agiscano diversamente, e si può rispondere negando la ragione quale base della prassi e porre al suo posto l’istinto. Mi sembra invece che la risposta più esatta venga ancora da Aristotele: «siccome il bene si dice negli stessi modi in cui si dice l’essere (…) non potrà essere qualcosa di comune, universale e uno» (EN 1096a 25). Ciò significa che, come l’essere è determinato in base alla sostanza e agli accidenti (in base alle categorie), così anche il bene sarà distinto a seconda degli accidenti; non potrà essere universale e uno poiché dipendente dalla relazione, dal tempo, dal luogo, ecc.

Relativismo postmoderno? No, grazie. Ma nemmeno universalismo moderno: un ritorno ai Greci.

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