"Se la sintesi potesse essere
effettiva, se la mia esperienza formasse un sistema chiuso, se la cosa e il
mondo potessero essere definiti una volta per tutte, se gli orizzonti
spazio-temporali potessero, anche idealmente, essere esplicitati e il mondo pensato
senza punti di vista, allora non esisterebbe nulla, io sorvolerei il mondo, e,
anziché diventare simultaneamente reali, tutti i luoghi e tutti i tempi
cesserebbero di esserlo perché io non ne abiterei nessuno e mancherei sempre di
inerenza. Se sono sempre e ovunque, non sono mai e in nessun luogo. Così, non
c’è da scegliere fra l’incompiutezza del mondo e la sua esistenza, fra
l’inerenza e l’ubiquità della coscienza, fra la trascendenza e l’immanenza,
giacché, quando è affermato da solo, ciascuno di questi termini fa apparire
quello che lo contraddice. Dobbiamo comprendere che la medesima ragione mi
rende presente qui e ora e presente altrove e sempre, assente da qui e ora e
assente da ogni luogo e da ogni tempo. Questa ambiguità non è una imperfezione
della coscienza o dell’esistenza, ma ne è la definizione. […]
In queste condizioni si può anche
dire, se si vuole, che nulla esiste assolutamente, e in realtà sarebbe più
esatto dire che nulla esiste e che tutto si temporalizza. Ma la temporalità non
è un’esistenza diminuita. L’essere oggettivo non è l’esistenza piena. Il suo
modello ci è fornito da quelle cose di fronte a noi che al primo sguardo paiono
assolutamente determinate: la tal pietra è
bianca, dura, tiepida, il mondo pare cristallizzarsi in essa, sembra che
questa pietra non abbia bisogno di tempo per esistere, che si dispieghi
interamente nell’istante, che ogni aggiunta di esistenza sia per essa una nuova
nascita, e si sarebbe tentati di credere per un momento che il mondo, se è
qualcosa, non può essere altro che una somma di cose analoghe a questa pietra,
il tempo una somma di istanti perfetti. Tali sono il mondo e il tempo
cartesiani, ed è ben vero che questa concezione dell’essere è come inevitabile,
poiché io ho un campo visivo con oggetti circoscritti, un presente sensibile, e
poiché ogni “altrove” si dà come un altro qui, ogni passato e ogni avvenire
come un presente trascorso e futuro. La percezione di una sola cosa fonda per
sempre l’ideale di conoscenza oggettiva o esplicita che la logica classica
sviluppa. Ma non appena ci si appoggia su queste certezze, non appena si
risveglia la vita intenzionale che le genera, ci si accorge che l’essere
oggettivo ha le sue radici nelle ambiguità del tempo. Io non posso concepire il
mondo come una somma di cose, né il tempo come una somma di “adesso” puntuali:
infatti, ogni cosa può offrirsi con le sue determinazioni piene solo se le
altre cose si ritirano nella indeterminatezza dei lontani, ogni presente può
offrirsi nella sua realtà solo escludendo la presenza simultanea dei presenti
anteriori e posteriori, e pertanto una somma di cose o una somma di presenti è
un non senso. Le cose e gli istanti non possono articolarsi uno sull’altro per
formare un mondo se non attraverso l’essere ambiguo che chiamiamo una
soggettività, non possono divenire co-presenti se non da un certo punto di
vista e in intenzione. Il tempo oggettivo che scorre ed esiste parte per parte
non sarebbe nemmeno ipotizzato, se non fosse avvolto in un tempo storico che si
proietta dal presente evidente verso un passato e verso un avvenire. La pretesa
pienezza dell’oggetto e dell’istante sorge solo di fronte all’imperfezione
dell’essere intenzionale. Un presente senza avvenire o un eterno presente è
esattamente la definizione della morte, il presente vivente è lacerato fra un
passato che esso riprende e un avvenire che proietta. Alla cosa e al mondo è
dunque essenziale presentarsi come “aperti”, rinviarci al di là delle loro
manifestazioni determinate, promettere sempre “altro da vedere”. È quanto
talvolta si esprime dicendo che la cosa e il mondo sono misteriosi. In realtà,
essi lo sono appena non ci si limita al loro aspetto oggettivo e li si
ricolloca nell’ambito della soggettività. Sono anzi un mistero assoluto che non
è suscettibile di essere illuminato, non per una carenza provvisoria della
nostra conoscenza, ché allora si ridurrebbe a un semplice problema, ma perché
non è riconducibile al pensiero oggettivo, nel quale esistono delle soluzioni.
Non c’è nulla da vedere al di là dei nostri orizzonti, se non ancora altri
paesaggi e altri orizzonti, nulla all’interno della cosa, se non altre cose più
piccole. L’ideale del pensiero oggettivo è fondato e insieme distrutto dalla
temporalità. Il mondo, nel senso pieno della parola, non è un oggetto, ha sì un
involucro di determinazioni oggettive, ma anche delle spaccature, delle lacune
attraverso le quali le soggettività si introducono in esso, o meglio: queste
spaccature, queste lacune sono le soggettività stesse. Ora comprendiamo perché
le cose, che devono al mondo il loro senso, non sono significati offerti
all’intelligenza, ma strutture opache, e perché il loro senso ultimo rimane
confuso. La cosa e il mondo non esistono se non vissuti da me o da soggetti
come me, poiché sono la concatenazione delle nostre prospettive, ma trascendono
tutte le prospettive poiché questa concatenazione è temporale e incompiuta. Mi
sembra che il mondo viva se stesso fuori di me, come i paesaggi assenti
continuano a vivere al di là del mio campo visivo e come una volta il mio
passato ha vissuto se stesso al di qua del mio presente."
Merleau-Ponty, Fenomenologia
della percezione, il Saggiatore, Milano 1965 p. 431-33.
1 commento:
Buongiorno Gianluca, mi ha colpito che anche Lei tenga un Blog e che sia un chitarrista e che a quanto pare ami la filosofia e forse la fenomenologia in particolare.
Merleau Ponty, che ammetto di conoscere superficialmente è molto affascinante. La riflessione sulla Realtà oggi è un urgenza per tutti ma per molti diventa un'esigenza al fine di mantenere una buona tranquillità.
Si tratta di uno dei punti centrali della mia riflessione, non per scelta, per elezione, ma perché nel momento in cui mi metto liberamente a scrivere finisco sempre per toccare quell'argomento o almeno a porlo nelle premesse...
Io suono molto poco in questo periodo ma la mia musica sono i Beatles, il blues e il Jazz sebbene ascolti molta musica classica. La musica e lo studio della musica predispongono a una riflessione sulla sensibilità e il tempo. La mia sofferenza (in termini puramente estetici, diciamo) nasce in gran parte dalla modalità di vivere il tempo a "frullatore" che è la cifra del mondo che vedo. Ma anche questo sarà parte del divenire... (della mia coscienza?? :-)))
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