1.
SPINOZA. La
realizzazione della libertà umana.
Il volontario ci sembrerà essere ciò il cui principio è in chi agisce,
quando costui conosca i singoli aspetti nei quali l’azione si verifica.
Infatti non dice bene di certo chi afferma che gli atti compiuti
a causa dell’impetuosità o del desiderio sono involontari.
ARISTOTELE
La libertà è una virtù, ossia una perfezione: e dunque tutto ciò
che nell’uomo è indizio di impotenza non può essere posto
in relazione con la sua libertà. Perciò l’uomo non può affatto
dirsi libero perché può non esistere, o perché può non usare
la ragione ma solo in quanto ha il potere di esistere e di
operare secondo le leggi della natura umana.
SPINOZA
Come nel caso di Aristotele rispetto a Platone le dissomiglianze non sono
forse più delle somiglianze, così è anche per Spinoza e Hobbes. Le opere di
quest’ultimo erano conosciute in Olanda ed è evidente come lo stesso Trattato teologico-politico risenta
enormemente della loro influenza. Tuttavia, ciò che caratterizza ciascun
filosofo sono proprio quegli aspetti che maggiormente lo differenziano rispetto
ai suoi predecessori o contemporanei, sicché si può considerare il complesso
della filosofia spinoziana come assai differente da quella hobbesiana, anche in
ambito politico.
Anche se Spinoza, pur dichiarando di accettare la definizione dell’uomo
come «animale sociale»
, non si
può definire integralmente aristotelico, ha comunque una concezione della
natura umana non così dissimile da quella dello Stagirita.
Per Spinoza, esiste una condizione naturale di passività della mente
umana, che consiste nell’avere questa delle idee inadeguate rispetto alle cause
dei suoi stati, che dunque la dominano interamente
. Gli affetti
primari sono la letizia, che è «la passione per la quale la Mente passa ad una
perfezione maggiore», la tristezza, che è «la passione per la quale essa passa
ad una perfezione minore»
, e la
cupidità, che è la coscienza dello sforzo di autoconservazione
.
Tuttavia, l’uomo può dominare le sue passioni giungendo ad una conoscenza
adeguata della realtà, e così ottenere su di esse il dominio, divenendo attivo
e, perciò, libero. Questo implica che da parte di Spinoza vi sia un discreto
ottimismo circa le capacità della ragione umana sulle passioni.
Occorre allora analizzare come avvenga questa transizione dalla passività
all’attività, dalla schiavitù alla libertà, dall’ignoranza alla razionalità.
Innanzitutto, stando la definizione di letizia e tristezza sopra riportata, si
nota come anche un affetto positivo come la gioia sia trattato come passione,
il che significa che l’uomo non è misero in quanto le passioni lo rendono
inevitabilmente infelice, ma soltanto che l’uomo, finché non agisce secondo
ragione, non può dirsi causa adeguata delle cose e perciò non può considerarsi
libero. E la libertà dell’uomo è l’unica cosa, per Spinoza, che conta davvero.
Ma, come ha notato Paolo Cristofolini, secondo Spinoza «si può parlare di
perfezione o imperfezione (EIV
Praef.)
solo per le
res artificiales, quando
ci sia nota la
mens opificis:
pertanto, gioia e tristezza sono passaggi interpretabili solo progettualmente,
dal punto di vista di una mente artefice». Ma Spinoza, immanentizzando la
divinità, esclude che essa agisca per fini, né il singolo soggetto può essere
questa mente artefice, essendo passivo. «Rimane il
nos, un soggetto umano plurale e complesso, che produce socialmente
il perfezionamento dei soggetti singoli»
. Il che
significa che la perfezione o l’imperfezione verso la quale l’anima muta,
dipende interamente dal contesto in cui essa è inserita. Le passioni, allora,
non sono qualcosa di privato ed individuale, ma hanno cause e conseguenze
sociali. Gioia e tristezza, rispettivamente, aumentano o diminuiscono, infatti,
la potenza d’agire di un individuo
.
Vi è poi un’ulteriore
transitio,
che è quella dalla passività dei moti dell’animo alla loro attività. Da questa va
però esclusa la tristezza, che non può essere riferita alla mente in quanto
attiva, essendo un ostacolo alla sua potenza d’agire
. Questo
passaggio avviene con il raggiungimento del secondo genere di conoscenza, che è
la ragione e consiste nel conoscere le cose avendone idee adeguate (essa segue
all’opinione o immaginazione ed è seguita dalla scienza intuitiva, che dalla
conoscenza di Dio deriva la conoscenza dell’essenza delle singole cose
).
Ma la conoscenza di secondo genere dei propri affetti corrisponde anche
all’amore per Dio, in quanto considerato come causa della propria attività
e questo
amore è di natura tale che «non può essere contaminano né da un affetto
d’Invidia, né da un affetto di Gelosia; ma è tanto più alimentato quanto più
numerosi sono gli uomini che immaginiamo uniti con Dio dal medesimo vincolo
d’amore»
. Questo
accrescimento dell’
amor erga Deum
quando si immagini che gli altri lo condividano, è dovuto al fatto che esso
corrisponde alla piena attività razionale dell’uomo ed essendo che «gli uomini,
in quanto vivono sotto la guida della ragione, sono utilissimi all’uomo»,
allora «sotto la guida della ragione noi ci sforzeremo necessariamente di far
sì che gli uomini vivano sotto la guida della ragione»
.
Quest’amore è il «
summum bonum»
, il
quale così risulta pienamente realizzato soltanto se tutti ne partecipano e
viene ad essere il risultato di una società armoniosa nella quale gli uomini
sono utili gli uni agli altri.
Distinta dal sommo bene è, però, la condizione di beatitudine, la quale
conclude l’itinerario della conoscenza di terzo genere. Questa
acquiescentia,
tuttavia, non può essere considerata al pari di un’estasi mistica, ma è, al
contrario, il fondamento per la conoscenza dell’essenza delle
res singulares, la
quale soltanto può guidare l’azione nel modo più perfetto. Questa concezione
della conoscenza suprema è attestata dalla dichiarazione di metodo che conclude
il primo capitolo del
Trattato politico:
«le cause e le fondamenta naturali del governo non vanno ricercate negli
insegnamenti della ragione [cioè nel secondo genere di conoscenza], ma vanno
dedotte dalla comune natura, ovvero condizione, degli uomini [cioè dalla loro
essenza, la quale si comprende grazie alla scienza intuitiva, che è il terzo
genere di conoscenza]»
.
Come ha sintetizzato Cristofolini, infatti,
Procedendo
secondo il terzo genere di conoscenza, noi possediamo innanzitutto
l’intelligenza degli attributi del pensiero e dell’estensione, che sono tutto
quanto noi possiamo conoscere di Dio, e che compendiano in sé tutta l’essenza
dell’uomo; da questa conoscenza intellettuale dell’essenza o natura dell’uomo
noi deduciamo, e questa è la vera e propria scienza intuitiva, i moti
dell’animo umano, che sono le res
singulares, le specificità della natura umana. La scienza politica può
nascere a questo punto…
Non dissimilmente da quanto riteneva Aristotele, la
natura umana è sì costituita da ineliminabili passioni irrazionali, ma la
ragione può dominare su di esse; solo allora l’uomo realizza la propria libertà,
e perciò giunge al compimento (all’
energheia)
della propria essenza. Ma l’agire libero e razionale non può essere inteso
individualisticamente: «l’uomo che è guidato dalla ragione, è più libero nello
stato (
magis in civitate), dove vive
secondo il decreto comune, che nella solitudine dove obbedisce solo a se
stesso».
Come si
vede, in Spinoza, ben al contrario che in Hobbes (per il quale l’uomo è libero
solo nella propria coscienza privata, perché lo stato costituisce una
limitazione al suo arbitrio), rivive uno spirito aristotelico e comunitario che
lo pone «in antitesi con il modo di sentire e di pensare proprio del suo tempo»
.
Così si può comprendere pienamente quello
straordinario passo del Trattato politico:
La
libertà è una virtù, ossia una perfezione: e dunque tutto ciò che nell’uomo è
indizio di impotenza non può essere posto in relazione con la sua libertà.
Perciò l’uomo non può affatto dirsi libero perché può non esistere ma solo in
quanto ha il potere di esistere e di operare secondo le leggi della natura
umana. Quanto più libero noi consideriamo l’uomo, tanto meno possiamo
attribuirgli il potere di non usare la ragione e di preferire il male al bene.
È vero che «non è nel potere di ogni uomo usare sempre
la ragione ed essere al più alto livello della libertà umana»
, ma
nondimeno è questo ciò a cui ciascuno deve tendere.
La filosofia spinoziana è dunque, di contro alle
interpretazioni più misticheggianti, caratterizzata da una «forte ascendenza
umanistica»
,
essendo per lui, come per Aristotele «la virtù e l’uomo buono in quanto tale
sono misura di tutte le cose»
. Per
Spinoza infatti, il bene e il male non sono una qualità propria delle cose, ma
sono termini che assumono un significato soltanto in relazione all’uomo: «per
buono… intenderò… ciò che sappiamo con certezza essere un mezzo per avvicinarci
sempre più al modello che ci proponiamo della natura umana»; analogamente
«diremo più perfetti o più imperfetti gli uomini, secondoché si avvicinino più o
meno a questo stesso modello»
. Il
raggiungimento, da parte dell’uomo, della propria perfezione è perciò molto
simile a quella realizzazione dell’
energheia
rispetto ad una
dynamis conosciuta,
secondo il modello aristotelico.
Esposta così la complessa antropologia spinoziana,
passiamo all’analisi delle sue conseguenze politiche.
Spinoza, come Hobbes, propone l’esperimento mentale dello
stato di natura per dare fondamento
teorico alla società civile. Ma, mentre Hobbes suppone che in questo stadio pre-politico
ciascun individuo viva dominato dalle passioni, nel continuo tentativo di
appropriarsi di tutto ciò che può e di difendere strenuamente ciò che ha
ottenuto, oltreché la sua stessa vita, per Spinoza anche nello stato di natura
vi sono individui che seguono la retta ragione. Tuttavia, egli è costretto ad
ammettere, esattamente come Hobbes, che in tale condizione «nessuno… può essere
certo della fedeltà dell’altro», e perciò tutti vivono nell’incertezza, nella
paura e nell’odio reciproci, ed è dunque poco probabile che, anche colui che
viva secondo la guida della ragione, non indulga ad atti di violenza, se non
altro per difendere il proprio utile
. La
costruzione teorica di Spinoza si rivela, sotto questo aspetto, meno coerente
rispetto a quella di Hobbes (vedi il cap. XIII del
Leviatano)
. Pare
quasi che Spinoza, che, in tutte le sue opere, dimostra di credere nella
capacità della ragione umana di dominare le passioni, non possa concedere che,
nello stato di natura, non vi sia
nessuno
che sia in grado di farlo. Ma è probabile che egli non abbia indugiato,
nella sua opera, troppo a lungo su questo tema, semplicemente perché, come
dichiara a più riprese, poco interessato ad una costruzione teorica sui
fondamenti dello Stato (gli scopi del suo
Trattato
sono, in effetti, altri
).
Vi è, tuttavia, una questione prettamente politica sulla quale, per
contro, il pensiero di Spinoza appare assai più aderente alla realtà di fatto
che non quello di Hobbes, il quale ultimo si configura spesso come una
gigantesca architettura teorica, coerente al suo interno, ma non sempre attenta
all’effettività storica. Mi riferisco alle considerazioni svolte da Spinoza nei
primi paragrafi del capitolo XVII del
Trattato
teologico-politico, a principiare dall’affermazione secondo cui «nessuno
potrà mai trasferire ad un altro la sua potenza, e di conseguenza il suo
diritto, in modo tale da cessare di essere uomo; né si darà mai una suprema
potestà tale che possa far eseguire tutto così come vuole»
e
perciò tutte le considerazioni relative all’istituzione, tramite patto, dello
Stato (
res publica), «non avverrà mai
che esse non restino per molti aspetti pura teoria». Infatti, un potere che
volesse regnare nel modo assoluto teorizzato da Hobbes, dovrebbe
necessariamente fare violenza sul corpo e sull’animo dei sudditi, provocando in
essi una tale ostilità da dover poi temere più essi che non i nemici esterni.
In altre parole, Spinoza afferma che un potere assoluto, soprattutto se in mano
ad una sola persona (secondo la preferenza di Hobbes), verrebbe inevitabilmente
sovvertito a causa dell’odio dei sudditi, mancando così di realizzare lo scopo
per il quale era stato istituito.
Va notato che Spinoza è, al pari di Hobbes, teorico del potere
assoluto e
indivisibile (e perciò concorda con il filosofo inglese anche per
quanto riguarda l’unificazione del potere temporale e di quello spirituale
nella persona del sovrano), ma Spinoza propende nettamente per un potere
democratico, da lui considerato infatti l’unico governo «del tutto assoluto»
, più
vicino allo stato di natura e più rispondente alla natura umana. Infatti il
governo democratico è quello che implica la minore alienazione dei diritti che
si posseggono in natura ed è anche quello meno esposto al rischio che chi
governa lo faccia secondo arbitrio, rendendo leggi delle assurdità
.
La democrazia è intesa in due possibili modi da Spinoza: o come
partecipazione collegiale di tutta la società al governo, o della maggior parte
di essa. Tra coloro che partecipano al governo, poi, le decisioni vengono prese
secondo il criterio della maggioranza. Nelle pagine in cui tratta del governo,
egli però si riferisce molto spesso alla suprema potestà che governa sui
sudditi, al simile che governa sul simile, a cose, cioè, che
non riguardano la democrazia. Quando tutta
la società detiene collegialmente il potere, infatti, «tutti servono se stessi
e nessuno è tenuto a servire il suo uguale»
.
Questo mostra, a mio parere, due cose: 1) Spinoza è idealmente teorico e
sostenitore della democrazia diretta: «tutti
detengono collegialmente il potere»,
significa che, se di democrazia si tratta, non sono previste istituzioni di
rappresentanza. Tuttavia, 2) il filosofo di Amsterdam tiene costantemente in
considerazione la realtà storica e per questo sembra poco speranzoso che si
realizzi una democrazia così intesa (che potrebbe concretizzarsi soltanto in
comunità di ristrette dimensioni): egli dice «se è possibile» la democrazia,
questa è senz’altro la forma migliore di governo; tuttavia, come s’è detto,
egli finisce poi col far prevalere una dicotomia tra governanti e governati che
è, del resto, la dicotomia che ha storicamente sempre prevalso.
Ma come può essere, Spinoza, insieme un teorico del potere assoluto e della democrazia diretta quale
migliore forma di governo? Risponderò dicendo che il potere assoluto, com’è
inteso anche da Hobbes, non è altro che il potere di fare le leggi e di farle
rispettare. E’ chiaro che questo potere, privo di vincoli (ab-soluto, appunto), può divenire arbitrario, violento,
prevaricatore, tirannico. Ma, mentre Hobbes afferma che il termine “tiranno” è
stato introdotto con tono dispregiativo da chi non sopportava il peso
dell’autorità e che non c’è differenza, politicamente, tra un “tiranno” e un
“sovrano” (sia esso un monarca o un’assemblea), Spinoza afferma innanzitutto
che il potere, se diviene arbitrario, si inimica i sudditi e non riesce a
conservarsi, e inoltre, che il potere, se è democratico, non è altro che la
legge consensualmente approvata da tutti i membri della comunità politica.
Il suddito di una monarchia è colui che obbedisce alle leggi del re,
mentre un suddito di una democrazia (se è lecito chiamarlo “suddito”), è un
individuo che ammette come legge quella da lui stesso approvata (o approvata
dalla maggioranza, secondo la regola del gioco cui lui stesso decide di
partecipare) e dunque, in un certo senso, non fa che obbedire a se stesso, ciò
alla sua ragione: ecco, finalmente,
che il potere assoluto, in democrazia, altro non è che il potere assoluto della
ragione, che guida le azioni del singolo e della collettività e che punisce le
deviazioni per salvaguardare la comunità, distogliendo gli uomini dalle
passioni irrazionali. La comunità, tramite la punizione di chi trasgredisce le
regole da tutti ammesse, si tutela dalla possibilità sempre presente della
disgregazione.
L’autorità coercitiva, in una comunità democratica così intesa, non va
dunque identificata con un corpo istituzionale preposto alla repressione del
dissenso (come avviene, invece, nelle società dove la democrazia diretta non è
nemmeno un’ipotesi), ma è l’autorità della società nel suo complesso. Il corpo
sociale si costituisce come una comunità morale e razionale che, nel suo
insieme, si difende da chi cerca di romperne le regole. Questo è il suo potere
assoluto: in democrazia esso non può essere arbitrario se non nella misura in
cui può essere arbitraria una decisione collettivamente presa e sempre
revocabile.
Tuttavia, non solo la società democratica, ma qualunque forma di governo,
come è presentata da Spinoza, è molto più “aperta” di quella teorizzata da
Hobbes. In un certo senso, anche la monarchia e l’aristocrazia, come egli le
descrive nel Trattato politico sono
“democratiche”, essendo scientificamente progettate per l’espressione il più
possibile compiuta dell’interesse di tutti.
Ciò dimostra come il rigore logico dell’argomentazione di Hobbes sia solo
apparente e che egli conduca il discorso esattamente là dove lo vuole condurre,
mentre Spinoza, partendo dalle stesse premesse, e introducendo quella
considerazione di carattere realista di cui si è detto («nessuno potrà mai
trasferire ad un altro la sua potenza…»), pone dei precisi limiti al potere.
Anzi, dev’essere il potere stesso a porseli, in vista sia della sua mera
conservazione (per utilità, dunque), sia per fedeltà al patto: se questo,
infatti, aveva come fine la vita pacifica e sicura di tutti i membri della
società, un sovrano non può giustamente agire
usurpando i diritti dei sudditi (mentre per Hobbes il sovrano è completamente
esentato dalla fedeltà al patto).
Da tutte queste considerazioni segue, per Spinoza, che la «legge suprema»
dello Stato è «la salvezza di tutto il popolo» a cui «tutte le leggi, tanto
umane quanto divine, devono essere adattate»
. Questo
principio si collega direttamente alla tesi principale del
Trattato teologico-politico, ossia l’opportunità imprescindibile
della libertà di pensiero, che si sintetizza efficacemente nell’affermazione
finis ergo Reipublicae revera libertas est
(“Il fine dello Stato, dunque, è la libertà”)
.
Infine, l’argomentazione di Spinoza presenta un altro aspetto assente in
Hobbes, che rende, ancora una volta, la costruzione di quest’ultimo un
artificio teorico meno efficace rispetto al discorso spinoziano: si tratta
della constatazione dei mezzi attraverso i quali il potere ottiene che i
sudditi
deliberatamente si adeguino
ai suoi principî (i quali erano già stati ben individuati da Platone, come si è
visto). Questi sono, potremmo dire, gli apparati simbolico-ideologici
attraverso i quali il potere legittima se stesso. Spinoza è infatti convinto
che «detiene il massimo potere chi regna
sull’animo
dei sudditi»
e non
per niente fa riferimento, tra l’altro, ad Augusto, il quale, notoriamente,
proprio sulla propaganda ideologica fondò la stabilità del suo potere.
Ma occorre rilevare che questo subdolo mezzo di addomesticamento degli
animi umani non è necessario nell’ambito di una democrazia diretta. Spinoza,
infatti, afferma che «se pochi o uno solo detengono il potere, questi devono
avere qualcosa di superiore alla comune natura umana». Ma, siccome ciò, secondo
Spinoza, è impossibile, perché la natura umana, proprio in quanto natura, è
universale, allora questi detentori del potere devono «adoperarsi con tutte le
loro forze per convincere il volgo di tale superiorità»
; mentre,
in democrazia, «nessuno è tenuto a servire il suo uguale»
, perciò
tutto ciò non è necessario.
Per Spinoza, questo dominio sugli animi è «violento», poiché la libertà
di pensiero e di giudizio è un diritto naturale di ciascuno «al quale nessuno,
anche se volesse, può rinunciare» (p. 649)
.
Proprio questa irriducibilità dell’animo umano rende, per quanto pervasivi,
infine inefficaci i tentativi di sopprimere la libertà individuale; anzi,
questi tentativi sono per lo più disastrosi, sia per il progresso delle arti e
delle scienze (che non possono progredire senza la libertà di pensiero) e
dunque per il prestigio dello Stato, sia per la stabilità di quest’ultimo, come
si è già detto.
La libertà umana, che coincide con la sua razionalità, è il supremo
valore per ciascuno. Tant’è che Spinoza sostiene che nel momento di stipula del
contratto sociale i cittadini alienano tutti i diritti, tranne il diritto di
pensare liberamente, che deriva necessariamente dalla natura umana ed è perciò
inalienabile. Hobbes invece sopprime completamente la libertà di pensiero, che
può essere foriera di sollevazioni e perciò può attentare all’incolumità dello
stato, ed afferma che l’unico diritto che non si aliena è quello alla vita.
Evidentemente per Hobbes l’attaccamento alla vita non si attenua nemmeno nelle
peggiori condizioni, quando la ragione umana è impedita nella sua libera
attività da un potere arbitrario, mentre per Spinoza la vita è un valore meno
importante rispetto alla ragione e alla libertà.