martedì 26 maggio 2009

Il clavicembalista al pianoforte

(scritto sotto l’influsso di droghe miste, bachiane e gouldiane)

Pare che la musica venga da lui, non dal pianoforte, quell’uomo, rannicchiato dietro i tasti che sfiora.

…E nel silenzio immobile della sala vuota si insinua lentamente una carezzevole e melanconica melodia, che di silenzio è impregnata, che sa di polvere e di notte. Lui e il suo suono sono un’unica cosa: egli si culla nel tepore delle onde, muove la bocca e sussurra un canto, come a suggerire la melodia al pianoforte, e i suoi occhi, chiusi dietro buffi e smisurati occhiali, vedono un mondo fatto soltanto di suoni che si intersecano, quel mondo ineffabile e inafferrabile in cui l’uomo si sente beato, anche se solo, perché là non esistono parole e noiosi discorsi, là non c’è l’odore della nebbia d’autunno.

In breve, la musica riempie tutto lo spazio intorno, scorre a tratti veloce e fresca come un ruscello di montagna, con rapidi trilli bianchi, ora granitica ed incisiva come i passi di un gigante che da sopra le nuvole guarda ai movimenti affannati di noi che ci arrabattiamo in questo mondo, tra i rumori e i fumi quotidiani.

…E lui continua a suonare, per decine di minuti ininterrottamente, da solo, sullo sgabello storto e faticoso. Suona una musica senza tempo, e si abbandona totalmente ad essa, mentre fuori, al calar della sera, continua l’incessante movimento su strade e marciapiedi, dove la gente si mischia ma gli sguardi non s’incontrano e rumoreggiano marmitte clacson voci lamenti e veloci passi, in una sinfonia urbana dissonante e un po’ paurosa. La vita della gente, là fuori, da mattina a sera è di luci voci e fumo, non c’è spazio per il silenzio e la sua musica. Ma lui suona per sé e la musica canta per lui: la città potrebbe anche sprofondare e ogni cosa sparire, lui non ci baderebbe, continuerebbe a correre sui tasti del pianoforte e a ridere del vento…

(Strano pensare che questa musica sia stata fatta da un uomo. Anzi, tutta la musica: noi l’abbiamo creata dal nulla. Poi l’abbiamo anche dimenticata, proprio quando avremmo potuto goderne senza sforzi. Ma non serve più.
All’uomo ora servono le parole, tantissime, troppe inutili parole. Se non si possono dire si scrivono sulla rete, se capita il silenzio si ripara con la televisione o con le parole di una canzone che non impegni troppo, che parli magari d’amore o di certe notti. Ma dove non fossero necessarie le parole, anche l’amore sarebbe più bello.)


…che disperde le parole della gente, lasciando la notte nel freddo della luce notturna.

Quando stacca le mani dal pianoforte, la sala avvolta nella penombra, tutto è denso di poesia.

I rumori e le luci
giungono di lontano…
Dentro l’oscurità
sgorgano luci vive,
ululano frenetici
nell’abbandono triste
i suoni più gioiosi.
Giungono soffocati
a morire nel buio senza fondo,
come suicidi pallidi
folli ancora di amore per la vita.


(I versi conclusivi sono di Pavese, il resto può essere ricondotto all’esecuzione di Gould di una qualsivoglia opera bachiana.)

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