Finalmente abbiamo finito la tesina su Calvino con la quale perteciperemo a "I colloqui fiorentini" di quest'anno (www.diessefirenze.org). Di seguito la tesina, che credo sia riuscita abbastanza bene ed è frutto del lavoro di tre ragazzi (Io, Oscar e Andrea) del terzo anno di Liceo scientifico.
CALVINO, TRA SCRITTO E NON SCRITTO
Introduzione
In tutte le opere di Italo Calvino da noi prese in considerazione, si nota il disagio di dover raccontare una realtà presente solo nella sua mente e che non potrà mai esistere al di fuori delle pagine dei suoi libri. Dai suoi scritti infatti emerge una frattura fra il mondo scritto e il mondo non scritto col quale l’autore non riesce a convivere, sentendosi estraneo ad una realtà per lui incomprensibile. Così lo scrittore si sente costretto a immergersi nuovamente nella pagina scritta grazie alla quale può «coltivare l’illusione di star tenendo tutto sotto controllo»1. Egli si avventura nel vasto mondo che non può padroneggiare, che appare come «un mosaico di linguaggi, come un muro pieno di graffiti, carico di scritte tracciate l’una attorno all’altra»1, per trovare il materiale da inserire nei propri scritti, che nascono come ricerca dell’autore, «per imparare qualcosa che non so. Non mi riferisco adesso all’arte della scrittura, ma al resto: a un qualche sapere o competenza specifica, oppure a quel sapere più generale che chiamiamo “esperienza della vita”»1. Attraverso l’analisi dei testi e delle tematiche più significative, abbiamo voluto sottolineare il come e il perché di questa spaccatura tra i due mondi e abbiamo cercato di capire che cosa, in mezzo all’inferno (quello «che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme»2), non è inferno.
L’esperienza della Resistenza e le aspettative politiche e sociali
E’ il secondo dopoguerra. Nell’Italia dilaniata dal terribile massacro trova spazio un nuovo filone letterario, il neorealismo della “letteratura della guerra”, i cui esponenti hanno vissuto in prima persona le atrocità del conflitto. E’ in questo contesto culturale che compare la figura di Italo Calvino, che già dal 1946 gravitava attorno alla casa editrice Einaudi, scrivendo su l’Unità e su Il Politecnico numerosi racconti riuniti poi in Ultimo viene il corvo. Nel 1947 viene pubblicato il suo primo romanzo, che narra le vicende vissute dall’autore durante la Resistenza, trasfigurate dalla visione di un bambino, Pin, protagonista de Il sentiero dei nidi di ragno. Italo Calvino presenta il tema del conflitto, da lui fortemente sentito, anche ne L’entrata in guerra. Queste opere, pur presentando notevoli differenze, sono accomunate dal fatto che entrambe parlano della guerra così come la potevano vedere coloro che l’hanno vissuta, senza sapere perché la si faceva e combattendo senza riconoscersi nelle ragioni del conflitto. «C’era la guerra, e tutti ne eravamo presi, e ormai sapevo che avrebbe deciso delle nostre vite. Della mia vita; e non sapevo come»3. Così Calvino conclude la prima parte del suo trittico autobiografico, mostrando tutto lo sgomento di un adolescente privato degli anni più belli della propria vita, forzatamente coinvolto in una guerra che non sente propria: «c’era la guerra, la guerra fatta da lui»3, da Mussolini, che non viene presentato come uno spietato dittatore, ma come appariva agli occhi ignari di un giovane: «un ragazzo pareva, sano come un pesce, con quella collottola rapata, la pelle tesa e abbronzata, lo sguardo scintillante di gioia ansiosa»3.
In quel periodo Calvino stava per terminare i suoi studi ma, nel 1943, all’indomani dell’uccisione di un amico per mano fascista, si arruola nella seconda divisione d’assalto partigiana “Garibaldi”. E proprio di Resistenza parla Il sentiero dei nidi di ragno, nel quale, nonostante si sia prossimi alla Liberazione, la guerra appare ancora in tutta la sua assurdità e incomprensibilità, facendo affiorare nell’autore il desiderio di pace, di un giorno in cui, forse, «si arriverà ad essere tutti sereni, e non capiremo più tante cose perché capiremo tutto»4. E’ questo il pensiero di Kim, giovane precocemente maturato, come l’autore, inserito in un mondo che non gli appartiene - quello della guerra - proprio durante la sua adolescenza. Per questo motivo la Resistenza segna una tappa fondamentale nella sua crescita e nella maturazione del suo pensiero. Da questo romanzo traspare l’angoscia provata nel vedere morire i propri compagni, l’ «orrore dell’uccidere», la «violenza che colpisce dentro, a fondo»5. Inoltre, come anche ne L’ Entrata in guerra, è testimoniata «la ricerca dello scrittore nell’ambito del senso della violenza gratuita, della distruzione cieca, della solitudine, della desolazione»5, ma nessuno dei protagonisti riesce a trovarlo. Essi sono spaesati, e hanno paura del mondo (per l’autore il “non scritto”) che non riescono a tenere sotto controllo e a capire. Ciò che spinge i partigiani del distaccamento del Dritto a combattere «è l’offesa della loro vita, il buio della loro strada, il sudicio della loro casa, le parole oscene imparate fin da bambini, la fatica di dover essere sempre cattivi. E basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si ritrova dall’altra parte, come Pelle, dalla brigata nera, a sparare con lo stesso furore, con lo stesso odio, gli uni contro gli altri, fa lo stesso»4. Per i fascisti e gli antifascisti la spinta ad agire è dunque la stessa, seppur con differenti scopi, dato che il conflitto presenta per le due parti «significati ufficiali»4 opposti che non sono sentiti da chi combatte perché costretto. Essi si scontrano coi nemici «senza farsi domande»4, spronati sia dalla costrizione, sia dalla voglia di sfogare un male represso nel profondo delle loro anime.
Questa guerra è quindi vista da Calvino come qualcosa di negativo e che potremmo definire, citando Baricco, come «un inferno: ma bello»6, come ci viene suggerito dalla figura di Achille nell’Iliade e dal fatto che «da sempre gli uomini ci si buttano come falene attratte dalla luce mortale del fuoco»6. L’inferno è infatti, per Calvino, «l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo a quell’inferno non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»2. I personaggi de Il sentiero hanno scelto la via più semplice: non si sono fatti nessun problema, hanno imbracciato il fucile e sono andati sulle montagne a combattere, seguendo i loro obblighi e le loro motivazioni inconsce. L’unico modo per sfuggire davvero a quell’inferno è cercare il poco di bello che ci può essere, come ha fatto Pin, scoprendo «posti fatati»4, gli unici nel mondo in cui «ci fanno il nido i ragni»4. In questo luogo carico di atmosfera, Pin ha nascosto tutto ciò che ha: una pistola marinaia tedesca che, pur essendo un oggetto tremendo, viene trasfigurato dalla visione del bambino e diventa una «pistola magica, è come una bacchetta fatata»4. Nel secondo saggio delle Lezioni americane, Calvino afferma che «il simbolismo di un oggetto può essere più o meno esplicito, ma esiste sempre»7. Ne Il sentiero esso è fortemente marcato sulla figura della pistola. Questo oggetto è bellissimo, perfetto e al contempo pauroso agli occhi di un bambino, che, pur desideroso di guardarla e giocarci, «ha sempre la pistola avvolta nel gomitolo del cinturone e non si decide a toccarla, spera quasi che quando la cercherà non ci sarà più»4. L’arma può essere intesa come metafora del mondo adulto e di «tutte le cose degli uomini: fumo, vino, donne»4, conosciuti troppo presto da Pin, nella cui infanzia non ci sono giochi e amici, ma parole e discorsi osceni e canzoni cantate con voce rauca e stonata, di cui lui da una parte vorrebbe liberarsi, dall’altra è fiero per la sua superiorità rispetto ai suoi coetanei. Nondimeno tutto questo pesa sulla sua vita trascorsa in compagnia dei “grandi” di un’osteria, passata riempiendosi «di fumo gola e naso, fumo ancora aspro e ruvido contro la sua gola di bambino, ma di cui bisogna ingozzarsi fino a farsi lacrimare gli occhi e tossire con rabbia, non si sa bene il perché»4. Pin e Kim, sono entrambi controfigura dell’autore: essi, come ha notato Caludio Milanini8, non si incontrano mai, infatti si fondono nella figura dell’autore, il quale è stato, come Pin, catapultato nel mondo della guerra ancora giovane e ne esce precocemente maturo, come Kim. L’autore, quindi «si fa adulto attraverso le esperienze reali più la loro rielaborazione letteraria»9 confermando quanto detto in un articolo su La Repubblica, cioè che egli scrive sempre per imparare qualcosa, e in questo caso addirittura per crescere.
Calvino, uscito dall’esperienza di questa guerra civile, si ritrova con un cumulo di speranze per l’avvenire sociale e politico in sintonia con le sue idee comuniste. Da giovane egli amava definirsi un anarchico liberale perché l’anarchia «esigeva che la verità della vita si sviluppi in tutta la sua ricchezza al di là delle necrosi imposte dalle istituzioni»10. Tuttavia, combattendo impara ad apprezzare proprio quel senso di disciplina ferrea e il coraggio che il comunismo sa irradiare, peculiarità che caratterizzeranno in seguito anche il PCI e che non si stancherà mai di lodare.
Nel 1945 decide di iscriversi al Partito, maturando l’esigenza di organizzare forme politiche e strutture sociali a difesa dei diritti, della dignità umana e della libertà. L’approfondimento di Marx e del pensiero degli altri grandi intellettuali della sinistra verrà in un momento successivo. Gli aspetti che Calvino prediligerà nelle loro opere saranno il materialismo, in netta opposizione alla perdita d’aderenza con la realtà, il porre al centro dell’attenzione le classi operaie e l’utopia che non deve essere sognata, ma costruita. Le sue speranze non trovano però alcuna realizzazione; anzi, si caricano di delusioni provenienti in primo luogo dalle scelte dell’Unione Sovietica che, se durante la guerra appariva come un probabile «paese sereno»4 - mentre l’Italia era frustrata dalle ostilità –, si rivela in realtà un regime totalitario con tutti i difetti propri del genere. Grande sconforto viene provato da Calvino nel 1947 a causa dell’attacco da parte della Pravda, giornale organo di stampa del Partito Comunista sovietico, a Picasso e dello scontro tra Vittorini e Togliatti, partito da alcune pubblicazioni dello scrittore sulla rivista da lui fondata nel 1945, Il Politecnico. Il letterato aveva scritto in alcuni articoli che la cultura non poteva e non doveva piegarsi alle logiche di partito, come Togliatti pretendeva, per evitare di «perdere ogni senso e ogni valore»11. Calvino prende da subito le parti di Vittoriani, il quale abbandona il PCI a causa della tensione che si era venuta a creare tra lui e i vertici del Partito. Calvino si staccherà solo nel 1956, in seguito all’invasione della Polonia da parte dell’Armata Rossa e alla posizione assunta dai dirigenti comunisti a riguardo, da lui non condivisa. Tuttavia l’allontanamento sarà una scelta sofferta ed egli, pur rimpiangendo gli errori fatti, continuerà a ribadire la sua convinzione circa la necessità del socialismo.
Lo sviluppo economico di quegli anni è un’altra grande delusione: la possibilità di arrivare a un sistema produttivo ed economico che privilegi la classe operaia, con applicazioni vicine al progetto socialista, è compromessa sia dagli accordi presi dal PCI con tutte le forze antifasciste uscite dalla guerra, sia dall’accettazione da parte della politica degli aiuti economici previsti dal piano Marshall, che legano inevitabilmente l’Italia agli Stati Uniti improntando il nostro stato al capitalismo occidentale. Tutto ciò fa sì che i comunisti stessi non possono più proporsi la realizzazione di un programma concreto di nazionalizzazione dell’economia o almeno dell’industria, né la gestione operaia dei centri di potere. Questa situazione determina quindi quella «tattica d’azione prettamente difensiva, che lasciava (…) l’iniziativa alle forze della borghesia»12. La possibilità di una nazionalizzazione, prima di questi compromessi, non era stata soltanto un sogno astratto ed utopico dei socialisti, ma si era rivelata una strada facilmente percorribile, considerando la richiesta esplicita di alcuni sindacati, tra cui la CGIL, la quale, osservando il comportamento di alcune industrie, non coordinato agli interessi generali, auspicava «una azione disciplinatrice dello Stato»13.
La frustrazione di non poter vedere realizzate le proprie aspettative, è manifestata in tutta la sua amarezza ne La giornata di uno scrutatore, pubblicato nel 1963. Quando scrive questa opera, che costituisce il suo vero testamento politico, Calvino è ormai pienamente consapevole di tutti i difetti che attanagliano la politica. Narrando la giornata dello scrutatore torinese Amerigo, percorre un’ analisi soggettiva della situazione italiana, esternando senza mezzi termini le proprie delusioni. Il protagonista, grazie all’esperienza dello scrutinio nel Cottolengo comprende cosa significhino realmente parole come compassione e solidarietà, che prima non aveva mai apprezzato perché accecato dall’ideologia e da un materialismo privo di sentimenti. Osservando, ad esempio, le cure amorevoli delle suore nei confronti dei ricoverati e l’intenso rapporto instaurato tra un vecchio contadino e il figlio gravemente malato, Amerigo capisce che «l’umano arriva dove arriva l’amore, non ha confini se non quelli che gli diamo»14.
Calvino si soffermerà anche in altri racconti sul tema della diversità, come ne I dinosauri de Le Cosmicomiche, da cui emerge tutto il disagio dell’umanità nei confronti di coloro che sono visti come pericolosi senza che si conosca la loro reale identità. In questo modo gli umani sono spaventati – come Amerigo di fronte agli handicappati - e allo stesso tempo affascinati dai dinosauri, che tra l’altro non hanno mai avuto l’onore di conoscere. Tutte le loro certezze variano col passare del tempo senza che la verità sulla natura di quelle misteriose creature venga mai svelata. Calvino conclude affermando che, mentre noi discutiamo sulla fine di questa razza, il gene dei dinosauri è parte integrante di noi stessi: «Ero un dinosauro. Mi guardai intorno: il villaggio che m’aveva visto arrivare straniero, ora ben potevo dirlo mio. Per questo con un silenzioso cenno di saluto lasciai il villaggio, me ne andai per sempre. Percorsi valli e pianure. Raggiunsi una stazione, presi il treno, mi confusi con la folla»15. Il Cottolengo viene visto come un piccolo nucleo urbano i cui inquilini sono solo apparentemente diversi e hanno la stessa dignità di ogni altro uomo. Essi non sono nient’altro che gli abitanti di una città che risulta addirittura migliore rispetto a tutte le altre. Queste ultime infatti sono accecate dai quotidiani ritmi di vita imposti da una società austera, all’interno della quale riesce a sopravvivere soltanto una persona materialista, il cui unico scopo è la produzione: il cosiddetto homo faber che «rischia sempre di scambiare le istituzioni per il fuoco segreto senza il quale le città non si fondano e nel difendere le istituzioni, senza accorgersene, può lasciar spegnere il fuoco»14.
In tutta la sua produzione, poche volte l’autore ha deciso di esprimersi in maniera così chiara e diretta, segno che La giornata di uno scrutatore è un’opera, se non anomala, perlomeno diversa e merita particolare attenzione. Costituisce, infatti, l’apice del pensiero politico di Calvino che, dopo aver vissuto le vicende del dopoguerra con la viva speranza di un futuro finalmente nuovo e migliore è costretto a piegarsi all’evidenza dei fatti. Nelle pagine di questo breve romanzo, si trova impressa l’istantanea della frattura fra il mondo scritto, in cui compare tutto ciò che egli ha immaginato e sognato, e il mondo non scritto, dell’ingiustizia e del caos. Calvino comprende definitivamente che «non sapeva cosa avrebbe voluto. Capiva solo quant’era distante, lui come tutti, dal vivere come va vissuto quello che cercava di vivere»14. Il racconto rappresenta anche un punto cruciale di svolta nel pensiero di Calvino che in tutte le opere successive preferirà gettarsi a capofitto nell’immenso mare dell’immaginazione emergendo di tanto in tanto per scuotere il capo e sorridere di una società che ha preferito la moderazione all’utopia.
In questo periodo inizia a scrivere seguendo regole non scritte, parlando a Tizio perché Caio intenda. Numerose sono infatti le sue uscite contro i post-fascisti, gli USA, i democristiani che si riveleranno però scritte con l’inchiostro simpatico, come critica alla politica dell’URSS, ai commissari culturali, ai vertici del Partito. Per Calvino, dunque, come per molti altri, farsi un’esperienza politica ha significato diventare un poco pessimista, deluso da tutti quei compagni che, per dirla con Giorgio Gaber, «la rivoluzione? Oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente!»16.
La ricerca filosofica
Ne Il visconte dimezzato, uscito nel 1952, Calvino ci vuole offrire l’immagine di un uomo tagliato in due metà: una opposta all’altra, rispettivamente buona e cattiva, che è immagine dell’uomo contemporaneo e della sua «incompletezza, e di mancata realizzazione della pienezza umana»17. Calvino sceglie la contrapposizione tra bene e male «perché ciò mi permetteva una maggiore evidenza di immagini contrapposte, e si legava a una tradizione letteraria già classica, cosicché potevo giocarci senza preoccupazioni»17. Il tema della compresenza nell’uomo del bene e del male, infatti, appare già in Dr. Jekyll and Mr. Hyde o in Master of Ballantrae di Stevenson, a cui lui si ispira nel comporre il suo testo. In tutti questi romanzi, risulta evidente la concezione del male come qualcosa di radicato nelle persone.
La teoria del male radicale (Das radikal Bose) è stata elaborata da Immanuel Kant nell’opera La religione nei limiti della semplice ragione, del 1793, che suscitò stupore e indignazione nei contemporanei. Noi ci siamo affidati all’interpretazione di Semprun, il quale sostiene che «il male è radicale perché, da un lato, mostra impotenza umana a trasformare le sue massime in leggi universali, e perché, dall’altro, si radica nell’essere stesso dell’uomo, nell’essere-uomo, indipendentemente da ogni determinazione storica e sociale»18. Così è presente anche nel nobile Medardo, che dopo lo scontro con i Turchi, torna a Terralba, sua terra d’origine, soltanto con la sua metà “grama” e comincia a compiere le azioni più crudeli, condannando a morte alcuni sudditi innocenti. Tuttavia l’arrivo della parte buona del visconte, non migliora affatto la situazione, e i cittadini detestano tanto l’uno quanto l’altro. Infatti, come afferma l’autore in un’intervista, «il personaggio positivo può essere solo l’uomo intero, né una metà né l’altra»19 ed egli amava identificarsi negli aspetti cattivi dei buoni. Ma «se il male ha il suo fondamento nel fondo costitutivo della libertà umana, lo ha anche il bene»18, infatti le due caratteristiche contrapposte e complementari, sono presenti nell’anima di tutti gli uomini e soltanto la loro coesistenza può portare l’uomo ad essere positivo, completo.
Se il visconte è immagine dell’uomo incompleto, è nel Barone rampante che l’individuo si «identifica con colui che realizza una sua pienezza sottomettendosi ad un’ardua e riduttiva disciplina volontaria»20, imponendosi la regola di vivere appollaiato su un albero e seguendola fino a quando scompare nel mare senza nemmeno aver salutato i suoi compagni più stretti . Mentre ne Il visconte dimezzato lo scrittore ci ha offerto «un racconto fuori dal tempo, appena accennato, dai personaggi filiformi ed emblematici»20, nel Barone rampante ci propone un repertorio di immagini settecentesche, ricco di correlazioni con avvenimenti e illustri personaggi. Anche il paesaggio e la natura, sebbene siano immaginari, vengono descritti con una minuziosa precisione, creando una vicenda che è in grado di ricreare, di giustificare e di rendere verosimili anche situazioni poco reali, come il vivere sugli alberi. Sia il protagonista, il barone Cosimo di Rondò, che gli altri personaggi, hanno una caratteristica comune: sono dei solitari, dei «tipi strambi»20 che l’autore inserisce nel Settecento, famoso non solo per l’Illuminismo, ma anche per l’eccentricità degli uomini. Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, nei quali l’Italia sta per conoscere il grande boom economico degli anni ’60 e ’70, lo scrittore sostiene di non vivere nel secolo dei grandi enciclopedisti Diderot e d’Alembert da lui considerato un mondo di eccentrici, ma in un mondo di persone la cui individualità non è concessa, essendo ridotte a seguire comportamenti prestabiliti. Il vero problema, dunque, «non è più nella perdita d’una parte di noi stessi, ma nella perdita totale, del non esserci per nulla»20.
Nella società industriale «siamo lentamente arrivati all’uomo artificiale che, essendo tutt’uno con i prodotti e con le situazioni, è inesistente perché non fa più attrito con nulla, non ha più rapporto con ciò che gli sta intorno, ma solo astrattamente “funziona”»20. Spinto da queste considerazioni sulla società contemporanea, Calvino crea Agiulfo, un’armatura di ferro nella quale non c’è nulla, protagonista de Il cavaliere inesistente, del 1959. Oltre a questo guerriero trova spazio nella vicenda Gurdulù, suo giovane scudiero, che, differentemente dal primo privo di individualità fisica, costui è privo di coscienza. Di estrema importanza nella vicenda è anche il giovane Rambaldo, considerato da Calvino «la morale della pratica, dell’esperienza, della storia»20. Nella nota di Calvino del 1960 ai Nostri antenati Torrismondo, giovane ragazzo, diventa «la morale dell’assoluto, per cui la verifica dell’esserci deve derivare da qualcos’altro che se stesso, da quel che c’è prima di lui»20. Per il giovane quello che esiste veramente è la donna e nel romanzo se ne possono trovare ben due: la prima è Bradamante che simboleggia l’amore inteso come contrasto, come guerra e si sposa perfettamente con il cuore di Rambaldo; la seconda, Sofronia, si adatta perfettamente a Torrismondo, poiché da lei si emana un amore che trasmette pace e nostalgia del mondo prenatale. Bradamante cerca un uomo diverso da sé, un non-essere, ovvero Agiulfo.
Il lettore, padrone di interpretare liberamente queste tre storie, deve tenere ben presente che l’autore ha voluto fare «una trilogia d’esperienze sul come realizzarsi per esseri umani: ne Il cavaliere inesistente la conquista dell’essere, ne Il visconte dimezzato l’aspirazione ad una completezza al di là dalle mutilazioni imposte dalla società, ne Il barone rampante una via verso la completezza non individualistica da raggiungere attraverso la fedeltà ad un’autodeterminazione individuale: tre gradi d’approccio alla libertà»20. La trilogia quindi presenta caratteristiche proprie del romanzo e della fiaba, improntate ad una ricerca filosofica. Nonostante questo, mantiene un linguaggio accessibile e una vena umoristica notevole. Questi scritti escono nel periodo in cui la guerra fredda è all’apice del suo sviluppo e Calvino sostiene che «scrivendo una storia completamente fantastica, si trova senz’accorgersi a esprimere non solo la sofferenza di quel particolare momento, ma anche la spinta ad uscirne; infatti mi piace mettere nelle mie storie una carica d’energia, d’azione, d’ottimismo, di cui la realtà contemporanea non mi dà ispirazione»20.
Un segno nello spazio
Il non-inferno nelle opere di Calvino si trova sempre tra le cose più semplici: Pin lo ha trovato nel sentiero dove i ragni fanno il loro nido; i giovani de
L’entrata in guerra, pur essendone coinvolti, riescono a trovare dei momenti per la loro amicizia e per dar sfogo alla loro giovinezza, facendo scherzi agli altri e ridendo fra loro.
In questo senso è però forse La formica argentina il testo più rilevante, nonostante la sua brevità.
Questo racconto si avvicina allo stile di Kafka che, secondo Calvino, è riuscito a «parlare dell’intricato groviglio della nostra situazione usando un linguaggio che sembri tanto trasparente da creare un senso di allucinazione»1. In questo testo Calvino raggiunge lo stesso risultato. Il racconto, quasi disgustoso in certi punti e sempre molto strano, tanto che a fatica si riesce ad immaginare la scena, muta completamente nel finale, diverso dal resto del racconto per atmosfera, spazio e contenuti; di una semplicità disarmante, che lascia il lettore a chiedersi come sia potuto finire così, e a trovare un significato a tutto il racconto che dopo essere scorso velocemente nell’arco di una giornata, viene prima rallentato da una descrizione del nuovo spazio e poi improvvisamente interrotto. Qui il protagonista trova il suo non-inferno semplicemente allontanandosi dalla situazione di disagio causata dall’invasione delle formiche: «Mia moglie disse: - Qui non c’è formiche -. Io dissi: - E c’è un bel fresco: si sta bene»21; e fermandosi, dopo una giornata travagliata, ad osservare i movimenti del mare: «Io pensavo alle distanze d’acqua così, agli infiniti granelli di sabbia sottile giù nel fondo, dove la corrente posa gusci bianchi di conchiglie puliti dalle onde»21.
E da qui forse si può tornare al paragone con Kafka, in particolare con La metamorfosi, sul piano del significato. Infatti da entrambi i racconti si deduce la fragilità dell’esistenza umana di fronte al destino. L’uomo non può decidere per il suo futuro perché si troverà sempre di fronte ad imprevedibili ostacoli che gli impediranno di arrivare dove desidera. I racconti sono pervasi da un’atmosfera di silente inquietudine, da scene disgustose, e narrano un breve periodo di tempo in cui i personaggi pur restando statici alternano momenti di tranquillità a momenti agitati, mossi e forti. Ma, mentre il racconto di Kafka termina con la morte dell’uomo tramutato in insetto, e quindi trasmette un’immagine di rassegnazione di fronte a ciò che accade, senza il tentativo di reagire e cambiare la situazione, dato che sarebbe vano, in quello di Calvino la rassegnazione assume una sfumatura differente: la famiglia si distrae e si rilassa trovando un luogo non infestato dalle formiche e ne trae godimento, a prova che se ne può trarre in ogni momento della vita, a condizione di sapere trovare quel che c’è di buono anche quando tutto sembra andare male e di fronte a ciò a cui si è obbligati a rassegnarsi. Basta poco, per trovare ciò che «non è inferno, (…) e dargli spazio»2. Questa è la lezione che Calvino apprende dal mondo scritto e che appare ai lettori delle sue opere: il mondo non scritto è troppo complesso e assurdo per cercare di comprenderlo; è caotico, indeterminato, ricco di delusioni, ma nonostante tutto è destinato a prevalere sull’altro e a farlo diventare un piccolo segno lasciato dallo scrittore nell’immensità dell’Universo, come lo ha lasciato il suo fantastico personaggio Qfwfq per distinguersi nell’infinito. Tutto ciò che, nel vasto mondo, può renderci veramente felici è accontentarsi delle piccole cose quotidiane, sapersi godere ogni istante di quiete come se fosse l’ultimo.
1 Italo Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, Mondadori, Milano, 2002, p. 115; p. 122; p. 145.
2 Italo Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano, 1993, p. 164.
3 Italo Calvino, L’entrata in guerra, in Romanzi e Racconti, Mondadori, Milano, 2005, p. 524; p. 498.
4 Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, in Romanzi e Racconti, Mondadori, Milano, 2005, p. 108; p. 106; p. 107; p. 105; p. 108; p. 144; p. 18; p. 7; p. 108.
5 Giorgio Barberi Squarotti, La narrativa italiana del dopoguerra, Cappelli, Rocca San Casciano, 1965, p. 157; p. 160.
6 Alessandro Baricco, Postille sulla guerra in Omero, Iliade, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 162.
7 Italo Calvino, Lezioni americane, in Saggi, Vol. 1, Milano, Mondadori, 1995, p. 658.
8 cfr. Claudio Milanini, L’uotpia discontinua: saggio su Italo Calvino, Garzanti, Milano, 1990.
9 Domenico Scarpa, Italo Calvino, Mondadori, Milano, 1999, p. 223.
10 Italo Calvino in Domenico Scarpa, Italo Calvino, Mondadori, Milano, 1999, p. 207; p. 209.
11 tratto da una lettera di Elio Vittorini del 1950.
12 Enrico Caperdoni, Lo sviluppo italiano del dopoguerra, Marsilio, Padova, 1968, p. 11; p. 12.
13 I Congressi della CGIL in Enrico Caperdoni, Lo sviluppo italiano del dopoguerra, Marsilio, Padova, 1968, p. 20.
14 Italo Calvino, La giornata di uno scrutatore, Einaudi, Torino, 1963, p. 83; p. 95; p. 43.
15 Italo Calvino, Le Cosmicomiche, Torino, Einaudi, 1965, p. 84.
16 Giorgio Gaber, La mia generazione ha perso, Warner Music Manufacturing Europe, Germany, 2001, CD 1, traccia 12.
17 Italo Calvino in AA. VV., Note e notizie sui testi in Romanzi e Racconti, Mondadori, Milano, 2005, p. 1308.
18 Jorge Semprun, Male e modernità, Passigli, Firenze, 2002, p. 26; p. 67.
19 Italo Calvino a Buonasera con ...Calvino, di L. Bolzoni, N. Orengo, D. Ziliotto, del 5 giugno 1979.
20 Italo Calvino, Postfazione ai Nostri antenati (Nota 1960) in Romanzi e Racconti, Mondadori, Milano, 2005, p. 1214; p. 1215; p. 1216; p. 1217; p. 1219.
21 Italo Calvino, La formica argentina, in Romanzi e Racconti, Mondadori, Milano, 2005, p. 482.