lunedì 30 giugno 2014

Verità e ermeneutica

Tesina per l'esame di Ermeneutica filosofica.



Introduzione

Accingendosi a trattare il tema della verità, occorre chiarire preliminarmente se essa assuma, in filosofia, un significato peculiare, distinto da quello di uso comune; o se, invece, il compito della filosofia sia semplicemente quello di chiarificare, fornendone le condizioni di validità, un termine da tutti impiegato. Questo presuppone, tuttavia, una specifica definizione della filosofia, dei suoi scopi e del suo ambito di ricerca, la qual cosa, sebbene raramente discussa in modo esplicito, è piuttosto controversa. La chiarificazione che si impone, dunque, corrisponde a una dichiarazione di partigianeria, a una confessione della parzialità del punto di partenza, ma sulla base di una profonda convinzione, che si spera possa servire a rendere persuasivo il discorso che verrà condotto.
Le domande che originano il filosofare provengono da quell’ente che Heidegger ha chiamato Esserci (Dasein), ossia dall’uomo in quanto essere-nel-mondo. L’occasione del loro emergere è la problematicità dell’esperienza, ossia lo sgomento meravigliato (thauma), l’angoscia, l’errore: in una parola, la coscienza della finitudine. La filosofia va quindi intesa come ricerca del senso dell’essere a partire da quell’ente che pone la domanda sull’essere. Di conseguenza, essa è essenzialmente umanesimo (non necessariamente antropocentrico).
Quest’affermazione può suonare strana in seguito a una proposta di definizione di palese stampo heideggeriano. Tuttavia, non va dimenticato che Heidegger rifiuta l’umanesimo in quanto «esso non pone l’humanitas dell’uomo a un livello abbastanza elevato»[1]; il suo obiettivo è quindi di pensare in modo più radicale e originario proprio l’essenza dell’uomo. È infatti, per Heidegger, il carattere dell’«e-sistenza» dell’Esserci a imporre che si indaghi anzitutto la «verità dell’essere», ma il fine dell’indagine resta l’essenza dell’uomo: «soltanto l'essenza della verità ci consente di capire l'essenza dell'uomo»[2]. Vi è, infatti, una relazione dialettica fra essere ed Esserci, tale per cui l’uno non si dà senza l’altro: l’errore di tutta la metafisica oggettivistica, in cui rientra, secondo Heidegger, anche l’umanismo, consiste nell’insistere univocamente su uno dei due termini o - nel caso di Hegel - nel tentativo di conciliarli in una sintesi superiore.
L’essenza dell’umano va però pensata all’interno di un’inestricabile dimensione intersoggettiva, ossia di quel con-essere (Mitsein) al quale Heidegger non ha dedicato sufficiente attenzione. Se la verità riguarda l’esistenza umana, infatti, essa dovrà assumere una rilevanza politica e comunitaria, poiché al senso dell’essere non può attingere pienamente la singola individualità. La verità, dunque, dovrà essere in qualche modo il frutto di un’interazione fra parlanti e avrà un significato primariamente pratico, sebbene il suo accadere sia ontologicamente antecedente alla distinzione tra teoria e prassi.
Soltanto se si attribuisce una validità a questo genere di ricerca si può intendere la filosofia come disciplina autonoma, dotata di un proprio oggetto. Se si dispera di giungere a una meta ponendosi su questo sentiero, allora la filosofia dovrà farsi ancilla di altre discipline, mezzo per altri scopi, e sarà dunque intesa soltanto come metodo di chiarificazione logica e terminologica, di delimitazione epistemologica dell’ambito delle scienze, eccetera. In altre parole, si farà pensiero tecnico e non veritativo, pragmatico e non paradigmatico.
Qui si seguirà proprio quel sentiero cui si è accennato, e si terrà perciò ben distinto il significato della verità filosofica da quella qualità di proposizioni, opinioni e atteggiamenti proposizionali che viene usualmente indicata con questo termine, cui proponiamo di sostituire attributi come veridicità, certezza, sincerità. Non si intende qui negare validità a questi significati possibili della verità, che sono anzi fondamentali nelle scienze e ai quali è giusto che anche la filosofia dedichi la sua attenzione; si tratta, però, di derivati[3], in quanto – come direbbe Heidegger – solo una preliminare apertura dell’essere nella Lichtung concede a essi di emergere. Inoltre, proprio perché è l’Esserci a essere nell’apertura, la validità stessa delle scienze dev’essere ricondotta all’origine di ogni sapere, ossia al domandare dell’uomo e alla verità filosoficamente intesa.
Comincerò a percorrere il sentiero con una breve chiarificazione di questo punto, per poi saggiare il contributo dei maggiori esponenti dell’ermeneutica filosofica, alla ricerca di un’idea della verità che sia comprensiva di tutte le dimensioni dell’umano.

  

1. Verità e discorso quotidiano

Uno dei più importanti studiosi e filosofi italiani, Enrico Berti, ha scritto in un suo articolo che «la nozione di verità […] è per così dire “essoterica”, cioè non specifica di una disciplina, non tecnica, non appartenente a una terminologia speciale, ma di uso comune, popolare, pur essendo tuttavia precisa, ben definita». Essa sarebbe «una qualità che un discorso, un’opinione, un pensiero, può avere o non avere, a chiunque esso appartenga»[4].
Secondo questa concezione, la verità appartiene al «senso comune», ossia chiunque è in grado di comprendere il significato del termine e – almeno potenzialmente – di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. Si tratterebbe semplicemente di confrontare gli enunciati con gli stati di cose cui essi si riferiscono, per saggiarne – come si dice in filosofia del linguaggio – il valore di verità.
Se è così, quale può essere il compito proprio della filosofia? Una delle definizioni possibili di tale disciplina è infatti «ricerca della verità», ma se questa si dà soltanto come conformità di enunciati a stati di cose, come si potrà distinguere l’indagine filosofica dall’accertamento scientifico, giornalistico o di qualunque altro tipo? Si potrà supporre che la filosofia sia deputata alla ricerca delle verità «ultime», concernenti i problemi fondamentali della vita dell’uomo, nell’ambito dell’etica, della politica, dell’ontologia. Tuttavia, quali stati di cose potranno essere indicati come «corrispondenti», ad esempio, a una proposizione ontologica?
Il realismo metafisico, che è alla base della concezione classica della verità come corrispondenza, si basava sulla convinzione – filosofica e non di senso comune – che la natura delle cose fosse determinata da essenze immutabili, la cui conoscenza era appunto lo scopo della ricerca filosofica. Soltanto su questa base si può ritenere che anche le affermazioni etiche e ontologiche abbiano un «referente» nella realtà, anche se in una realtà che non è immediatamente manifesta agli occhi, e che perciò appartiene propriamente al campo della «meta-fisica», la quale proprio per questa sua fondamentale importanza era detta «filosofia prima».
La convinzione che esistano essenze immutabili è oggi insostenibile e questo non può non avere delle conseguenze su una teoria corrispondentista della verità. Secondo Berti ciò non fa problema, perché la teoria corrispondentista non abbisogna di realtà necessariamente immutabili cui fare riferimento. «La verità contingente non muta come verità, ma si riferisce a uno stato di cose che muta»[5], nel senso – se intendo correttamente ciò che Berti vuol dire – che esso si dà a un grado diverso di disvelatezza. Il problema, però, è che il carattere che faceva delle essenze il referente di affermazioni propriamente filosofiche non era tanto la loro presunta immutabilità, quanto il loro costituire la totalità dell’essere e, soprattutto, il loro carattere normativo.
Aristotele definisce le essenze come le specie ultime dei generi[6], ciò mediante cui si definisce una sostanza prima[7] e che, a differenza delle idee platoniche, non esiste separatamente da queste[8]. Se si escludono gli esseri non viventi, si può dire che l’essenza corrisponde alle facoltà dell’anima: per Aristotele infatti tutti gli individui sono dotati di un’anima, che è causa delle caratteristiche proprie dei generi o delle specie ai quali essi possono essere ricondotti. Così, la facoltà nutritiva appartiene all’intero genere dei viventi ed è propria della specie delle piante; la facoltà sensitiva è comune al genere animale e propria della specie di animali non intelligenti; la facoltà intellettiva è invece comune al genere umano e propria soltanto di esso.
L’essenza è quindi definibile a partire dalle capacità che l’individuo possiede grazie alle facoltà dell’anima. Ora, per Aristotele, il fine dei viventi è l’esercizio perfetto della parte dell’anima che li caratterizza specificamente. Di conseguenza, il fine dei viventi sarà la realizzazione di ciò che esprime la loro essenza peculiare.
Questa considerazione è di fondamentale importanza, perché permette di comprendere come la metafisica delle essenze abbia rilevanza per l’etica. Nell’Etica Eudemia rinveniamo l’espressione: «τέλος εκάτου τò έργον»[9], che Marcello Zanatta traduce come «fine di ciascuna cosa è l’opera»[10]. Il medesimo traduttore precisa che érgon è un termine che Aristotele mutua da Platone per denotare l’opera per il compimento della quale la cosa è fatta. «[L’érgon] dunque – essendo il suo fine – ne definisce anche l’essenza»[11].
Questo esempio aristotelico, che vale a mostrare una concezione valida almeno fino alle soglie dell’età moderna (quando con Cartesio si distinguerà il piano del soggetto da quello dell’oggetto, dando origine alla teoria della verità come rispecchiamento), mostra come la teoria corrispondentista fosse efficace nel fondare la verità delle proposizioni filosofiche, cioè, anzitutto e in senso lato, ontologiche ed etiche.
La verità è solo derivatamente una proprietà dell’enunciato, la quale si fonda sul disvelamento dell’essere. La teoria corrispondentista aristotelica, come precisa lo stesso Berti, non implica tanto un «rispecchiamento» nella proposizione dello stato di cose, quanto piuttosto una «corrispondenza» fra l’intelletto e la cosa; l’autentica conoscenza si dà quando l’intelletto in qualche modo si adegua all’ente che si mostra (si disvela) nel suo essere. La verità è, quindi, innanzitutto una proprietà ontologica degli enti[12], sicché ciò che è massimamente vero, per Aristotele, è ciò che è ontologicamente primo, vale a dire le sostanze incorporee (Dio e i motori dell’universo) e le essenze.
Se oggi, non essendoci più concesso credere all’esistenza di essenze dotate di un valore normativo, continuiamo a farci fautori di una teoria corrispondentista della verità, dobbiamo ridurre il significato di questo termine a ciò che oggi ci risulta «essere», ossia gli enti semplicemente-presenti. Ma così il discorso propriamente filosofico appare svuotato di ogni significato, sicché a esso può essere sostituita l’analisi del linguaggio comune o di quello scientifico, con la conseguenza che l’ontologia si riduce a un catalogo dell’esistente («il mondo è la totalità dei fatti»[13]), la metafisica è completamente screditata e dell’etica risulta che «non può formularsi»[14], se non in forma emotivista o pragmatista, cioè basata su interessi personali in qualche modo constatabili e riconducibili ai «fatti».
Non credo sia la storia della metafisica, come sostiene Heidegger, ad aver determinato fin dalle sue origini l’oblio dell’essere e della differenza ontologica. È piuttosto stato il mantenimento di una dottrina della verità che, venendo a mancare l’impianto ontologico della metafisica tradizionale, si è ridotta a strumento di conoscenza dell’esistente, in vista di una sua possibile manipolazione da parte della scienza e della tecnica. Il nichilismo, perciò, non può nemmeno essere inteso come un destino dell’essere, alla maniera di Vattimo, ma come il frutto di un errore prospettico, di un’impostazione di pensiero – certamente dettata da un interesse troppo umano – tale da precludersi la possibilità di una comprensione dell’essere al di là dell’ente.
Se la filosofia ha da mantenere la propria rilevanza, dunque, essa deve abbandonare questa concezione della verità in vista di una comprensione dell’essere adatta al superamento della metafisica oggettivistica. Il sorgere, con Heidegger, dell’ermeneutica filosofica corrisponde all’apertura di un percorso di ricerca capace di andare in questa direzione.



2. Esistenza autentica e verità

La verità è intesa da Heidegger, sulla base del termine greco alétheia, come svelatezza dell’ente. Questa definizione in negativo rimanda dialetticamente al suo opposto, ossia alla velatezza, che appartiene indissociabilmente all’essenza della verità, la quale – come dice metaforicamente Eraclito – «ama nascondersi»[15]. In Essere e tempo si sostiene, più precisamente, che «primariamente “vero”» non è ciò che è disvelato, bensì il disvelante, l’ente «scoprente», ossia «l’Esserci»[16]. Soltanto perché esiste l’Esserci si dà (gibt es) «l’esser-scoperto dell’ente intramondano». La verità e l’Esserci sono «cooriginari», poiché l’Esserci non può esistere senza verità, e la verità non può darsi se non all’Esserci. Quest’ultimo, nel momento stesso in cui esiste, si situa nella verità, intesa come apertura che rende possibile la conoscenza dell’essere dell’ente.
Heidegger esprime in più luoghi questo arduo concetto mediante la metafora della «radura» (Lichtung, o più estesamente Waldlichtung)[17]. Come la radura di un bosco è un luogo privo di alberi, in cui può penetrare la luce e le cose darsi alla vista, così la verità è un’«apertura», nella quale lo sguardo dell’Esserci può cogliere l’essere (equivalente della luce) dell’ente.
Così intesa, la verità non è un oggetto della conoscenza, che possa essere formulato dal linguaggio o sperimentato in un’estasi mistica, bensì il luogo in cui l’Esserci si situa: ha dunque a che fare con le possibilità più proprie dell’esistenza e, quindi, con la libertà. Perciò esistono diversi «modi della verità»[18], che, sebbene non esplicitati in Essere e tempo, corrispondono ai diversi stadi descritti ne L’essenza della verità durante l’analisi, lì condotta, del mito della caverna di Platone.
Come nota Heidegger, infatti, Platone afferma che anche i prigionieri incatenati, che non vedono altro che ombre proiettate su un muro, scambiandole per la vera realtà delle cose, posseggono «tò alethés»[19]; anche le ombre appartengono alla dimensione della svelatezza, cioè della verità. Inoltre, nel descrivere il secondo stadio, quando ai prigionieri viene mostrato ciò che genera le ombre, si dice che questi enti sono «più svelati» e «più essenti»[20] e, infine, quando Platone giunge a parlare delle idee, afferma che esse sono ciò che è «massimamente svelato» (alethinòn, lett. “fatto di svelatezza”) e «massimamente ente» (tò òntos òn, lett. “ciò che è ente essentemente”)[21].
Analogamente, per Heidegger è proprio dell’Esserci lo stare nell’apertura, ma l’ente può mostrarsi «nel modo della parvenza»: il non-disvelato è una modalità della disvelatezza, che corrisponde a un presentarsi nascondendosi, a un velare per mezzo di un mostrare, come quando si mostra un lato per nasconderne un altro o quando si nasconde un nulla dando a vedere qualcosa[22]. È questo l’equivalente della conoscenza umbratile in Platone, che si concretizza, nella vita dell’Esserci, nel modo dell’«inautenticità»[23], in cui dominano «chiacchiera, curiosità ed equivoco»[24]. Allora, scrive Heidegger, «lo scoperto e l’aperto cadono nei modi della contraffazione e della chiusura»[25].
Soltanto quando l’Esserci «si apre a se stesso», ossia disvela a sé la sua propria destinazione (Bestimmung)[26], «scopre» l’ente nel suo essere più proprio. L’esistenza autentica è quindi il luogo in cui la verità dell’essere si disvela. Non si tratta, però, di una verità univocamente descrivibile, che possa servire da fondamento per una precettistica volta a stabilire in che cosa consista un’esistenza «autentica» in senso morale. L’esperienza della verità non può essere, per Heidegger, il fondamento di un’etica. Pensare la verità dell’essere significa, infatti, porsi «prima» della distinzione fra teoria e prassi[27], poiché la verità riguarda ogni aspetto dell’esistenza umana, sia teoretico sia pratico. Qual è, allora, il rapporto tra l’Esserci e la verità?
L’Esserci si rapporta alla verità mediante l’«interpretazione» (Auslegung), definita da Heidegger come «elaborazione [o “sviluppo”] delle possibilità progettate nella comprensione»[28]. La verità è l’apertura che rende possibile l’interpretazione, ed è quest’ultima, propriamente, che disvela l’essere dell’ente. L’interpretazione presuppone la comprensione da parte dell’Esserci, che, a partire dalla propria gettatezza (Geworfenheit), «progetta» (entwerft), cioè «getta avanti a se stesso» le possibilità che egli stesso è[29]. L’interpretazione è l’elaborazione concettuale di questa comprensione, ossia l’assunzione consapevole di una delle possibilità aperte. «Il suo compito primo, durevole e ultimo, è quello di non lasciarsi mai imporre pre-disponibilità, pre-veggenza e pre-cognizione dal caso o dalle opinioni comuni, ma di farle emergere dalle cose stesse»[30]. In altre parole, l’interpretazione deve staccarsi dall’anonimia e dall’«intrasparenza»[31] del Si – ossia della chiacchiera, dell’equivoco e della curiosità – per articolare il rapporto tra Esserci ed essere nello spazio aperto dalla verità.
La conoscenza vera, disvelante, dell’essere dell’ente non è volta a scoprire le qualità essenziali e immutabili di quest’ultimo, come vorrebbe la metafisica; si tratta piuttosto di un’interpretazione del senso dell’essere a partire dall’ente progettante. Perciò può configurarsi come rapporto autentico tanto l’atteggiamento teoretico, quanto quello pragmatico, così come quello pratico.
Il primo è caratterizzato da un’astrazione dell’oggetto dalla rete di rimandi che costituisce la «significatività» del mondo[32], di modo che esso possa essere considerato nella sua «semplice-presenza» (Vorhandenheit)[33]; così, l’oggetto diviene disponibile per la conoscenza scientifica, che si esprime in enunciati la cui veridicità può essere espressa nei termini di una corrispondenza tra la proposizione e lo stato di cose da essa descritto.
L’atteggiamento pragmatico, invece, si rapporta all’«utilizzabilità» (Zuhandenheit) degli enti, i quali sono legati tra loro da una serie inestricabile di rimandi. Ogni utilizzabile, infatti rimanda al suo «appagamento», il quale a sua volta rimanda a un altro, e ogni totalità di appagatività si rapporta all’Esserci come all’«in-vista-di-cui» ogni utilizzabile è tale. L’esempio fatto da Heidegger è quello dell’utilizzabile chiamato «martello», la cui appagatività è il martellare; a sua volta, il martellare trova il suo appagamento nel costruire, la cui appagatività è il riparo. La totalità dell’appagatività di un mezzo (ad esempio, del martello in un’impresa edile) rimanda, infine, a una possibilità d’essere dell’Esserci, in vista della quale ogni cosa è fatta[34].
L’atteggiamento pratico determina il rapporto intersoggettivo tra più Esserci e ha la forma dell’«aver cura» (Fürsorge). L’aver cura autentico è un rapporto fra persone (considerate kantianamente come fini in sé e non come mezzi) tale per cui ciascuno è aiutato dall’altro a «divenire trasparente nella propria cura [Sorge] e libero per essa»[35], ossia a riconoscere e assumere le possibilità proprie, la cui concretizzazione non dev’essere impedita. Il legame autentico ha un carattere in senso lato politico, in quanto solo «l’impegnarsi in comune per la medesima causa» assicura che il legame non sia di tipo strumentale e che fra i diversi individui non vi sia «diffidenza» o «indifferenza»[36].
L’inautenticità dell’esistenza dell’Esserci è invece il luogo della distorsione, della falsità, della velatezza. Per quanto riguarda la conoscenza teoretica, se essa non attinge alla verità dell’essere, resta dispersa nella «pubblicità» del «Si». Questa, infatti, «regola innanzi tutto ogni interpretazione del mondo e dell’Esserci, e ha sempre ragione. E ciò, non sul fondamento di un rapporto eminente e primario all’essere delle “cose”, non perché essa disponga di un’esplicita e appropriata trasparenza dell’Esserci, ma per effetto del non approfondimento “delle cose” e dell’insensibilità a ogni discriminazione di livello e di purezza»[37]. In altre parole, il discorso pubblico descrive accadimenti, utilizzabili, situazioni, fatti e stati di cose[38] senza che si giunga a una loro reale conoscenza. La correttezza dell’enunciato nel discorso pubblico è accettata con passività e leggerezza, ma si tratta di un discorso che livella e occulta le possibilità autentiche dell’esistenza dell’Esserci.
Nel suo rapporto con gli utilizzabili intramondani, l’Esserci vive inautenticamente, ossia senza verità, quando l’in-vista-di-cui non è più l’Esserci, ma uno scopo a esso estrinseco, come il dominio o il profitto. La tecnica moderna, come Heidegger l’ha descritta, opera nel modo della pro-vocazione (Herausfordern), nel senso che si rapporta alla natura considerandola meramente come «fondo», come ciò che è «impiegabile». Ma l’Esserci stesso assume, nell’impianto-imposizione della tecnica (Ge-stell), il carattere di un «fondo» impiegabile, sicché gli strumenti non possono più essere considerati come «mezzi» di un’opera compiuta in-vista dell’utilità umana. La tecnica ha preso il sopravvento su ogni possibile controllo da parte dell’uomo, privandolo di ogni libertà e perciò di ogni autentico rapporto con l’ente[39].
Infine, possiamo dire che l’inautenticità nella sfera della prassi consiste nella «deficienza» e nella «indifferenza» che «caratterizzano l’essere-assieme quotidiano e medio», ma anche nell’ostilità reciproca («l’uno contro l’altro») o in quella forma «estrema» dell’aver-cura che è il «dominio» e che consiste nel sostituirsi all’altro nel «prendersi cura» (Besorgen), ossia nel progettare le sue possibilità[40].
Rapportarsi alla verità mediante l’interpretazione significa dunque esistere autenticamente, cor-rispondendo al destino (Ge-schick) dell’essere, «perché, conformemente a questo destino, egli [l’Esserci], in quanto è colui che e-siste, ha da custodire la verità dell’essere»[41]. Interpretare è quindi anche rapportarsi consapevolmente al momento storico in cui si è gettati, sfruttando la capacità di discernimento (phronesis)[42] per distinguere ciò che è svelato da ciò che resta nella velatezza o che si dà nel modo della parvenza, in modo da lottare «contro la parvenza e la contraffazione»[43].
Questa lotta si configura come un tentativo, da parte di colui – il filosofo – che si rapporta con libertà all’essere dell’ente, di «liberare» con forza coloro che restano imbrigliati nella «imperante ovvietà» del Si. Infatti, «la svelatezza accade solo nella storia della continua liberazione». Ma, restando fedele all’immagine del liberatore platonico, che afferra i prigionieri singolarmente, cercando di condurli fuori dalla caverna, Heidegger afferma che il filosofo non può nulla contro la chiacchiera predominante, e può quindi soltanto cercare di portare un piccolo gruppo di persone alla luce dell’essere[44].
La filosofia heideggeriana ha perciò un carattere fortemente elitario, che può fare il paio con una politica antidemocratica o, comunque, conservatrice, poiché considera le masse incapaci di attingere a qualunque verità e, dunque, di pervenire alla liberazione. A questo aspetto della filosofia heideggeriana ha giustamente rivolto la sua critica Lukács, notando come il «Si» venga inteso da Heidegger come un male necessario dell'esistenza sociale dell'uomo e come conseguenza di questo non possa che essere il catalogare la storia reale degli uomini come «storia impropria», in quanto la «storia propria» viene a essere intesa sulla base soggettivista dell'Esserci, sulla sua esistenza come «nesso della vita fra la nascita e la morte»[45]. La storia collettiva appare piuttosto come un «cumulo di rovine»[46], in cui non si dà alcuna speranza di salvezza. Nell’epoca della tecnica, sembra suggerire Heidegger, soltanto l’arte e, in special modo, la poesia, possono «custodire la disvelatezza e con essa sempre anzitutto l'esser nascosto di ogni essenza su questa terra»[47]. L’esito di questa riflessione è perciò un vago appello a «preparare nel pensare e nel poetare, una disponibilità all'apparizione del Dio o all'assenza del Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo)», perché «ormai solo un Dio ci può salvare»[48].


  
3. «Da Heidegger a Marx»: la filosofia della prassi di Gianni Vattimo

La filosofia di Gianni Vattimo si richiama esplicitamente a Heidegger, ma, superando il suo pensiero a «sinistra», cerca, soprattutto nelle opere più recenti, di recuperare all’ermeneutica quella dimensione rivoluzionaria che era stata propria del marxismo, rifiutando quindi l’esito elitario e antidemocratico, nonché misticheggiante, della riflessione heideggeriana.
Uno dei concetti che assume una rilevanza centrale nel pensiero di Vattimo è quello di «storia dell’essere», che equivale alla storia della metafisica come lungo oblio dell’essere, del quale, alla fine, «non ne è nulla». L’esito del pensiero metafisico, sarebbe, infatti, il dominio della tecnica intesa come Ge-stell, in cui tutto è ridotto a ente semplicemente-presente ed esposto alla possibilità di calcolo, sicché la realtà presente viene a sopprimere qualsiasi possibilità, in una soffocante massificazione ed eternizzazione del presente. Pensare la differenza ontologica, ossia rammemorare l’essere, significa dunque ancorarsi a una possibilità di salvezza.
Vattimo sostiene che la storia dell’essere è mossa da una «paradossale teleologia asintoticamente diretta verso un niente»[49], nel senso che essa tende verso un nichilismo che non va superato, ma assunto come destino cui cor-rispondere e di cui cogliere tutte le possibilità emancipative. L’essere obliato, dunque, non va riportato alla sua presunta dimensione autentica: tale dimensione non si dà più; va piuttosto pensato come «evento» in grado di mettere in discussione la realtà presente, sconvolgendo i paradigmi di pensiero e di esistenza attuali. Tale evento dell’essere non è un fatto di cui solo il filosofo può essere consapevole e che possa essere soltanto atteso, ma è una possibilità concreta e reale, anche per le masse di oppressi in cerca di giustizia.
La metafisica – per Vattimo – ha sempre un carattere «violento», in quanto, obliando l’essere, ne dimentica (o nasconde, vela) anche la storia. Essa perciò impone una verità (una contingente apertura dell’essere) come l’unica ed eterna verità, e organizza la totalità dell’essere (ricondotta a somma di enti) secondo un piano di dominio. L’organizzazione totale è necessariamente il piano di un potere in qualche modo oppressivo, perché la libertà autentica richiederebbe esattamente la soppressione della verità metafisicamente intesa.
La rammemorazione dell’essere va perciò intesa come riapertura di possibilità soppresse. È significativo che, in numerosi scritti recenti, Vattimo metta in relazione la rammemorazione heideggeriana con l’idea benjaminiana del rapporto redentivo del presente con il passato: «il silenzio che la metafisica ci impedisce di ascoltare non è altro […] che il silenzio dei vinti di cui parla Benjamin»[50]. Il riferimento vattimiano è sempre alla XII tesi Sul concetto di storia, là dove Benjamin sostiene che l’azione rivoluzionaria deve ispirarsi «all’immagine degli avi asserviti e non all’ideale dei liberi nipoti»[51].
Questa affermazione benjaminiana assume nel discorso di Vattimo tre significati, non sempre espliciti ma sicuramente presenti. In primo luogo rivolgersi al passato, anziché all’ideale di una società futura, significa evitare la pretesa di condurre l’azione rivoluzionaria sotto la bandiera dell’assoluta verità dell’essere, ossia lottare senza la volontà di imporre una specifica e parziale visione storica a tutta la società futura. Accanto a Benjamin, in uno dei suoi saggi Vattimo cita infatti Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»[52]. In secondo luogo, come per Benjamin sottrarre all’oblio la storia dei vinti significa mettere in discussione la storia ufficiale, quella narrata dai vincitori, in cui il presente figura come esito necessario, così per Vattimo questo significa rifiutare l’«identificazione dell’Essere con l’ordine attuale dell’ente»[53]. Infine, rammemorare il passato significa porre mente alle possibilità non realizzate della storia, ma che, proprio in quanto possibilità, possono essere riaperte dall’azione presente.
Con questo richiamo a Benjamin, Vattimo compie un avvicinamento dell’ermeneutica «alla filosofia della prassi, cioè al marxismo come lo chiamava Gramsci»[54]. Anzi, l’ermeneutica si viene a configurare come «la radicalizzazione antimetafisica del marxismo»[55], superando quel residuo positivista – e metafisico – ancora presente in esso, cioè la concezione della storia come processo necessario, scandito da salti dialettici (non a caso, anche Benjamin era un fiero oppositore di questa concezione). La rivoluzione, la società più giusta, non è l’esito necessario della storia, né l’avvento in terra di una verità definitiva che porrebbe fine alla storia stessa; è, bensì, evento dell’essere, che rifiuta ogni stabilità e perentorietà. Questo significa che l’unico principio su cui potrà fondarsi una società libera è la «volontà comune»[56].
La verità viene dunque a essere intesa come apertura di un orizzonte storico e contingente. Come l’Esserci si pone nella verità progettandosi autenticamente, cioè assumendo la consapevolezza della sua storicità, del suo essere-per-la-morte, così un’epoca (un gruppo, uno stato) appartiene alla verità se assume con consapevolezza la mortalità, ossia la storicità, dell’essere stesso, inteso non più metafisicamente, ma come negazione della perentorietà del reale.
Ogni evento «dà luogo a una fondazione»[57] senza essere a sua volta fondato su alcunché. In altre parole, l’evento pone in essere una verità, senza che sia possibile valutare la verità dell’evento stesso. Come scrive lo stesso Vattimo, «sembra che sia in gioco soltanto la riuscita, il successo storico. […] La rivoluzione riesce se davvero si afferma, se dà luogo a istituzioni che incontrano la partecipazione di molti»[58]. Ma, del resto, non si può fondare una politica sulla verità, perché questa equivale a una politica di potenza e autorità, richiedendo «filosofi, comitati centrali, pontefici»[59], esperti di questa verità stessa.
Questa conclusione ribalta di 180 gradi il pensiero di Heidegger[60]. Sembra infatti che per il filosofo tedesco fossero soltanto le élite intellettuali a essere investite del compito di superare il pensiero metafisico e quindi, eventualmente, di porsi a guida di un rinnovamento. Al contrario, le masse sono vittime e insieme artefici della distorsione della verità, della prostituzione del suo concetto nella pubblicità media e impersonale del Si. Esse non sono in grado di porsi in ascolto dell’essere e di comprenderne l’eventualità. Il silenzio di Heidegger circa i temi politici non sembra tanto motivato, come vorrebbe Vattimo, dalla volontà di non compromettersi ulteriormente in seguito alla nefasta adesione al nazismo, quanto piuttosto da una totale mancanza di fiducia nelle masse e nella possibilità, per il filosofo, di rivolgersi a esse.
Per il filosofo torinese è l’opposto: le élite dominanti sono tali proprio perché impongono una visione metafisica della verità e sono del tutto incapaci – o, quantomeno, privi della volontà politica necessaria – di assumere autenticamente la storicità dell’essere e di comprenderne l’eventualità. D’altra parte, sono le masse ad avere la capacità di mettere in discussione il presente e di determinare l’avvento di un nuovo «paradigma» storico, culturale e politico.
Tuttavia, se la conclusione heideggeriana risulta inaccettabile per il suo elitarismo, che chiude il filosofo in una torre d’avorio o – per usare una metafora tratta da Lukács – nel «Grand Hotel dell’Abisso», l’esito della riflessione vattimiana è del pari inaccettabile, perché corrisponde a una riduzione della filosofia a politica. Dichiarare la «fine della filosofia» significa privarsi della possibilità di considerare la politica con distanza critica, a partire, appunto, dalla filosofia. Il discorso politico, privo del sostegno della verità, si riduce a ideologia, com’è noto dai tempi della critica di Platone ai sofisti. Se non esiste alcun criterio di verità, ma, pragmatisticamente, si considera vero ciò ha successo nella storia, la politica resta esposta all’arbitrio delle maggioranze, le quali, peraltro, non si formano in seguito a un dialogo trasparente fra posizioni avverse, ma in seguito a processi di manipolazione e convincimento che non hanno nulla a che fare con la «metafisica». Non si può sostenere che l’idea di verità della metafisica tradizionale sia equivalente al tentativo, da parte dei sofisti di ogni tempo, di imporre il proprio ristretto interesse, per la semplice ragione che la metafisica nasce proprio in opposizione alla sofistica.
L’idea di verità della metafisica è tanto incriminata quanto il discorso utilitarista e pragmatico: sulla base di entrambi sono stati compiuti nella storia numerosi crimini e misfatti. Non c’è nulla che giustifichi l’abbandono della nozione di verità (e dunque della filosofia) più di quanto non sia giustificata la rinuncia a qualsiasi politica. Occorre piuttosto riconoscere che si tratta di due dimensioni parimenti fondamentali per l’essere umano e che è proprio l’identificazione delle due (sia nella forma dell’imposizione metafisica, sia in quella dell’equivalenza che riduce la filosofia a sofistica) a essere nefasta.
Occorre allora andare alla ricerca di un’idea di verità che non sia né totalizzante (come nel caso della metafisica oggettivistica), né elitaria (come in Heidegger), né nichilista (come è per Vattimo).



 4. Hans-Georg Gadamer e la verità dell’ermeneutica

All’inizio della sua opera maggiore, Gadamer richiama la validità di alcuni concetti appartenenti alla tradizione umanistica, distanziandosi fin da subito, con questo gesto, dall’elitarismo heideggeriano. Il primo di questi concetti è Bildung (formazione, paideia, cultura), che è definita come «innalzamento all’universalità» (Erhebung zur Allgemeinheit). L’individuo, infatti, essendo inserito in un contesto intersoggettivo plasmato dalle forme dello spirito, ha il «compito» di sacrificare la propria «particolarità», elevandosi all’universalità[61].
L’uomo giunge alla coscienza dell’universale mediante la disciplina dei propri appetiti istintivi. La necessità di controllarli deriva dalla presenza di altri esseri liberi, la cui comunità esige che lo scopo della propria azione non sia esclusivo e particolare, ma inclusivo e universale. La Bildung della coscienza comincia quindi nell’incontro con l’altro e mediante il riconoscimento reciproco (questo il significato della dialettica servo-padrone nella Fenomenologia hegeliana, qui richiamata da Gadamer): «Riconoscere il proprio nell’estraneo, familiarizzarsi con esso, è questo il movimento essenziale dello spirito, il cui essere consiste esclusivamente nel ritornare a sé dall’altro»[62].
L’universalità qui in questione non è astratta e astorica, ma è quella che la tradizione umanistica nomina con l’espressione «sensus communis» e che è, appunto, gebildet, formata dalla cultura. Gadamer richiama Vico, per il quale ciò che qui è importante è «l’universalità concreta che costituisce l’unità comune di un gruppo, di un popolo, di una nazione o di tutto il genere umano»[63]. Su questo senso comune, che ha rilevanza estetica e soprattutto etica, si fonda quella virtù che Aristotele designava con il termine phronesis, cioè la capacità di sussumere ogni situazione concreta sotto l’universale, cioè di scegliere di volta in volta il mezzo corretto per giungere al fine buono dell’azione (Aristotele parla a questo proposito di «verità pratica»[64]). Non si tratta di applicare al caso singolo una regola ben definita; ogni esperienza serve a determinare la regola stessa e l’universalità non è che la caratteristica formale del fine.
Allo stesso modo, la verità non è un oggetto astratto, conoscibile nella sua totalità in modo definitivo, ma è piuttosto legata al caso particolare, alla situazione storica; ha sempre a che fare con un interesse, non nel senso di una volontà di potenza occultata sotto la maschera della verità, ma nel senso per cui ogni esperienza interessa chi ne è coinvolto, semplicemente perché lo riguarda e può cambiare la sua vita. L’«autentico evento ermeneutico» implica che la parola che ci giunge da un’alterità «ci tocca direttamente, come una parola che si rivolga specificamente a noi»[65]. Perciò un oggetto storico, artistico, o di qualunque altro genere, si dà nella sua verità soltanto nel momento dell’applicatio al caso specifico.
Nell’ermeneutica teologica e giuridica questa è intesa come l’instaurazione, mediante l’atto interpretativo, di una relazione tra il testo e un caso concreto. Analogamente, ogni atto di comprensione corrisponde a un’applicazione di qualcosa di universale a una specifica situazione[66]. Ma, come nel caso della phronesis non si tratta di comportarsi sulla base di una regola prestabilita, così nel caso della comprensione non si tratta di applicare al concreto qualcosa che prima possa essere afferrato nella sua autonomia; comprensione e applicazione, universale e particolare, sono indisgiungibili nel loro manifestarsi. L’interprete, infatti, «non può proporsi di prescindere da se stesso e dalla concreta situazione ermeneutica nella quale si trova». Se vuole comprendere il suo oggetto, «deve metterlo in rapporto proprio con questa situazione»[67].
Un esempio di che cosa questo rapporto con la situazione abbia a che fare con la verità può essere rinvenuto nella teoria estetica che Gadamer elabora nella prima parte di Verità e metodo. L’esperienza estetica, infatti, «implica un comprendere»[68], e dunque una applicatio ermeneutica. Il filosofo si serve del concetto di gioco per illustrare l’ontologia dell’opera d’arte. Il primo assunto fondamentale è che, nel gioco, il soggetto – sub-jectum, ciò che sta sotto, «quello che permane e dura»[69] – non è il giocatore, ma il gioco stesso, sicché «ogni giocare è un esser-giocato»[70]. Infatti, l’atto del giocare, che pone in essere il gioco, cancella l’identità dell’individuo, facendone un puro giocatore, inserito in un mondo nuovo, «diverso, chiuso in sé stesso»[71].
Per descrivere questo processo Gadamer introduce il concetto di «trasmutazione in forma»[72], che descrive un processo tale per cui qualcosa, nella sua totalità, diviene qualcosa d’altro, negando completamente la sua origine; il fatto che la trasmutazione si compia in una forma significa che il suo risultato è ontologicamente autonomo e non ha bisogno di essere confrontato con qualcosa di esterno, rispetto al quale possa essere considerato adeguato[73].
Il senso di tale trasmutazione del reale è che in essa «viene tratto in luce ciò che altrimenti sempre si sottrae e si cela»[74]. Il lessico qui impiegato da Gadamer rimanda naturalmente alla semantica dell’alétheia su cui Heidegger ha tanto insistito e indica che l’esperienza dell’arte è esperienza di verità. L’arte fornisce una rappresentazione del reale tale da fornirci di esso una visione inedita, che ci permette di coglierne l’essenza, in modo che «l’essere della rappresentazione (Darstellung) è più che l’essere del materiale rappresentato».
Lo «scarto ontologico»[75] che si determina tra il reale e la sua trasmutazione è dato dal rapporto dell’opera con lo spettatore, il riferimento al quale è indispensabile al compimento del significato dell’opera stessa[76]. La verità è tale, dunque, perché rimanda a colui che la esperisce, senza il quale, come già per Heidegger, la verità non si darebbe. Questo rimando, del resto, come ha scritto Gaetano Chiurazzi, «costituisce per l’ermeneutica il presupposto di ogni verità»[77]. La teoria gadameriana della verità dell’arte vuole significare essenzialmente che, «con la verità, la realtà si arricchisce della dimensione “coscienziale”, intendendo con questo il fatto che, in essa, si manifesta un sapere, si ri-conosce qualcosa»[78].
Questo rapporto si dà mediante l’applicatio interpretativa, che rapporta l’opera al tempo della sua fruizione. Per questo Gadamer impiega il termine Darstellung per indicare la «rappresentazione» (così traduce Vattimo), aggiungendo che essa «va riconosciuta come il modo di essere dell’opera d’arte in quanto tale». La Darstellung è tale solo nel momento in cui si dà, così come il gioco non è l’insieme delle regole, ma è l’atto stesso del giocare. Ciò appare nel modo più chiaro nel caso di quelle arti, come il teatro e soprattutto la musica, le cui opere non si danno al di fuori della loro esecuzione, la quale è sempre anche interpretazione. L’opera non esiste come ente semplicemente-presente, ma dev’essere sempre interpretata, da chi la esegue quanto da chi ne fruisce.
Se ogni Darstellung è una trasmutazione in forma e implica un rapporto con uno spettatore temporalmente situato, ciò significa che l’opera d’arte è tale da avere il suo essere «solo nel divenire e nel ricorrere»[79]. Questo non va però inteso come un’insufficienza, una mancanza di senso autonomo. Il rapporto allo spettatore è ontologicamente parte dell’essere dell’opera, che altrimenti sarebbe pura traccia di un passato remoto, senza alcuna relazione con il nostro mondo. Rendere l’opera contemporanea è perciò il compito dell’interprete, il quale deve sforzarsi di superare ogni mediazione per far pervenire l’opera a «una totale presenzialità»[80].
Il tentativo di comprendere l’opera d’arte come oggetto da indagare mediante un metodo storico-scientifico, anziché come evento di verità, impedisce di stabilire con essa quel rapporto vitale che può darsi solo con la messa in atto della Darstellung. Il rapporto storiografico si situa piuttosto sul piano della Vorstellung[81], nel senso lo storico «pone» (stellt) l’opera «dinanzi» (vor) a sé come un oggetto semplicemente-presente (vorhanden), recidendo ogni rapporto di senso.
Ma in che modo ciò che è esperito nell’evento ermeneutico ha il carattere dell’universalità? Per comprenderlo è necessario fare riferimento alla nozione di «classico». Ciò che è considerato tale e tramandato storicamente da una tradizione è riconosciuto come «vero» e sottoposto a una «sempre rinnovata verifica»[82], la quale consiste nella possibilità stessa di renderne contemporaneo il contenuto. Il classico è tale, ed è «vero», solo perché e fino a quando è passibile di sempre nuove interpretazioni, proprio perché l’interpretazione è il luogo del darsi della verità. Universale, quindi, è ciò che si presta a infinite particolarizzazioni, così come il bene, in Aristotele, si offre a infiniti casi concreti.
Questo tipo di universalità è stato definito da Chiurazzi «intensionale»[83]. Secondo la logica formale, un concetto è tanto più universale quanto più a esso corrisponde una maggiore estensione e, con proporzionalità inversa, una minore intensione. Ciò significa che l’universalità viene intesa come la qualità del concetto che fa astrazione, cioè prescinde, dalle differenze qualitative dei particolari sussunti, offrendo l’immagine delle caratteristiche comuni a tutti. L’universalità intensionale è invece propria del concetto che racchiude in sé tutte le differenze, aprendosi così a una molteplicità di possibili interpretazioni.
Si tratta di una concezione della verità che non è elitaria, poiché valorizza l’esperienza di ciascuno, né violenta, in quanto impedisce di comprendere l’universalità del vero come esauribile in singole interpretazioni e perciò permette di pensare al dialogo, al confronto e all’inclusione dell’altro, come mezzi positivi per arricchire l’intensionalità del vero[84]. Infine, non vi è alcun motivo nichilistico, poiché l’interpretazione non può essere condotta arbitrariamente. Per essere autentica, essa deve lasciar-essere l’opera nel suo darsi, così come il giocatore non ha facoltà di stravolgere il gioco, ma dev’essere «giocato» da esso. Nel fare questo, l’interpretazione si inserisce sempre all’interno di una tradizione, con la quale deve fare (anche criticamente) i conti, e che perciò assume un carattere normativo[85].
Tuttavia anche questa impostazione non è esente da difficoltà. Non esiste, infatti, un’unica tradizione, non soltanto perché esistono culture diverse[86], ma anche all’interno di una stessa cultura. Si tratta di tradizioni rivali e incommensurabili, alla base di un dibattito che non può giungere ad alcun esito razionalmente accettabile se non si comprendono le ragioni delle differenze e i criteri in base ai quali una tradizione può essere giudicata superiore a un’altra[87]. Gadamer sembra dare per scontato che esista un elemento di verità in qualsiasi tradizione, e ciò sarebbe garantito dalla sua stessa permanenza nel tempo. Il fatto che, ad esempio, un «classico» continui a parlare ai suoi lettori, non è un criterio sufficiente di verità, perché nulla impedisce che vi sia una tradizione legata - per fare un esempio estremo - al Mein Kampf di Hitler, ma è difficile ammettere che tale opera contenga una verità. Tuttavia, se si nega ciò, resta indicato da Gadamer soltanto quando il processo interpretativo si rapporta con verità all’oggetto, e non quando l’oggetto, di per sé, è vero. Probabilmente, del resto, lo scopo di Verità e metodo, che a che fare con l’epistemologia delle scienze dello spirito, era proprio quest’ultimo.



 5. Verità e pensiero tecnico

Se per Gadamer la verità si dà nell’atto interpretativo che pone in relazione un soggetto con un’alterità, per Pareyson il testo, l’opera d’arte, il discorso sono già esse stesse interpretazione della verità. In quest’ottica, l’interpretazione è un fenomeno originario, nel senso che «qualifica quel rapporto con l’essere in cui risiede l’essere stesso dell’uomo»[88].
Ogni opera dello spirito umano può essere, per Pareyson, o espressiva o rivelativa. Nel primo caso «la storicità esaurisce l’essenza stessa del pensiero»[89], in quanto ciò che viene a espressione è unicamente la situazione storica contingente; si tratta, dunque, di ideologia. Il pensiero rivelativo nasce anch’esso in peculiari circostanze di cui è inevitabilmente espressione; tuttavia, il suo significato appare come inesauribile, proprio perché è rivelazione di verità. Quest’ultima non può essere oggettivata, conosciuta nella sua totalità e formulata in un insieme compiuto di proposizioni. Essa si dà alla storia e si rivela in quelle formulazioni che non si riducono alla loro storicità, ma lasciano aperto lo spazio della comprensione e dell’interpretazione.
Ma il pensiero rivelativo, in quanto manifestazione della verità, è già esso stesso interpretazione e proprio per questo dà origine a una tradizione interpretativa, che non si costituisce tanto come sempre rinnovata riattualizzazione del testo, bensì come sempre rinnovata manifestazione della verità, che nel testo si è rivelata. «All’interpretazione della verità – scrive Pareyson – è necessariamente legata la possibilità di una tradizione: infatti l’interpretazione dà una formulazione della verità, ma la possiede come inesauribile; […] l’incessante approfondimento che essa sollecita collega lo svolgimento delle possibilità attuali non solo col patrimonio delle possibilità già svolte, ma con la fonte stessa delle infinite possibilità»[90].
L’opera autentica è interpretazione della verità, mentre ciò che risulta essere mera espressione del tempo storico «non merita […] il nome di interpretazione»[91]. Perciò, la comprensione del pensiero espressivo – potremmo dire: dell’opera inautentica – non può essere attuata mediante una tradizione interpretativa, ma richiede un processo di «smascheramento»[92] del significato nascosto dietro il discorso esplicito. Si tratta dunque di risalire alle condizioni storiche che hanno originato tale pensiero[93], proprio perché nient’altro si trova in esso, seppure in forma ideologicamente distorta.
La differenza tra Gadamer e Pareyson emerge proprio là dove essi utilizzano lo stesso esempio per parlare di verità, ossia quello della Darstellung dell’opera d’arte[94]. Conviene dunque riportare per esteso un paragrafo di Pareyson:
E come l’opera, lungi dal dissolversi in una molteplicità di esecuzioni arbitrarie, rimane identica a sé stessa nell’atto che si consegna a ciascuno di quelle che sappiano renderla e farla vivere, e queste esecuzioni sempre nuove e diverse, lungi dall’essere mere approssimazioni o semplici riverberi d’un’unica esecuzione che si pretenda ottima ed esemplare, sono la vita stessa dell’opera, cioè l’opera in quanto parla a tutti nella maniera in cui ciascuno sa meglio intenderla; così la verità, lungi dal disperdersi nelle proprie formulazioni, ne alimenta essa stessa la pluralità, conservandosi unica e identica proprio in quanto s’incarna in ciascuna di quelle che sappiano coglierla e rivelarla, e queste sue formulazioni storiche e molteplici, lungi dal rinunciare alla verità intemporale e unica, con la sottintesa e assurda nostalgia per una formulazione unica e perfetta, sono piuttosto l’avvento temporale della verità, cioè la verità parlante a tutti, ma a ciascuno nel suo personale e irripetibile linguaggio.[95]
Si potrebbe segnalare la differenza tra i due autori mediante due formule: mentre Pareyson vuole mettere in luce che ogni opera autentica si configura come interpretazione della verità, la preoccupazione di Gadamer sarebbe piuttosto quella di affermare la verità dell’interpretazione. Il filosofo tedesco resta legato alla concezione della verità come corrispondenza, dalla quale vuol prendere le distanze; egli, infatti, non fa che sostituire l’idea per cui la verità sia una qualità possibile dell’enunciato con quella per cui essa è una qualità possibile dell’interpretazione. Per Pareyson, invece, la verità è l’essere stesso, perciò essa è ontologicamente antecedente a qualsiasi formulazione. In altre parole, mentre Gadamer è un pensatore post-metafisico, Pareyson recupera l’eredità dell’idealismo tedesco.
Possiamo rintracciare, infatti, alla base del discorso del filosofo italiano, una metafisica di stampo fichtiano, che non ha nulla a che fare con la metafisica oggettivistica e potenzialmente violenta, criticata da Vattimo. Nel pensiero del cosiddetto «secondo» Fichte, la verità, ovvero l’essere, viene intesa come il non-essere del sapere; vi è dunque una verità in sé, che risulta inconoscibile. Essere e verità sono infatti sinonimi dell’assoluto, che in quanto tale è la negazione del finito, e poiché il sapere è di pertinenza dell’uomo, in esso non si può dare l’assoluto. Perciò Fichte scrive (secondo la traduzione italiana che, non a caso, è di Pareyson) che «il fondamento della verità non si trova certo nella coscienza, bensì esclusivamente nella verità stessa; dalla verità tu devi dunque sempre defalcare la coscienza in quanto questa non importa per nulla a quella»[96].
Ciò non significa che la verità sia inaccessibile alla coscienza, ma che essa non può mai essere esaurita dal sapere, il quale è «fenomeno esteriore della verità»[97], manifestazione dell’essere alla coscienza. Vi è una relazione dialettica fra verità e coscienza, molto simile a quella rintracciata da Heidegger, per cui nel momento in cui vi è il sapere, allora si dà anche la verità, la quale, a sua volta, non può darsi che nel sapere. Poiché il sapere è manifestazione dell’assoluto, esso rimanda all’essere inesauribile, di cui ogni sapere è fenomeno. Allo stesso modo, per Pareyson, l’essere è l’inesauribile[98] che eccede ogni interpretazione, sollecitando perciò stesso la pluralità dei punti di vista e l’instaurarsi delle tradizioni, secondo un concetto ancora una volta intensionale di universalità.
Pareyson, come Heidegger, rivendica l’estraneità del proprio pensiero alla dicotomia fra teoria e prassi, ponendosi a un livello ontologicamente «più profondo e più originario». Originario è, infatti, il rapporto tra persona ed essere, sicché la verità dev’essere intesa come «la radice e la norma originaria» tanto della teoria quanto della prassi, le quali, senza rapporto alla verità, si riducono a «tecnica»[99], cioè a strumenti della produzione o della lotta ideologica per il predominio. Proprio perché il pensiero e la prassi sono così ridotti a strumento, essi figurano come mera espressione del proprio tempo storico; essi sono «strumento dell’azione in quanto specchio della situazione»[100].
È in riferimento a queste considerazioni che sopra si è mossa la critica al nichilismo di Vattimo, che consapevolmente abbandona ogni legame con la verità e crede di legittimarsi affermando di essere espressione adeguata del proprio tempo[101]. Il pensiero debole si propone esplicitamente, con un tono pragmatico e strumentale, come «pensiero dei deboli», sicché la Verwindung della metafisica perseguita quale compito del pensiero, risulta essere una riduzione del pensiero a ideologia. Al contrario Pareyson rivendica il «carattere speculativo della filosofia, il quale si può sostenere solo con l’abbandono della metafisica ontica e oggettiva, con l’affermazione dell’inoggettivabilità della verità, col riconoscimento dell’indivisibilità di rivelazione ed espressione»[102].
L’ermeneutica pareysoniana è perciò esente tanto dai limiti del nichilismo, quanto dalle eccessive pretese della metafisica oggettiva. Essa si distanzia anche da ogni elitarismo, in quanto basata su un legame fichtiano tra soggettività e assoluto, secondo il quale ogni persona può vivere nella verità, purché riconosca la sua autentica natura, che è sempre anche un compito morale (la fichtiana Bestimmung des Menschen ha entrambi questi significati).



 6. La verità in comune

Raccogliendo il richiamo a Fichte, cerchiamo ora di delineare la dimensione comunitaria della verità, nella convinzione (già espressa) che l’individuo da solo non possa giungervi. Com’è noto, la filosofia fichtiana ha il suo perno sulla soggettività libera. Nel Diritto naturale e nel Sistema di etica, tuttavia, il filosofo si trova a dover affrontare la contraddizione per cui il soggetto non può porsi come libero senza aver fatto esperienza della libertà, ma d’altra parte non può far esperienza della libertà senza già essersi posto come libero. Tale contraddizione può essere risolta soltanto ammettendo che il soggetto è determinato dall’esterno alla libertà; ma poiché questa determinazione non può avere il carattere della necessità (altrimenti la libertà sarebbe soppressa e si cadrebbe in una nuova contraddizione), si deve ammettere che essa è un «invito», un’esortazione (Aufforderung) alla libertà. Ulteriore conseguenza di questo ragionamento è che la fonte di questa esortazione deve avere un concetto della libertà e perciò deve trattarsi di una soggettività libera, quindi di un altro uomo.
Così Fichte spiega filosoficamente il fenomeno dell’intersoggettività, concludendo che «il concetto dell’uomo è così null’affatto concetto di un singolo, giacché un singolo è impensabile, ma di una specie» e chiarendo che «l’invito alla libera autoattività è ciò che si chiama educazione. Tutti gli individui debbono essere educati a uomini, altrimenti non diventerebbero uomini»[103]. Nel Sistema di etica questo assume un significato morale, poiché dal fatto che la libertà del singolo è condizionata necessariamente dalla libertà dell’altro, è fatto coerentemente derivare l’imperativo di non sopprimere la libertà altrui, perché in tal modo si annienterebbe la condizione della propria stessa libertà[104].
L’appello alla libertà che è rivolto dall’uomo all’uomo corrisponde a una sollecitazione a scoprire la propria autentica Bestimmung, cioè una vita che attinga all’essere quale fonte della verità per seguirne i dettami tanto nella conoscenza quanto nella pratica. In altre parole, l’invito alla libertà da parte dell’altro è la prima manifestazione della verità, in quanto fonte di comprensione del legame ontologico che lega la persona all’essere. Di conseguenza, l’esperienza della verità implica il rispetto dell’alterità, in base al riconoscimento che la dignità e il compito propri della persona, come ha scritto Pareyson, consistono «nel farsi ascoltatrice della verità»[105].
Per Fichte l’uomo «è destinato (bestimmt) alla società»[106]. E la destinazione dell’uomo in società è «un avanzamento comunitario, un avanzamento di noi stessi in virtù dell’uso del libero operare degli altri su di noi, e un avanzamento degli altri tramite l’incidenza del nostro operare su di essi come enti liberi»[107].
La verità di un pensiero, di un’azione o di un’intera tradizione è perciò saggiata dal rispetto che questa mantiene nei confronti della libertà altrui. Il filosofo, perciò, è colui che, socraticamente, mette in discussione la parzialità delle opinioni per far emergere l’interesse autentico della comunità, mentre l’ideologo, il sofista, è colui che spaccia per interesse pubblico ciò che in realtà è un interesse privato. Come ha intuito Costanzo Preve, l’opposizione tra verità e relativismo ha proprio qui la sua origine e il suo significato; la verità è «funzione della riproduzione pubblica», cioè della buona vita (eu zen) del collettivo, mentre il relativismo è «funzione degli interessi privati»[108].
Perciò, come si diceva nell’Introduzione, la verità assume un significato primariamente pratico, regolando la convivenza umana, e solo su questa base si può stabilire quando in generale un pensiero o un’azione sono manifestazione di verità. Ciò non significa, naturalmente, né che la comunità abbia la prerogativa di giungere a un possesso definitivo e compiuto della verità, né che essa debba tenere lontano da sé tutto ciò che risulta non conforme al vero. Come l’ermeneutica filosofica insegna, la verità è inesauribile e si dà soltanto nell’interpretazione, perciò ogni voce è degna di essere accolta in dialogo. Ciò che qui si intende mettere in discussione è unicamente il carattere privato dell’esperienza della verità, per proporre l’abbozzo di una teoria della verità che non sia né violenta, né elitaria, né nichilistica, ma pluralista, umanista e positiva, in grado di rendere conto anche della dimensione sociale dell’esistenza.




[1] M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1995, p. 56.
[2] Id., L’essenza della verità, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1997, p. 91.
[3] Cfr. G. Chiurazzi, L’esperienza della verità, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 51-53; M. Heidegger, Essere e tempo, § 44b.
[4] E. Berti, Verità e filosofia, http://www.veritatis-splendor.net/DocumentiVS/Berti_Verità%20e%20Filosofia.pdf, p. 10 (url visitato in data 06/06/2014). Il testo è tratto dal volume V. Possenti, (a cura di), Ragione e verità: l’alleanza socratico-mosaica, Armando, Roma 2005.
[5] Ivi, p. 11.
[6] Metaph. Z4, 1030a 10-15.
[7] «Sostanza è quella detta nel senso più proprio e in senso primario e principalmente, la quale né si dice di qualche soggetto né è in qualche soggetto: ad esempio, un certo uomo o un certo cavallo» (Cat. I, 5, 2a 11-13).
[8] Cfr. Cat. I, 5, 2b 6.
[9] Eth. Eud., II, 1, 1219a 4.
[10] Eth. Eud., Rizzoli, Milano 2012, p. 365.
[11] M. Zanatta, nota 1 a Eth. Nic., I, 6, Rizzoli, Milano 1986, p. 407.
[12] Cfr. ad es. Metaph. 1051b 1-5
[13] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 1.1.
[14] Ivi, 6.421.
[15] DK, B 123.
[16] M. Heidegger, Essere e tempo, § 44b. (Di qui in poi l’opera è indicata con l’abbreviazione SuZ; per la traduzione utilizzata si rimanda alla Bibliografia).
[17] Cfr. ad es. M. Heidegger, L’essenza della verità cit., pp. 84-85.
[18] Cfr. SuZ, § 63: «Se però “c’è” essere solo in quanto la verità “è”, e se la comprensione dell’essere si modifica sempre secondo il modo della verità, la verità originaria e autentica dovrà garantire la comprensione dell’essere dell’Esserci e dell’essere in generale» (corsivo mio).
[19] Id., L’essenza della verità cit., p. 49.
[20] Ivi, pp. 56 ss.
[21] Ivi, pp. 90 ss.
[22] Ivi, p. 164.
[23] Cfr. SuZ, § 27.
[24] Cfr. ivi, §§ 35-37.
[25] Ivi, § 44b.
[26] Ivi, § 9, nota d.
[27] Id., Lettera sull’«umanismo» cit., p. 95.
[28] SuZ, § 32.
[29] Cfr. ivi, § 31.
[30] Ivi, § 32.
[31] Ivi, § 31.
[32] Cfr. ivi, § 18.
[33] Ivi, § 33.
[34] Cfr. ivi, § 18.
[35] Ivi, § 26.
[36] Ibidem.
[37] Ivi, § 27.
[38] Questo elenco corrisponde a ciò che secondo Heidegger può essere oggetto di un’asserzione; cfr. ivi, § 33.
[39] M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 13 ss.
[40] Cfr. SuZ, § 26.
[41] Id., Lettera sull’«umanismo» cit., p. 56.
[42] Tale terimine in Platone indica «la “conoscenza” in generale, cioè il coglimento del vero, l’avvedutezza e il discernimento» (Id., L’essenza della verità cit., p. 60).
[43] SuZ, § 44b.
[44] Id., L’essenza della verità, pp. 106 ss.
[45] G. Lukács, La distruzione della ragione, tr. it. E. Arnaud, Einaudi, Torino 19743, pp. 518 ss.
[46] Ivi, p. 496.
[47] M. Heidegger, La questione della tecnica cit., p. 24.
[48] Id., Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo Spiegel, a cura di A. Marini, Ugo Guanda, Parma 1987, p. 136.
[49] G. Vattimo, Della realtà. Fini della filosofia, Garzanti, Milano 2012, p. 60.
[50] Ivi, p. 216.
[51] W. Benjamin, Angelus novus. Scritti e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962, p. 79. Vattimo cita questa frase in diversi saggi contenuti in Della realtà cit.
[52] Ivi, p. 113.
[53] Ivi, p. 174.
[54] Ibidem.
[55] Ivi, p. 171.
[56] Ivi, p. 172.
[57] Ivi, p. 173.
[58] Ivi,p. 173.
[59] Ibidem.
[60] Non che questo sia un demerito dell’opera di Vattimo, il cui intento esplicito non è un’interpretazione di Heidegger, ma uno sviluppo autonomo della sua eredità.
[61] H.-G. Gadamer, Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 20002, p. 49.
[62] Ivi,pp. 51-53.
[63] Ivi, p. 65.
[64] Eth. Nic. VI 2, 1139 a 23-27.
[65] H.-G. Gadamer, Verità e metodo cit., p. 939.
[66] Cfr. ivi, pp. 635-645.
[67] Ivi, p. 669.
[68] Ivi, p. 225.
[69] Ivi, p. 229.
[70] Ivi, p. 237. In corsivo nell’originale.
[71] Ivi, p. 247.
[72] Cfr. ivi, pp. 245 ss.
[73] Non si può quindi intendere la verità di una rappresentazione sulla base di una teoria corrispondentista della verità.
[74] Ivi, p. 249.
[75] Ivi, p. 253
[76] Cfr. ivi, p. 243.
[77] G. Chiurazzi, L’esperienza della verità cit., p. 109.
[78] Ivi, p. 92.
[79] H.-G. Gadamer, Verità e metodo cit., p. 269.
[80] Ivi, p. 277.
[81] Ivi, p. 359.
[82] Ivi, p. 595.
[83] G. Chiurazzi, L’esperienza della verità cit., pp. 94-95.
[84] Cfr. ibidem.
[85] Cfr. p. 261.
[86] Il concetto gadameriano di «fusione di orizzonti» si è rivelato assai fecondo nella trattazione dei rapporti fra le diverse culture. Per citare solo un esempio, cfr. C. Taylor, Understanding the Other: A Gadamerian View on Conceptual Schemes, in J. Malpas et al., (eds.), Gadamer’s Century: Essays in Honour of Hans-Georg Gadamer, MIT press, Cambridge (Mass.) 2002, pp. 279-297; ora in C. Taylor, Dilemmas and Connections. Selected Essays, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2011, pp. 24-38.
[87] Questa idea è alla base di tutta la riflessione di A. MacIntyre; cfr. in particolare Giustizia e razionalità, tr. it. di C. Calabi, Anabasi, Milano 1995, 2 Voll.

[88] L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971, p. 53.
[89] Ivi, p. 94.
[90] Ivi, pp. 46-47.
[91] Ivi, p. 54.
[92] Cfr. ivi, p. 22
[93] Cfr. ivi, p. 94.
[94] Non va dimenticato che in Verità e metodo è citata l’Estetica di Pareyson. Anche se questo rimando non è presente dove Gadamer parla di verità dell’arte, la corrispondenza era nota a entrambi gli autori.
[95] Ivi, p. 69.
[96] J. G. Fichte, La dottrina della scienza esposta nell’anno 1804, tr. it. di L. Pareyson, in M. F. Sciacca, M. Schiavone, (a cura di), Grande antologia filosofica, XVII, Marzorati, Milano 1971, p. 1034.
[97] Ibidem.
[98] Egli definisce infatti la sua filosofia come un’«ontologia dell’inesauribile»; cfr. ad es. L. Pareyson, Verità e interpretazione cit., p. 28.
[99][99] Cfr. ivi, pp. 104-105.
[100] Ivi, p. 98.
[101] Cfr. G. Vattimo, La vocazione nichilistica dell’ermeneutica, in Id., Oltre l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 3-19.
[102] L. Pareyson, Verità e interpretazione, p. 101.
[103] Queste citazioni sono tratte dal Diritto naturale e sono riportate in A. Masullo, La comunità come fondamento. Fichte Husserl Sartre, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1965, p. 132.
[104] Cfr. ivi, p. 135.
[105] L. Pareyson, Verità e interpretazione cit., p. 170.
[106] J. G. Fichte, Missione del dotto, a cura di D. Fusaro, Bompiani, Milano 2013, p. 227.
[107] Ivi, p. 235.
[108] Costanzo Preve, Lettera sull’Umanesimo, Petite Plaisance, Pistoia 2012, p. 126.

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