Introduzione
Accingendosi a trattare il tema della verità, occorre chiarire preliminarmente
se essa assuma, in filosofia, un significato peculiare, distinto da quello di
uso comune; o se, invece, il compito della filosofia sia semplicemente quello
di chiarificare, fornendone le condizioni di validità, un termine da tutti
impiegato. Questo presuppone, tuttavia, una specifica definizione della filosofia, dei suoi scopi e del suo
ambito di ricerca, la qual cosa, sebbene raramente discussa in modo esplicito,
è piuttosto controversa. La chiarificazione che si impone, dunque, corrisponde
a una dichiarazione di partigianeria, a una confessione della parzialità del
punto di partenza, ma sulla base di una profonda convinzione, che si spera
possa servire a rendere persuasivo il discorso che verrà condotto.
Le domande che originano il filosofare
provengono da quell’ente che Heidegger ha chiamato Esserci (Dasein), ossia
dall’uomo in quanto essere-nel-mondo. L’occasione del loro emergere è la
problematicità dell’esperienza, ossia lo sgomento meravigliato (thauma), l’angoscia, l’errore: in una
parola, la coscienza della finitudine. La filosofia va quindi intesa come
ricerca del senso dell’essere a partire da quell’ente che pone la domanda
sull’essere. Di conseguenza, essa è essenzialmente umanesimo (non necessariamente antropocentrico).
Quest’affermazione può suonare strana in
seguito a una proposta di definizione di palese stampo heideggeriano. Tuttavia,
non va dimenticato che Heidegger rifiuta l’umanesimo in quanto «esso non pone
l’humanitas dell’uomo a un livello
abbastanza elevato»[1];
il suo obiettivo è quindi di pensare in modo più radicale e originario proprio
l’essenza dell’uomo. È infatti, per Heidegger, il carattere dell’«e-sistenza»
dell’Esserci a imporre che si indaghi anzitutto la «verità dell’essere», ma il
fine dell’indagine resta l’essenza dell’uomo: «soltanto l'essenza della verità
ci consente di capire l'essenza dell'uomo»[2].
Vi è, infatti, una relazione dialettica fra essere ed Esserci, tale per cui
l’uno non si dà senza l’altro: l’errore di tutta la metafisica oggettivistica,
in cui rientra, secondo Heidegger, anche l’umanismo, consiste nell’insistere
univocamente su uno dei due termini o - nel caso di Hegel - nel tentativo di
conciliarli in una sintesi superiore.
L’essenza dell’umano va però pensata all’interno
di un’inestricabile dimensione intersoggettiva, ossia di quel con-essere (Mitsein) al quale Heidegger non ha dedicato sufficiente attenzione.
Se la verità riguarda l’esistenza umana, infatti, essa dovrà assumere una
rilevanza politica e comunitaria, poiché al senso dell’essere non può attingere
pienamente la singola individualità. La verità, dunque, dovrà essere in qualche
modo il frutto di un’interazione fra parlanti e avrà un significato primariamente pratico, sebbene il suo
accadere sia ontologicamente antecedente alla distinzione tra teoria e prassi.
Soltanto se si attribuisce una validità
a questo genere di ricerca si può intendere la filosofia come disciplina
autonoma, dotata di un proprio oggetto. Se si dispera di giungere a una meta
ponendosi su questo sentiero, allora la filosofia dovrà farsi ancilla di altre discipline, mezzo per
altri scopi, e sarà dunque intesa soltanto come metodo di chiarificazione
logica e terminologica, di delimitazione epistemologica dell’ambito delle
scienze, eccetera. In altre parole, si farà pensiero tecnico e non veritativo,
pragmatico e non paradigmatico.
Qui si seguirà proprio quel sentiero cui
si è accennato, e si terrà perciò ben distinto il significato della verità filosofica da quella qualità di
proposizioni, opinioni e atteggiamenti proposizionali che viene usualmente
indicata con questo termine, cui proponiamo di sostituire attributi come veridicità, certezza, sincerità. Non
si intende qui negare validità a questi significati possibili della verità, che
sono anzi fondamentali nelle scienze e ai quali è giusto che anche la filosofia
dedichi la sua attenzione; si tratta, però, di derivati[3],
in quanto – come direbbe Heidegger – solo una preliminare apertura dell’essere
nella Lichtung concede a essi di emergere.
Inoltre, proprio perché è l’Esserci a
essere nell’apertura, la validità stessa delle scienze dev’essere ricondotta
all’origine di ogni sapere, ossia al domandare dell’uomo e alla verità
filosoficamente intesa.
Comincerò a percorrere il sentiero con
una breve chiarificazione di questo punto, per poi saggiare il contributo dei
maggiori esponenti dell’ermeneutica filosofica, alla ricerca di un’idea della
verità che sia comprensiva di tutte le dimensioni dell’umano.
1. Verità e discorso quotidiano
Uno dei più
importanti studiosi e filosofi italiani, Enrico Berti, ha scritto in un suo
articolo che «la nozione di verità […] è per così dire “essoterica”, cioè non
specifica di una disciplina, non tecnica, non appartenente a una terminologia
speciale, ma di uso comune, popolare, pur essendo tuttavia precisa, ben
definita». Essa sarebbe «una qualità che un discorso, un’opinione, un pensiero,
può avere o non avere, a chiunque esso appartenga»[4].
Secondo questa
concezione, la verità appartiene al «senso comune», ossia chiunque è in grado
di comprendere il significato del termine e – almeno potenzialmente – di
distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. Si tratterebbe semplicemente di
confrontare gli enunciati con gli stati di cose cui essi si riferiscono, per
saggiarne – come si dice in filosofia del linguaggio – il valore di verità.
Se è così, quale
può essere il compito proprio della filosofia? Una delle definizioni possibili
di tale disciplina è infatti «ricerca della verità», ma se questa si dà
soltanto come conformità di enunciati a stati di cose, come si potrà
distinguere l’indagine filosofica dall’accertamento scientifico, giornalistico
o di qualunque altro tipo? Si potrà supporre che la filosofia sia deputata alla
ricerca delle verità «ultime», concernenti i problemi fondamentali della vita
dell’uomo, nell’ambito dell’etica, della politica, dell’ontologia. Tuttavia,
quali stati di cose potranno essere indicati come «corrispondenti», ad esempio,
a una proposizione ontologica?
Il realismo metafisico,
che è alla base della concezione classica della verità come corrispondenza, si
basava sulla convinzione – filosofica e non di senso comune – che la natura
delle cose fosse determinata da essenze immutabili, la cui conoscenza era
appunto lo scopo della ricerca filosofica. Soltanto su questa base si può
ritenere che anche le affermazioni etiche e ontologiche abbiano un «referente»
nella realtà, anche se in una realtà che non è immediatamente manifesta agli
occhi, e che perciò appartiene propriamente al campo della «meta-fisica», la
quale proprio per questa sua fondamentale importanza era detta «filosofia
prima».
La convinzione
che esistano essenze immutabili è oggi insostenibile e questo non può non avere
delle conseguenze su una teoria corrispondentista della verità. Secondo Berti
ciò non fa problema, perché la teoria corrispondentista non abbisogna di realtà
necessariamente immutabili cui fare riferimento. «La verità contingente non
muta come verità, ma si riferisce a uno stato di cose che muta»[5],
nel senso – se intendo correttamente ciò che Berti vuol dire – che esso si dà a
un grado diverso di disvelatezza. Il problema, però, è che il carattere che
faceva delle essenze il referente di affermazioni propriamente filosofiche non
era tanto la loro presunta immutabilità, quanto il loro costituire la totalità
dell’essere e, soprattutto, il loro carattere normativo.
Aristotele
definisce le essenze come le specie ultime dei generi[6], ciò
mediante cui si definisce una sostanza prima[7] e
che, a differenza delle idee platoniche, non esiste separatamente da queste[8].
Se si escludono gli esseri non viventi, si può dire che l’essenza corrisponde
alle facoltà dell’anima: per Aristotele infatti tutti gli individui sono dotati
di un’anima, che è causa delle caratteristiche proprie dei generi o delle
specie ai quali essi possono essere ricondotti. Così, la facoltà nutritiva
appartiene all’intero genere dei viventi ed è propria della specie delle
piante; la facoltà sensitiva è comune al genere animale e propria della specie
di animali non intelligenti; la facoltà intellettiva è invece comune al genere
umano e propria soltanto di esso.
L’essenza è quindi definibile a partire
dalle capacità che l’individuo possiede grazie alle facoltà dell’anima. Ora,
per Aristotele, il fine dei viventi è l’esercizio perfetto della parte
dell’anima che li caratterizza specificamente. Di conseguenza, il fine dei
viventi sarà la realizzazione di ciò che esprime la loro essenza peculiare.
Questa considerazione è di fondamentale
importanza, perché permette di comprendere come la metafisica delle essenze
abbia rilevanza per l’etica. Nell’Etica
Eudemia rinveniamo l’espressione: «τέλος εκάτου τò έργον»[9], che
Marcello Zanatta traduce come «fine di ciascuna cosa è l’opera»[10]. Il
medesimo traduttore precisa che érgon
è un termine che Aristotele mutua da Platone per denotare l’opera per il
compimento della quale la cosa è fatta. «[L’érgon]
dunque – essendo il suo fine – ne definisce anche l’essenza»[11].
Questo esempio aristotelico, che vale a
mostrare una concezione valida almeno fino alle soglie dell’età moderna (quando
con Cartesio si distinguerà il piano del soggetto da quello dell’oggetto, dando
origine alla teoria della verità come rispecchiamento), mostra come la teoria
corrispondentista fosse efficace nel fondare la verità delle proposizioni
filosofiche, cioè, anzitutto e in senso lato, ontologiche ed etiche.
La verità è solo derivatamente una
proprietà dell’enunciato, la quale si fonda sul disvelamento dell’essere. La
teoria corrispondentista aristotelica, come precisa lo stesso Berti, non
implica tanto un «rispecchiamento» nella proposizione dello stato di cose,
quanto piuttosto una «corrispondenza» fra l’intelletto e la cosa; l’autentica
conoscenza si dà quando l’intelletto in qualche modo si adegua all’ente che si
mostra (si disvela) nel suo essere. La verità è, quindi, innanzitutto una
proprietà ontologica degli enti[12],
sicché ciò che è massimamente vero, per Aristotele, è ciò che è ontologicamente
primo, vale a dire le sostanze incorporee (Dio e i motori dell’universo) e le
essenze.
Se oggi, non essendoci più concesso
credere all’esistenza di essenze dotate di un valore normativo, continuiamo a
farci fautori di una teoria corrispondentista della verità, dobbiamo ridurre il
significato di questo termine a ciò che oggi ci risulta «essere», ossia gli
enti semplicemente-presenti. Ma così il discorso propriamente filosofico appare
svuotato di ogni significato, sicché a esso può essere sostituita l’analisi del
linguaggio comune o di quello scientifico, con la conseguenza che l’ontologia
si riduce a un catalogo dell’esistente («il mondo è la totalità dei fatti»[13]),
la metafisica è completamente screditata e dell’etica risulta che «non può
formularsi»[14],
se non in forma emotivista o pragmatista, cioè basata su interessi personali in
qualche modo constatabili e riconducibili ai «fatti».
Non credo sia la storia della metafisica,
come sostiene Heidegger, ad aver determinato fin dalle sue origini l’oblio
dell’essere e della differenza ontologica. È piuttosto stato il mantenimento di
una dottrina della verità che, venendo a mancare l’impianto ontologico della metafisica
tradizionale, si è ridotta a strumento di conoscenza dell’esistente, in vista
di una sua possibile manipolazione da parte della scienza e della tecnica. Il
nichilismo, perciò, non può nemmeno essere inteso come un destino dell’essere,
alla maniera di Vattimo, ma come il frutto di un errore prospettico, di
un’impostazione di pensiero – certamente dettata da un interesse troppo umano –
tale da precludersi la possibilità di una comprensione dell’essere al di là
dell’ente.
Se la filosofia ha da mantenere la
propria rilevanza, dunque, essa deve abbandonare questa concezione della verità
in vista di una comprensione dell’essere adatta al superamento della metafisica
oggettivistica. Il sorgere, con Heidegger, dell’ermeneutica filosofica
corrisponde all’apertura di un percorso di ricerca capace di andare in questa
direzione.
2. Esistenza autentica e verità
La verità è intesa da Heidegger, sulla
base del termine greco alétheia, come
svelatezza dell’ente. Questa definizione in negativo rimanda dialetticamente al
suo opposto, ossia alla velatezza, che appartiene indissociabilmente
all’essenza della verità, la quale – come dice metaforicamente Eraclito – «ama
nascondersi»[15].
In Essere e tempo si sostiene, più
precisamente, che «primariamente “vero”» non è ciò che è disvelato, bensì il
disvelante, l’ente «scoprente», ossia «l’Esserci»[16].
Soltanto perché esiste l’Esserci si dà (gibt
es) «l’esser-scoperto dell’ente intramondano». La verità e l’Esserci sono
«cooriginari», poiché l’Esserci non può esistere senza verità, e la verità non
può darsi se non all’Esserci. Quest’ultimo, nel momento stesso in cui esiste,
si situa nella verità, intesa come apertura che rende possibile la conoscenza
dell’essere dell’ente.
Heidegger esprime in più luoghi questo
arduo concetto mediante la metafora della «radura» (Lichtung, o più estesamente Waldlichtung)[17].
Come la radura di un bosco è un luogo privo di alberi, in cui può penetrare la
luce e le cose darsi alla vista, così la verità è un’«apertura», nella quale lo
sguardo dell’Esserci può cogliere l’essere (equivalente della luce) dell’ente.
Così intesa, la verità non è un oggetto
della conoscenza, che possa essere formulato dal linguaggio o sperimentato in
un’estasi mistica, bensì il luogo in cui l’Esserci si situa: ha dunque a che
fare con le possibilità più proprie dell’esistenza e, quindi, con la libertà. Perciò
esistono diversi «modi della verità»[18],
che, sebbene non esplicitati in Essere e
tempo, corrispondono ai diversi stadi descritti ne L’essenza della verità durante l’analisi, lì condotta, del mito
della caverna di Platone.
Come nota Heidegger, infatti, Platone
afferma che anche i prigionieri incatenati, che non vedono altro che ombre
proiettate su un muro, scambiandole per la vera realtà delle cose, posseggono «tò alethés»[19];
anche le ombre appartengono alla dimensione della svelatezza, cioè della verità.
Inoltre, nel descrivere il secondo stadio, quando ai prigionieri viene mostrato
ciò che genera le ombre, si dice che questi enti sono «più svelati» e «più
essenti»[20]
e, infine, quando Platone giunge a parlare delle idee, afferma che esse sono
ciò che è «massimamente svelato» (alethinòn, lett. “fatto di svelatezza”) e «massimamente ente» (tò
òntos òn, lett. “ciò
che è ente essentemente”)[21].
Analogamente, per Heidegger è proprio
dell’Esserci lo stare nell’apertura, ma l’ente può mostrarsi «nel modo della parvenza»:
il non-disvelato è una modalità della disvelatezza, che corrisponde a un
presentarsi nascondendosi, a un velare per mezzo di un mostrare, come quando si
mostra un lato per nasconderne un altro o quando si nasconde un nulla dando a
vedere qualcosa[22].
È questo l’equivalente della conoscenza umbratile in Platone, che si
concretizza, nella vita dell’Esserci, nel modo dell’«inautenticità»[23],
in cui dominano «chiacchiera, curiosità ed equivoco»[24].
Allora, scrive Heidegger, «lo scoperto e l’aperto cadono nei modi della
contraffazione e della chiusura»[25].
Soltanto quando l’Esserci «si apre a se
stesso», ossia disvela a sé la sua propria destinazione (Bestimmung)[26],
«scopre» l’ente nel suo essere più proprio. L’esistenza autentica è quindi il
luogo in cui la verità dell’essere si disvela. Non si tratta, però, di una
verità univocamente descrivibile, che possa servire da fondamento per una
precettistica volta a stabilire in che cosa consista un’esistenza «autentica»
in senso morale. L’esperienza della verità non può essere, per Heidegger, il
fondamento di un’etica. Pensare la verità dell’essere significa, infatti, porsi
«prima» della distinzione fra teoria e prassi[27],
poiché la verità riguarda ogni aspetto dell’esistenza umana, sia teoretico sia
pratico. Qual è, allora, il rapporto tra l’Esserci e la verità?
L’Esserci si rapporta alla verità
mediante l’«interpretazione» (Auslegung),
definita da Heidegger come «elaborazione [o “sviluppo”] delle possibilità
progettate nella comprensione»[28].
La verità è l’apertura che rende possibile l’interpretazione, ed è
quest’ultima, propriamente, che disvela l’essere dell’ente. L’interpretazione
presuppone la comprensione da parte dell’Esserci, che, a partire dalla propria
gettatezza (Geworfenheit), «progetta»
(entwerft), cioè «getta avanti a se
stesso» le possibilità che egli stesso è[29].
L’interpretazione è l’elaborazione concettuale di questa comprensione, ossia
l’assunzione consapevole di una delle possibilità aperte. «Il suo compito
primo, durevole e ultimo, è quello di non lasciarsi mai imporre
pre-disponibilità, pre-veggenza e pre-cognizione dal caso o dalle opinioni
comuni, ma di farle emergere dalle cose stesse»[30].
In altre parole, l’interpretazione deve staccarsi dall’anonimia e
dall’«intrasparenza»[31]
del Si – ossia della chiacchiera, dell’equivoco e della curiosità – per
articolare il rapporto tra Esserci ed essere nello spazio aperto dalla verità.
La conoscenza vera, disvelante,
dell’essere dell’ente non è volta a scoprire le qualità essenziali e immutabili
di quest’ultimo, come vorrebbe la metafisica; si tratta piuttosto di
un’interpretazione del senso dell’essere a partire dall’ente progettante.
Perciò può configurarsi come rapporto autentico tanto l’atteggiamento
teoretico, quanto quello pragmatico, così come quello pratico.
Il primo è caratterizzato da
un’astrazione dell’oggetto dalla rete di rimandi che costituisce la
«significatività» del mondo[32],
di modo che esso possa essere considerato nella sua «semplice-presenza» (Vorhandenheit)[33];
così, l’oggetto diviene disponibile per la conoscenza scientifica, che si
esprime in enunciati la cui veridicità può essere espressa nei termini di una
corrispondenza tra la proposizione e lo stato di cose da essa descritto.
L’atteggiamento pragmatico, invece, si
rapporta all’«utilizzabilità» (Zuhandenheit)
degli enti, i quali sono legati tra loro da una serie inestricabile di rimandi.
Ogni utilizzabile, infatti rimanda al suo «appagamento», il quale a sua volta
rimanda a un altro, e ogni totalità di appagatività si rapporta all’Esserci
come all’«in-vista-di-cui» ogni utilizzabile è tale. L’esempio fatto da
Heidegger è quello dell’utilizzabile chiamato «martello», la cui appagatività è
il martellare; a sua volta, il martellare trova il suo appagamento nel
costruire, la cui appagatività è il riparo. La totalità dell’appagatività di un
mezzo (ad esempio, del martello in un’impresa edile) rimanda, infine, a una
possibilità d’essere dell’Esserci, in vista della quale ogni cosa è fatta[34].
L’atteggiamento pratico determina il
rapporto intersoggettivo tra più Esserci e ha la forma dell’«aver cura» (Fürsorge). L’aver cura autentico è un rapporto fra persone
(considerate kantianamente come fini in sé e non come mezzi) tale per cui
ciascuno è aiutato dall’altro a «divenire trasparente nella propria cura [Sorge]
e libero per essa»[35],
ossia a riconoscere e assumere le possibilità proprie, la cui concretizzazione
non dev’essere impedita. Il legame autentico ha un carattere in senso lato
politico, in quanto solo «l’impegnarsi in comune per la medesima causa»
assicura che il legame non sia di tipo strumentale e che fra i diversi
individui non vi sia «diffidenza» o «indifferenza»[36].
L’inautenticità dell’esistenza
dell’Esserci è invece il luogo della distorsione, della falsità, della velatezza.
Per quanto riguarda la conoscenza teoretica, se essa non attinge alla verità
dell’essere, resta dispersa nella «pubblicità» del «Si». Questa, infatti,
«regola innanzi tutto ogni interpretazione del mondo e dell’Esserci, e ha
sempre ragione. E ciò, non sul fondamento di un rapporto eminente e primario
all’essere delle “cose”, non perché essa disponga di un’esplicita e appropriata
trasparenza dell’Esserci, ma per effetto del non approfondimento “delle cose” e
dell’insensibilità a ogni discriminazione di livello e di purezza»[37].
In altre parole, il discorso pubblico descrive accadimenti, utilizzabili,
situazioni, fatti e stati di cose[38]
senza che si giunga a una loro reale conoscenza. La correttezza dell’enunciato
nel discorso pubblico è accettata con passività e leggerezza, ma si tratta di
un discorso che livella e occulta le possibilità autentiche dell’esistenza
dell’Esserci.
Nel suo rapporto con gli utilizzabili
intramondani, l’Esserci vive inautenticamente, ossia senza verità, quando
l’in-vista-di-cui non è più l’Esserci, ma uno scopo a esso estrinseco, come il
dominio o il profitto. La tecnica moderna, come Heidegger l’ha descritta, opera
nel modo della pro-vocazione (Herausfordern),
nel senso che si rapporta alla natura considerandola meramente come «fondo»,
come ciò che è «impiegabile». Ma l’Esserci stesso assume,
nell’impianto-imposizione della tecnica (Ge-stell),
il carattere di un «fondo» impiegabile, sicché gli strumenti non possono più
essere considerati come «mezzi» di un’opera compiuta in-vista dell’utilità
umana. La tecnica ha preso il sopravvento su ogni possibile controllo da parte
dell’uomo, privandolo di ogni libertà e perciò di ogni autentico rapporto con
l’ente[39].
Infine, possiamo dire che
l’inautenticità nella sfera della prassi consiste nella «deficienza» e nella
«indifferenza» che «caratterizzano l’essere-assieme quotidiano e medio», ma
anche nell’ostilità reciproca («l’uno contro l’altro») o in quella forma
«estrema» dell’aver-cura che è il «dominio» e che consiste nel sostituirsi
all’altro nel «prendersi cura» (Besorgen),
ossia nel progettare le sue possibilità[40].
Rapportarsi alla verità mediante
l’interpretazione significa dunque esistere autenticamente, cor-rispondendo al
destino (Ge-schick) dell’essere,
«perché, conformemente a questo destino, egli [l’Esserci], in quanto è colui
che e-siste, ha da custodire la verità dell’essere»[41].
Interpretare è quindi anche rapportarsi consapevolmente al momento storico in
cui si è gettati, sfruttando la capacità di discernimento (phronesis)[42]
per distinguere ciò che è svelato da ciò che resta nella velatezza o che si dà
nel modo della parvenza, in modo da lottare «contro la parvenza e la contraffazione»[43].
Questa lotta si configura come un
tentativo, da parte di colui – il filosofo – che si rapporta con libertà
all’essere dell’ente, di «liberare» con forza coloro che restano imbrigliati
nella «imperante ovvietà» del Si. Infatti, «la svelatezza accade solo
nella storia della continua liberazione». Ma, restando fedele
all’immagine del liberatore platonico, che afferra i prigionieri singolarmente,
cercando di condurli fuori dalla caverna, Heidegger afferma che il filosofo non
può nulla contro la chiacchiera predominante, e può quindi soltanto cercare di
portare un piccolo gruppo di persone alla luce dell’essere[44].
La filosofia heideggeriana ha perciò un
carattere fortemente elitario, che può fare il paio con una politica
antidemocratica o, comunque, conservatrice, poiché considera le masse incapaci
di attingere a qualunque verità e, dunque, di pervenire alla liberazione. A
questo aspetto della filosofia heideggeriana ha giustamente rivolto la sua
critica Lukács, notando come il «Si» venga inteso da Heidegger come un male
necessario dell'esistenza sociale dell'uomo e come conseguenza di questo non possa
che essere il catalogare la storia reale degli uomini come «storia impropria»,
in quanto la «storia propria» viene a essere intesa sulla base soggettivista
dell'Esserci, sulla sua esistenza come «nesso della vita fra la nascita e la
morte»[45]. La storia collettiva appare
piuttosto come un «cumulo di rovine»[46],
in cui non si dà alcuna speranza di salvezza. Nell’epoca della tecnica, sembra
suggerire Heidegger, soltanto l’arte e, in special modo, la poesia, possono
«custodire la disvelatezza e con essa sempre anzitutto l'esser nascosto di ogni
essenza su questa terra»[47].
L’esito di questa riflessione è perciò un vago appello a «preparare nel pensare
e nel poetare, una disponibilità all'apparizione del Dio o all'assenza del Dio
nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo)»,
perché «ormai solo un Dio ci può salvare»[48].
3. «Da Heidegger a Marx»: la filosofia della prassi di Gianni Vattimo
La filosofia di Gianni Vattimo si
richiama esplicitamente a Heidegger, ma, superando il suo pensiero a
«sinistra», cerca, soprattutto nelle opere più recenti, di recuperare
all’ermeneutica quella dimensione rivoluzionaria che era stata propria del
marxismo, rifiutando quindi l’esito elitario e antidemocratico, nonché
misticheggiante, della riflessione heideggeriana.
Uno dei concetti che assume una
rilevanza centrale nel pensiero di Vattimo è quello di «storia dell’essere»,
che equivale alla storia della metafisica come lungo oblio dell’essere, del
quale, alla fine, «non ne è nulla». L’esito del pensiero metafisico, sarebbe,
infatti, il dominio della tecnica intesa come Ge-stell, in cui tutto è ridotto a ente semplicemente-presente ed
esposto alla possibilità di calcolo, sicché la realtà presente viene a
sopprimere qualsiasi possibilità, in una soffocante massificazione ed
eternizzazione del presente. Pensare la differenza ontologica, ossia
rammemorare l’essere, significa dunque ancorarsi a una possibilità di salvezza.
Vattimo sostiene che la storia
dell’essere è mossa da una «paradossale teleologia asintoticamente diretta
verso un niente»[49],
nel senso che essa tende verso un nichilismo che non va superato, ma assunto
come destino cui cor-rispondere e di cui cogliere tutte le possibilità
emancipative. L’essere obliato, dunque, non va riportato alla sua presunta dimensione
autentica: tale dimensione non si dà più; va piuttosto pensato come «evento» in
grado di mettere in discussione la realtà presente, sconvolgendo i paradigmi di
pensiero e di esistenza attuali. Tale evento dell’essere non è un fatto di cui
solo il filosofo può essere consapevole e che possa essere soltanto atteso, ma
è una possibilità concreta e reale, anche per le masse di oppressi in cerca di
giustizia.
La metafisica – per Vattimo – ha sempre
un carattere «violento», in quanto, obliando l’essere, ne dimentica (o
nasconde, vela) anche la storia. Essa perciò impone una verità (una contingente
apertura dell’essere) come l’unica ed eterna verità, e organizza la totalità
dell’essere (ricondotta a somma di enti) secondo un piano di dominio.
L’organizzazione totale è necessariamente il piano di un potere in qualche modo
oppressivo, perché la libertà autentica richiederebbe esattamente la
soppressione della verità metafisicamente intesa.
La rammemorazione dell’essere va perciò
intesa come riapertura di possibilità soppresse. È significativo che, in
numerosi scritti recenti, Vattimo metta in relazione la rammemorazione
heideggeriana con l’idea benjaminiana del rapporto redentivo del presente con
il passato: «il silenzio che la metafisica ci impedisce di ascoltare non è
altro […] che il silenzio dei vinti di cui parla Benjamin»[50].
Il riferimento vattimiano è sempre alla XII tesi Sul concetto di storia, là dove Benjamin sostiene che l’azione
rivoluzionaria deve ispirarsi «all’immagine degli avi asserviti e non
all’ideale dei liberi nipoti»[51].
Questa affermazione benjaminiana assume
nel discorso di Vattimo tre significati, non sempre espliciti ma sicuramente
presenti. In primo luogo rivolgersi al passato, anziché all’ideale di una
società futura, significa evitare la pretesa di condurre l’azione
rivoluzionaria sotto la bandiera dell’assoluta verità dell’essere, ossia
lottare senza la volontà di imporre una specifica e parziale visione storica a
tutta la società futura. Accanto a Benjamin, in uno dei suoi saggi Vattimo cita
infatti Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»[52].
In secondo luogo, come per Benjamin sottrarre all’oblio la storia dei vinti
significa mettere in discussione la storia ufficiale, quella narrata dai
vincitori, in cui il presente figura come esito necessario, così per Vattimo
questo significa rifiutare l’«identificazione dell’Essere con l’ordine attuale
dell’ente»[53].
Infine, rammemorare il passato significa porre mente alle possibilità non
realizzate della storia, ma che, proprio in quanto possibilità, possono essere
riaperte dall’azione presente.
Con questo richiamo a Benjamin, Vattimo
compie un avvicinamento dell’ermeneutica «alla filosofia della prassi, cioè al
marxismo come lo chiamava Gramsci»[54].
Anzi, l’ermeneutica si viene a configurare come «la radicalizzazione
antimetafisica del marxismo»[55],
superando quel residuo positivista – e metafisico – ancora presente in esso, cioè
la concezione della storia come processo necessario, scandito da salti
dialettici (non a caso, anche Benjamin era un fiero oppositore di questa
concezione). La rivoluzione, la società più giusta, non è l’esito necessario
della storia, né l’avvento in terra di una verità definitiva che porrebbe fine
alla storia stessa; è, bensì, evento dell’essere, che rifiuta ogni stabilità e
perentorietà. Questo significa che l’unico principio su cui potrà fondarsi una
società libera è la «volontà comune»[56].
La verità viene dunque a essere intesa
come apertura di un orizzonte storico e contingente. Come l’Esserci si pone
nella verità progettandosi autenticamente, cioè assumendo la consapevolezza
della sua storicità, del suo essere-per-la-morte, così un’epoca (un gruppo, uno
stato) appartiene alla verità se assume con consapevolezza la mortalità, ossia
la storicità, dell’essere stesso, inteso non più metafisicamente, ma come
negazione della perentorietà del reale.
Ogni evento «dà luogo a una fondazione»[57]
senza essere a sua volta fondato su alcunché. In altre parole, l’evento pone in
essere una verità, senza che sia possibile valutare la verità dell’evento
stesso. Come scrive lo stesso Vattimo, «sembra che sia in gioco soltanto la
riuscita, il successo storico. […] La rivoluzione riesce se davvero si afferma,
se dà luogo a istituzioni che incontrano la partecipazione di molti»[58].
Ma, del resto, non si può fondare una politica sulla verità, perché questa
equivale a una politica di potenza e autorità, richiedendo «filosofi, comitati
centrali, pontefici»[59],
esperti di questa verità stessa.
Questa conclusione ribalta di 180 gradi
il pensiero di Heidegger[60].
Sembra infatti che per il filosofo tedesco fossero soltanto le élite intellettuali a essere investite
del compito di superare il pensiero metafisico e quindi, eventualmente, di
porsi a guida di un rinnovamento. Al contrario, le masse sono vittime e insieme
artefici della distorsione della verità, della prostituzione del suo concetto
nella pubblicità media e impersonale del Si. Esse non sono in grado di porsi in
ascolto dell’essere e di comprenderne l’eventualità. Il silenzio di Heidegger
circa i temi politici non sembra tanto motivato, come vorrebbe Vattimo, dalla
volontà di non compromettersi ulteriormente in seguito alla nefasta adesione al
nazismo, quanto piuttosto da una totale mancanza di fiducia nelle masse e nella
possibilità, per il filosofo, di rivolgersi a esse.
Per il filosofo torinese è l’opposto: le
élite dominanti sono tali proprio
perché impongono una visione metafisica della verità e sono del tutto incapaci
– o, quantomeno, privi della volontà politica necessaria – di assumere
autenticamente la storicità dell’essere e di comprenderne l’eventualità.
D’altra parte, sono le masse ad avere la capacità di mettere in discussione il
presente e di determinare l’avvento di un nuovo «paradigma» storico, culturale
e politico.
Tuttavia, se la conclusione
heideggeriana risulta inaccettabile per il suo elitarismo, che chiude il
filosofo in una torre d’avorio o – per usare una metafora tratta da Lukács –
nel «Grand Hotel dell’Abisso», l’esito della riflessione vattimiana è del pari
inaccettabile, perché corrisponde a una riduzione della filosofia a politica.
Dichiarare la «fine della filosofia» significa privarsi della possibilità di
considerare la politica con distanza critica, a partire, appunto, dalla
filosofia. Il discorso politico, privo del sostegno della verità, si riduce a
ideologia, com’è noto dai tempi della critica di Platone ai sofisti. Se non
esiste alcun criterio di verità, ma, pragmatisticamente, si considera vero ciò
ha successo nella storia, la politica resta esposta all’arbitrio delle
maggioranze, le quali, peraltro, non si formano in seguito a un dialogo
trasparente fra posizioni avverse, ma in seguito a processi di manipolazione e
convincimento che non hanno nulla a che fare con la «metafisica». Non si può
sostenere che l’idea di verità della metafisica tradizionale sia equivalente al
tentativo, da parte dei sofisti di ogni tempo, di imporre il proprio ristretto
interesse, per la semplice ragione che la metafisica nasce proprio in opposizione alla sofistica.
L’idea di verità della metafisica è
tanto incriminata quanto il discorso utilitarista e pragmatico: sulla base di
entrambi sono stati compiuti nella storia numerosi crimini e misfatti. Non c’è
nulla che giustifichi l’abbandono della nozione di verità (e dunque della
filosofia) più di quanto non sia giustificata la rinuncia a qualsiasi politica.
Occorre piuttosto riconoscere che si tratta di due dimensioni parimenti
fondamentali per l’essere umano e che è proprio l’identificazione delle due
(sia nella forma dell’imposizione metafisica, sia in quella dell’equivalenza
che riduce la filosofia a sofistica) a essere nefasta.
Occorre allora andare alla ricerca di
un’idea di verità che non sia né totalizzante (come nel caso della metafisica
oggettivistica), né elitaria (come in Heidegger), né nichilista (come è per
Vattimo).
All’inizio della sua opera maggiore,
Gadamer richiama la validità di alcuni concetti appartenenti alla tradizione
umanistica, distanziandosi fin da subito, con questo gesto, dall’elitarismo
heideggeriano. Il primo di questi concetti è Bildung (formazione, paideia,
cultura), che è definita come «innalzamento all’universalità» (Erhebung zur Allgemeinheit).
L’individuo, infatti, essendo inserito in un contesto intersoggettivo plasmato
dalle forme dello spirito, ha il «compito» di sacrificare la propria
«particolarità», elevandosi all’universalità[61].
L’uomo giunge alla coscienza
dell’universale mediante la disciplina dei propri appetiti istintivi. La
necessità di controllarli deriva dalla presenza di altri esseri liberi, la cui
comunità esige che lo scopo della propria azione non sia esclusivo e
particolare, ma inclusivo e universale. La Bildung
della coscienza comincia quindi nell’incontro con l’altro e mediante il
riconoscimento reciproco (questo il significato della dialettica servo-padrone
nella Fenomenologia hegeliana, qui
richiamata da Gadamer): «Riconoscere il proprio nell’estraneo, familiarizzarsi
con esso, è questo il movimento essenziale dello spirito, il cui essere
consiste esclusivamente nel ritornare a sé dall’altro»[62].
L’universalità qui in questione non è
astratta e astorica, ma è quella che la tradizione umanistica nomina con
l’espressione «sensus communis» e che
è, appunto, gebildet, formata dalla
cultura. Gadamer richiama Vico, per il quale ciò che qui è importante è
«l’universalità concreta che costituisce l’unità comune di un gruppo, di un
popolo, di una nazione o di tutto il genere umano»[63].
Su questo senso comune, che ha rilevanza estetica e soprattutto etica, si fonda
quella virtù che Aristotele designava con il termine phronesis, cioè la capacità di sussumere ogni situazione concreta
sotto l’universale, cioè di scegliere di volta in volta il mezzo corretto per
giungere al fine buono dell’azione (Aristotele parla a questo proposito di
«verità pratica»[64]).
Non si tratta di applicare al caso singolo una regola ben definita; ogni
esperienza serve a determinare la regola stessa e l’universalità non è che la
caratteristica formale del fine.
Allo stesso modo, la verità non è un
oggetto astratto, conoscibile nella sua totalità in modo definitivo, ma è
piuttosto legata al caso particolare, alla situazione storica; ha sempre a che
fare con un interesse, non nel senso di una volontà di potenza occultata sotto
la maschera della verità, ma nel senso per cui ogni esperienza interessa chi ne
è coinvolto, semplicemente perché lo riguarda e può cambiare la sua vita.
L’«autentico evento ermeneutico» implica che la parola che ci giunge da
un’alterità «ci tocca direttamente, come una parola che si rivolga
specificamente a noi»[65].
Perciò un oggetto storico, artistico, o di qualunque altro genere, si dà nella
sua verità soltanto nel momento dell’applicatio
al caso specifico.
Nell’ermeneutica teologica e giuridica
questa è intesa come l’instaurazione, mediante l’atto interpretativo, di una
relazione tra il testo e un caso concreto. Analogamente, ogni atto di
comprensione corrisponde a un’applicazione di qualcosa di universale a una
specifica situazione[66].
Ma, come nel caso della phronesis non
si tratta di comportarsi sulla base di una regola prestabilita, così nel caso
della comprensione non si tratta di applicare al concreto qualcosa che prima
possa essere afferrato nella sua autonomia; comprensione e applicazione,
universale e particolare, sono indisgiungibili nel loro manifestarsi.
L’interprete, infatti, «non può proporsi di prescindere da se stesso e dalla
concreta situazione ermeneutica nella quale si trova». Se vuole comprendere il
suo oggetto, «deve metterlo in rapporto proprio con questa situazione»[67].
Un esempio di che cosa questo rapporto
con la situazione abbia a che fare con la verità può essere rinvenuto nella
teoria estetica che Gadamer elabora nella prima parte di Verità e metodo. L’esperienza estetica, infatti, «implica un
comprendere»[68],
e dunque una applicatio ermeneutica.
Il filosofo si serve del concetto di gioco per illustrare l’ontologia
dell’opera d’arte. Il primo assunto fondamentale è che, nel gioco, il soggetto
– sub-jectum, ciò che sta sotto,
«quello che permane e dura»[69]
– non è il giocatore, ma il gioco stesso, sicché «ogni giocare è un
esser-giocato»[70].
Infatti, l’atto del giocare, che pone in essere il gioco, cancella l’identità dell’individuo,
facendone un puro giocatore, inserito in un mondo nuovo, «diverso, chiuso in sé
stesso»[71].
Per descrivere questo processo Gadamer
introduce il concetto di «trasmutazione in forma»[72],
che descrive un processo tale per cui qualcosa, nella sua totalità, diviene
qualcosa d’altro, negando completamente la sua origine; il fatto che la
trasmutazione si compia in una forma significa che il suo risultato è
ontologicamente autonomo e non ha bisogno di essere confrontato con qualcosa di
esterno, rispetto al quale possa essere considerato adeguato[73].
Il senso di tale trasmutazione del reale
è che in essa «viene tratto in luce ciò che altrimenti sempre si sottrae e si
cela»[74].
Il lessico qui impiegato da Gadamer rimanda naturalmente alla semantica dell’alétheia su cui Heidegger ha tanto
insistito e indica che l’esperienza dell’arte è esperienza di verità. L’arte
fornisce una rappresentazione del reale tale da fornirci di esso una visione
inedita, che ci permette di coglierne l’essenza, in modo che «l’essere della
rappresentazione (Darstellung) è più
che l’essere del materiale rappresentato».
Lo «scarto ontologico»[75]
che si determina tra il reale e la sua trasmutazione è dato dal rapporto dell’opera
con lo spettatore, il riferimento al quale è indispensabile al compimento del
significato dell’opera stessa[76].
La verità è tale, dunque, perché rimanda a colui che la esperisce, senza il
quale, come già per Heidegger, la verità non si darebbe. Questo rimando, del
resto, come ha scritto Gaetano Chiurazzi, «costituisce per l’ermeneutica il
presupposto di ogni verità»[77].
La teoria gadameriana della verità dell’arte vuole significare essenzialmente
che, «con la verità, la realtà si arricchisce della dimensione “coscienziale”,
intendendo con questo il fatto che, in essa, si manifesta un sapere, si
ri-conosce qualcosa»[78].
Questo rapporto si dà mediante l’applicatio interpretativa, che rapporta
l’opera al tempo della sua fruizione. Per questo Gadamer impiega il termine Darstellung per indicare la
«rappresentazione» (così traduce Vattimo), aggiungendo che essa «va
riconosciuta come il modo di essere dell’opera d’arte in quanto tale». La Darstellung è tale solo nel momento in
cui si dà, così come il gioco non è l’insieme delle regole, ma è l’atto stesso
del giocare. Ciò appare nel modo più chiaro nel caso di quelle arti, come il
teatro e soprattutto la musica, le cui opere non si danno al di fuori della
loro esecuzione, la quale è sempre anche interpretazione. L’opera non esiste
come ente semplicemente-presente, ma dev’essere sempre interpretata, da chi la
esegue quanto da chi ne fruisce.
Se ogni Darstellung è una trasmutazione in forma e implica un rapporto con
uno spettatore temporalmente situato, ciò significa che l’opera d’arte è tale
da avere il suo essere «solo nel divenire e nel ricorrere»[79].
Questo non va però inteso come un’insufficienza, una mancanza di senso
autonomo. Il rapporto allo spettatore è ontologicamente parte dell’essere
dell’opera, che altrimenti sarebbe pura traccia di un passato remoto, senza alcuna
relazione con il nostro mondo. Rendere l’opera contemporanea è perciò il
compito dell’interprete, il quale deve sforzarsi di superare ogni mediazione
per far pervenire l’opera a «una totale presenzialità»[80].
Il tentativo di comprendere l’opera
d’arte come oggetto da indagare mediante un metodo storico-scientifico, anziché
come evento di verità, impedisce di stabilire con essa quel rapporto vitale che
può darsi solo con la messa in atto della Darstellung.
Il rapporto storiografico si situa piuttosto sul piano della Vorstellung[81],
nel senso lo storico «pone» (stellt)
l’opera «dinanzi» (vor) a sé come un
oggetto semplicemente-presente (vorhanden),
recidendo ogni rapporto di senso.
Ma in che modo ciò che è esperito
nell’evento ermeneutico ha il carattere dell’universalità? Per comprenderlo è
necessario fare riferimento alla nozione di «classico». Ciò che è considerato
tale e tramandato storicamente da una tradizione è riconosciuto come «vero» e
sottoposto a una «sempre rinnovata verifica»[82],
la quale consiste nella possibilità stessa di renderne contemporaneo il
contenuto. Il classico è tale, ed è «vero», solo perché e fino a quando è
passibile di sempre nuove interpretazioni, proprio perché l’interpretazione è
il luogo del darsi della verità. Universale, quindi, è ciò che si presta a
infinite particolarizzazioni, così come il bene, in Aristotele, si offre a
infiniti casi concreti.
Questo tipo di universalità è stato
definito da Chiurazzi «intensionale»[83].
Secondo la logica formale, un concetto è tanto più universale quanto più a esso
corrisponde una maggiore estensione e, con proporzionalità inversa, una minore
intensione. Ciò significa che l’universalità viene intesa come la qualità del
concetto che fa astrazione, cioè prescinde, dalle differenze qualitative dei
particolari sussunti, offrendo l’immagine delle caratteristiche comuni a tutti.
L’universalità intensionale è invece propria del concetto che racchiude in sé
tutte le differenze, aprendosi così a una molteplicità di possibili
interpretazioni.
Si tratta di una concezione della verità
che non è elitaria, poiché valorizza l’esperienza di ciascuno, né violenta, in
quanto impedisce di comprendere l’universalità del vero come esauribile in
singole interpretazioni e perciò permette di pensare al dialogo, al confronto e
all’inclusione dell’altro, come mezzi positivi per arricchire l’intensionalità
del vero[84].
Infine, non vi è alcun motivo nichilistico, poiché l’interpretazione non può
essere condotta arbitrariamente. Per essere autentica, essa deve lasciar-essere
l’opera nel suo darsi, così come il giocatore non ha facoltà di stravolgere il
gioco, ma dev’essere «giocato» da esso. Nel fare questo, l’interpretazione si
inserisce sempre all’interno di una tradizione, con la quale deve fare (anche
criticamente) i conti, e che perciò assume un carattere normativo[85].
Tuttavia anche questa impostazione non è
esente da difficoltà. Non esiste, infatti, un’unica tradizione, non soltanto
perché esistono culture diverse[86],
ma anche all’interno di una stessa cultura. Si tratta di tradizioni rivali e
incommensurabili, alla base di un dibattito che non può giungere ad alcun esito
razionalmente accettabile se non si comprendono le ragioni delle differenze e i
criteri in base ai quali una tradizione può essere giudicata superiore a
un’altra[87].
Gadamer sembra dare per scontato che esista un elemento di verità in qualsiasi
tradizione, e ciò sarebbe garantito dalla sua stessa permanenza nel tempo. Il
fatto che, ad esempio, un «classico» continui a parlare ai suoi lettori, non è
un criterio sufficiente di verità, perché nulla impedisce che vi sia una
tradizione legata - per fare un esempio estremo - al Mein Kampf di Hitler, ma è difficile ammettere che tale opera
contenga una verità. Tuttavia, se si nega ciò, resta indicato da Gadamer
soltanto quando il processo interpretativo si rapporta con verità all’oggetto,
e non quando l’oggetto, di per sé, è vero. Probabilmente, del resto, lo scopo
di Verità e metodo, che a che fare
con l’epistemologia delle scienze dello spirito, era proprio quest’ultimo.
Se per Gadamer la verità si dà nell’atto
interpretativo che pone in relazione un soggetto con un’alterità, per Pareyson
il testo, l’opera d’arte, il discorso sono già esse stesse interpretazione
della verità. In quest’ottica, l’interpretazione è un fenomeno originario, nel
senso che «qualifica quel rapporto con l’essere in cui risiede l’essere stesso
dell’uomo»[88].
Ogni opera dello spirito umano può
essere, per Pareyson, o espressiva o rivelativa. Nel primo caso «la storicità
esaurisce l’essenza stessa del pensiero»[89],
in quanto ciò che viene a espressione è unicamente la situazione storica
contingente; si tratta, dunque, di ideologia. Il pensiero rivelativo nasce
anch’esso in peculiari circostanze di cui è inevitabilmente espressione; tuttavia,
il suo significato appare come inesauribile, proprio perché è rivelazione di
verità. Quest’ultima non può essere oggettivata, conosciuta nella sua totalità
e formulata in un insieme compiuto di proposizioni. Essa si dà alla storia e si
rivela in quelle formulazioni che non si riducono alla loro storicità, ma
lasciano aperto lo spazio della comprensione e dell’interpretazione.
Ma il pensiero rivelativo, in quanto
manifestazione della verità, è già esso stesso interpretazione e proprio per
questo dà origine a una tradizione interpretativa, che non si costituisce tanto
come sempre rinnovata riattualizzazione del testo, bensì come sempre rinnovata
manifestazione della verità, che nel testo si è rivelata. «All’interpretazione
della verità – scrive Pareyson – è necessariamente
legata la possibilità di una tradizione: infatti l’interpretazione dà una
formulazione della verità, ma la possiede come inesauribile; […] l’incessante
approfondimento che essa sollecita collega lo svolgimento delle possibilità
attuali non solo col patrimonio delle possibilità già svolte, ma con la fonte
stessa delle infinite possibilità»[90].
L’opera autentica è interpretazione
della verità, mentre ciò che risulta essere mera espressione del tempo storico
«non merita […] il nome di interpretazione»[91].
Perciò, la comprensione del pensiero espressivo – potremmo dire: dell’opera
inautentica – non può essere attuata mediante una tradizione interpretativa, ma
richiede un processo di «smascheramento»[92]
del significato nascosto dietro il discorso esplicito. Si tratta dunque di
risalire alle condizioni storiche che hanno originato tale pensiero[93],
proprio perché nient’altro si trova in esso, seppure in forma ideologicamente
distorta.
La differenza tra Gadamer e Pareyson
emerge proprio là dove essi utilizzano lo stesso esempio per parlare di verità,
ossia quello della Darstellung dell’opera
d’arte[94].
Conviene dunque riportare per esteso un paragrafo di Pareyson:
E come l’opera, lungi dal
dissolversi in una molteplicità di esecuzioni arbitrarie, rimane identica a sé
stessa nell’atto che si consegna a ciascuno di quelle che sappiano renderla e
farla vivere, e queste esecuzioni sempre nuove e diverse, lungi dall’essere
mere approssimazioni o semplici riverberi d’un’unica esecuzione che si pretenda
ottima ed esemplare, sono la vita stessa dell’opera, cioè l’opera in quanto
parla a tutti nella maniera in cui ciascuno sa meglio intenderla; così la
verità, lungi dal disperdersi nelle proprie formulazioni, ne alimenta essa
stessa la pluralità, conservandosi unica e identica proprio in quanto s’incarna
in ciascuna di quelle che sappiano coglierla e rivelarla, e queste sue
formulazioni storiche e molteplici, lungi dal rinunciare alla verità
intemporale e unica, con la sottintesa e assurda nostalgia per una formulazione
unica e perfetta, sono piuttosto l’avvento temporale della verità, cioè la
verità parlante a tutti, ma a ciascuno nel suo personale e irripetibile
linguaggio.[95]
Si potrebbe segnalare la differenza tra
i due autori mediante due formule: mentre Pareyson vuole mettere in luce che
ogni opera autentica si configura come interpretazione
della verità, la preoccupazione di Gadamer sarebbe piuttosto quella di
affermare la verità dell’interpretazione.
Il filosofo tedesco resta legato alla concezione della verità come corrispondenza,
dalla quale vuol prendere le distanze; egli, infatti, non fa che sostituire
l’idea per cui la verità sia una qualità possibile dell’enunciato con quella
per cui essa è una qualità possibile dell’interpretazione. Per Pareyson,
invece, la verità è l’essere stesso, perciò essa è ontologicamente antecedente
a qualsiasi formulazione. In altre parole, mentre Gadamer è un pensatore
post-metafisico, Pareyson recupera l’eredità dell’idealismo tedesco.
Possiamo rintracciare, infatti, alla
base del discorso del filosofo italiano, una metafisica di stampo fichtiano,
che non ha nulla a che fare con la metafisica oggettivistica e potenzialmente
violenta, criticata da Vattimo. Nel pensiero del cosiddetto «secondo» Fichte,
la verità, ovvero l’essere, viene intesa come il non-essere del sapere; vi è
dunque una verità in sé, che risulta inconoscibile. Essere e verità sono
infatti sinonimi dell’assoluto, che in quanto tale è la negazione del finito, e
poiché il sapere è di pertinenza dell’uomo, in esso non si può dare l’assoluto.
Perciò Fichte scrive (secondo la traduzione italiana che, non a caso, è di
Pareyson) che «il fondamento della verità non si trova certo nella coscienza,
bensì esclusivamente nella verità stessa; dalla verità tu devi dunque sempre
defalcare la coscienza in quanto questa non importa per nulla a quella»[96].
Ciò non significa che la verità sia inaccessibile
alla coscienza, ma che essa non può mai essere esaurita dal sapere, il quale è
«fenomeno esteriore della verità»[97],
manifestazione dell’essere alla coscienza. Vi è una relazione dialettica fra
verità e coscienza, molto simile a quella rintracciata da Heidegger, per cui
nel momento in cui vi è il sapere, allora si dà anche la verità, la quale, a
sua volta, non può darsi che nel sapere. Poiché il sapere è manifestazione
dell’assoluto, esso rimanda all’essere inesauribile, di cui ogni sapere è
fenomeno. Allo stesso modo, per Pareyson, l’essere è l’inesauribile[98]
che eccede ogni interpretazione, sollecitando perciò stesso la pluralità dei
punti di vista e l’instaurarsi delle tradizioni, secondo un concetto ancora una
volta intensionale di universalità.
Pareyson, come Heidegger, rivendica l’estraneità
del proprio pensiero alla dicotomia fra teoria e prassi, ponendosi a un livello
ontologicamente «più profondo e più originario». Originario è, infatti, il
rapporto tra persona ed essere, sicché la verità dev’essere intesa come «la
radice e la norma originaria» tanto della teoria quanto della prassi, le quali,
senza rapporto alla verità, si riducono a «tecnica»[99],
cioè a strumenti della produzione o della lotta ideologica per il predominio.
Proprio perché il pensiero e la prassi sono così ridotti a strumento, essi
figurano come mera espressione del proprio tempo storico; essi sono «strumento
dell’azione in quanto specchio della situazione»[100].
È in riferimento a queste considerazioni
che sopra si è mossa la critica al nichilismo di Vattimo, che consapevolmente
abbandona ogni legame con la verità e crede di legittimarsi affermando di
essere espressione adeguata del proprio tempo[101].
Il pensiero debole si propone esplicitamente, con un tono pragmatico e
strumentale, come «pensiero dei deboli», sicché la Verwindung della metafisica perseguita quale compito del pensiero,
risulta essere una riduzione del pensiero a ideologia. Al contrario Pareyson rivendica
il «carattere speculativo della filosofia, il quale si può sostenere solo con
l’abbandono della metafisica ontica e oggettiva, con l’affermazione
dell’inoggettivabilità della verità, col riconoscimento dell’indivisibilità di
rivelazione ed espressione»[102].
L’ermeneutica pareysoniana è perciò
esente tanto dai limiti del nichilismo, quanto dalle eccessive pretese della metafisica
oggettiva. Essa si distanzia anche da ogni elitarismo, in quanto basata su un
legame fichtiano tra soggettività e assoluto, secondo il quale ogni persona può
vivere nella verità, purché riconosca la sua autentica natura, che è sempre
anche un compito morale (la fichtiana Bestimmung
des Menschen ha entrambi questi significati).
Raccogliendo il richiamo a Fichte,
cerchiamo ora di delineare la dimensione comunitaria della verità, nella
convinzione (già espressa) che l’individuo da solo non possa giungervi. Com’è
noto, la filosofia fichtiana ha il suo perno sulla soggettività libera. Nel Diritto naturale e nel Sistema di etica, tuttavia, il filosofo
si trova a dover affrontare la contraddizione per cui il soggetto non può porsi
come libero senza aver fatto esperienza della libertà, ma d’altra parte non può
far esperienza della libertà senza già essersi posto come libero. Tale
contraddizione può essere risolta soltanto ammettendo che il soggetto è
determinato dall’esterno alla libertà; ma poiché questa determinazione non può
avere il carattere della necessità (altrimenti la libertà sarebbe soppressa e
si cadrebbe in una nuova contraddizione), si deve ammettere che essa è un
«invito», un’esortazione (Aufforderung)
alla libertà. Ulteriore conseguenza di questo ragionamento è che la fonte di
questa esortazione deve avere un concetto della libertà e perciò deve trattarsi
di una soggettività libera, quindi di un altro uomo.
Così Fichte spiega filosoficamente il
fenomeno dell’intersoggettività, concludendo che «il concetto dell’uomo è così
null’affatto concetto di un singolo, giacché un singolo è impensabile, ma di
una specie» e chiarendo che «l’invito alla libera autoattività è ciò che si
chiama educazione. Tutti gli individui debbono essere educati a uomini,
altrimenti non diventerebbero uomini»[103].
Nel Sistema di etica questo assume un
significato morale, poiché dal fatto che la libertà del singolo è condizionata
necessariamente dalla libertà dell’altro, è fatto coerentemente derivare
l’imperativo di non sopprimere la libertà altrui, perché in tal modo si
annienterebbe la condizione della propria stessa libertà[104].
L’appello alla libertà che è rivolto
dall’uomo all’uomo corrisponde a una sollecitazione a scoprire la propria
autentica Bestimmung, cioè una vita
che attinga all’essere quale fonte della verità per seguirne i dettami tanto
nella conoscenza quanto nella pratica. In altre parole, l’invito alla libertà
da parte dell’altro è la prima manifestazione della verità, in quanto fonte di
comprensione del legame ontologico che lega la persona all’essere. Di
conseguenza, l’esperienza della verità implica il rispetto dell’alterità, in
base al riconoscimento che la dignità e il compito propri della persona, come
ha scritto Pareyson, consistono «nel farsi ascoltatrice della verità»[105].
Per Fichte l’uomo «è destinato (bestimmt) alla società»[106].
E la destinazione dell’uomo in società è «un avanzamento comunitario, un
avanzamento di noi stessi in virtù dell’uso del libero operare degli altri su
di noi, e un avanzamento degli altri tramite l’incidenza del nostro operare su
di essi come enti liberi»[107].
La verità di un pensiero, di un’azione o
di un’intera tradizione è perciò saggiata dal rispetto che questa mantiene nei
confronti della libertà altrui. Il filosofo, perciò, è colui che,
socraticamente, mette in discussione la parzialità delle opinioni per far
emergere l’interesse autentico della comunità, mentre l’ideologo, il sofista, è
colui che spaccia per interesse pubblico ciò che in realtà è un interesse
privato. Come ha intuito Costanzo Preve, l’opposizione tra verità e relativismo
ha proprio qui la sua origine e il suo significato; la verità è «funzione della
riproduzione pubblica», cioè della buona vita (eu zen) del collettivo, mentre il relativismo è «funzione degli
interessi privati»[108].
Perciò, come si diceva nell’Introduzione, la verità assume un significato
primariamente pratico, regolando la convivenza umana, e solo su questa base si
può stabilire quando in generale un pensiero o un’azione sono manifestazione di
verità. Ciò non significa, naturalmente, né che la comunità abbia la
prerogativa di giungere a un possesso definitivo e compiuto della verità, né
che essa debba tenere lontano da sé tutto ciò che risulta non conforme al vero.
Come l’ermeneutica filosofica insegna, la verità è inesauribile e si dà
soltanto nell’interpretazione, perciò ogni voce è degna di essere accolta in
dialogo. Ciò che qui si intende mettere in discussione è unicamente il
carattere privato dell’esperienza della verità, per proporre l’abbozzo di una
teoria della verità che non sia né violenta, né elitaria, né nichilistica, ma
pluralista, umanista e positiva, in grado di rendere conto anche della
dimensione sociale dell’esistenza.
[1] M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», a cura di F.
Volpi, Adelphi, Milano 1995, p. 56.
[2] Id., L’essenza della verità, a cura di F.
Volpi, Adelphi, Milano 1997, p. 91.
[3] Cfr. G.
Chiurazzi, L’esperienza della verità,
Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 51-53; M. Heidegger, Essere e tempo, § 44b.
[4] E. Berti, Verità e filosofia,
http://www.veritatis-splendor.net/DocumentiVS/Berti_Verità%20e%20Filosofia.pdf,
p. 10 (url visitato in data 06/06/2014). Il testo è tratto dal volume V.
Possenti, (a cura di), Ragione e verità:
l’alleanza socratico-mosaica, Armando, Roma 2005.
[5] Ivi, p. 11.
[6] Metaph. Z4, 1030a 10-15.
[7] «Sostanza è quella detta nel
senso più proprio e in senso primario e principalmente, la quale né si dice di
qualche soggetto né è in qualche soggetto: ad esempio, un certo uomo o un certo
cavallo» (Cat. I, 5, 2a 11-13).
[8] Cfr. Cat. I, 5, 2b 6.
[9] Eth. Eud., II, 1, 1219a
4.
[10] Eth. Eud., Rizzoli, Milano 2012, p. 365.
[11] M. Zanatta, nota 1 a Eth. Nic., I, 6,
Rizzoli, Milano 1986, p. 407.
[12] Cfr. ad es. Metaph. 1051b 1-5
[13] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 1.1.
[14] Ivi, 6.421.
[15] DK, B 123.
[16] M. Heidegger, Essere e tempo, § 44b. (Di qui in poi
l’opera è indicata con l’abbreviazione SuZ;
per la traduzione utilizzata si rimanda alla Bibliografia).
[17] Cfr. ad es. M. Heidegger, L’essenza della verità cit., pp. 84-85.
[18] Cfr. SuZ, § 63: «Se però “c’è” essere solo in quanto la verità “è”, e se
la comprensione dell’essere si modifica sempre secondo il modo della verità, la verità originaria e autentica dovrà garantire
la comprensione dell’essere dell’Esserci e dell’essere in generale» (corsivo
mio).
[19] Id., L’essenza della verità cit., p. 49.
[20] Ivi, pp. 56 ss.
[21] Ivi, pp. 90 ss.
[22] Ivi, p. 164.
[23] Cfr. SuZ, § 27.
[24] Cfr. ivi, §§ 35-37.
[25] Ivi, § 44b.
[26] Ivi, § 9, nota d.
[27] Id., Lettera sull’«umanismo» cit.,
p. 95.
[28] SuZ, § 32.
[29] Cfr. ivi, § 31.
[30] Ivi, § 32.
[31] Ivi, § 31.
[32] Cfr. ivi, § 18.
[33] Ivi, § 33.
[34] Cfr. ivi, § 18.
[35] Ivi, § 26.
[36] Ibidem.
[37] Ivi, § 27.
[38] Questo elenco corrisponde a ciò
che secondo Heidegger può essere oggetto di un’asserzione; cfr. ivi, § 33.
[39] M. Heidegger, La questione
della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo,
Mursia, Milano 1976, pp. 13 ss.
[40] Cfr. SuZ, § 26.
[41] Id., Lettera sull’«umanismo» cit.,
p. 56.
[42] Tale terimine in Platone indica
«la “conoscenza” in generale, cioè il coglimento del vero, l’avvedutezza e il
discernimento» (Id., L’essenza della
verità cit., p. 60).
[43] SuZ, § 44b.
[44] Id., L’essenza della verità, pp. 106 ss.
[45] G. Lukács, La
distruzione della ragione, tr. it. E. Arnaud, Einaudi, Torino 19743,
pp. 518 ss.
[46] Ivi, p. 496.
[47] M.
Heidegger, La questione della tecnica cit., p. 24.
[48] Id., Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo Spiegel, a
cura di A. Marini, Ugo Guanda, Parma 1987, p. 136.
[49] G. Vattimo, Della realtà. Fini della filosofia, Garzanti, Milano 2012, p. 60.
[50] Ivi, p. 216.
[51] W. Benjamin, Angelus novus. Scritti e frammenti, a
cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962, p. 79. Vattimo cita questa frase in
diversi saggi contenuti in Della realtà cit.
[52] Ivi, p. 113.
[53] Ivi, p. 174.
[54] Ibidem.
[55] Ivi, p. 171.
[56] Ivi, p. 172.
[57] Ivi, p. 173.
[58] Ivi,p. 173.
[59] Ibidem.
[60] Non che questo sia un demerito
dell’opera di Vattimo, il cui intento esplicito non è un’interpretazione di
Heidegger, ma uno sviluppo autonomo della sua eredità.
[61] H.-G. Gadamer, Verità e metodo, a cura di G. Vattimo,
Bompiani, Milano 20002, p. 49.
[62] Ivi,pp. 51-53.
[63] Ivi, p. 65.
[64] Eth. Nic. VI 2, 1139 a 23-27.
[65] H.-G. Gadamer, Verità e metodo cit., p. 939.
[66] Cfr. ivi, pp. 635-645.
[67] Ivi, p. 669.
[68] Ivi, p. 225.
[69] Ivi, p. 229.
[70] Ivi, p. 237. In corsivo nell’originale.
[71] Ivi, p. 247.
[72] Cfr. ivi, pp. 245 ss.
[73] Non si può quindi intendere la
verità di una rappresentazione sulla base di una teoria corrispondentista della
verità.
[74] Ivi, p. 249.
[75] Ivi, p. 253
[76] Cfr. ivi, p. 243.
[77] G. Chiurazzi, L’esperienza della verità cit., p. 109.
[78] Ivi, p. 92.
[79] H.-G. Gadamer, Verità e metodo cit., p. 269.
[80] Ivi, p. 277.
[81] Ivi, p. 359.
[82] Ivi, p. 595.
[83] G. Chiurazzi, L’esperienza della verità cit., pp.
94-95.
[84] Cfr. ibidem.
[85] Cfr. p. 261.
[86] Il concetto
gadameriano di «fusione di orizzonti» si è rivelato assai fecondo nella
trattazione dei rapporti fra le diverse culture. Per citare solo un esempio,
cfr. C. Taylor, Understanding the Other: A Gadamerian View on Conceptual Schemes, in J. Malpas et al., (eds.), Gadamer’s Century: Essays in Honour of Hans-Georg Gadamer, MIT
press, Cambridge (Mass.) 2002, pp. 279-297; ora in C. Taylor, Dilemmas and Connections. Selected Essays,
The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2011, pp.
24-38.
[87] Questa idea è
alla base di tutta la riflessione di A. MacIntyre; cfr. in particolare Giustizia e
razionalità, tr. it. di C. Calabi,
Anabasi, Milano 1995, 2 Voll.
[88] L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano
1971, p. 53.
[89] Ivi, p. 94.
[90] Ivi, pp. 46-47.
[91] Ivi, p. 54.
[92] Cfr. ivi, p. 22
[93] Cfr. ivi, p. 94.
[94] Non va
dimenticato che in Verità e metodo è
citata l’Estetica di Pareyson. Anche
se questo rimando non è presente dove Gadamer parla di verità dell’arte, la
corrispondenza era nota a entrambi gli autori.
[95] Ivi, p. 69.
[96] J. G. Fichte, La dottrina della scienza esposta nell’anno
1804, tr. it. di L. Pareyson, in M. F. Sciacca, M. Schiavone, (a cura di), Grande antologia filosofica, XVII,
Marzorati, Milano 1971, p. 1034.
[97] Ibidem.
[98] Egli definisce
infatti la sua filosofia come un’«ontologia dell’inesauribile»; cfr. ad es. L.
Pareyson, Verità e interpretazione cit.,
p. 28.
[100] Ivi, p. 98.
[101] Cfr. G.
Vattimo, La vocazione nichilistica
dell’ermeneutica, in Id., Oltre
l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 3-19.
[102] L. Pareyson, Verità e interpretazione, p. 101.
[103] Queste
citazioni sono tratte dal Diritto
naturale e sono riportate in A. Masullo, La comunità come fondamento. Fichte Husserl Sartre, Libreria Scientifica
Editrice, Napoli 1965, p. 132.
[104] Cfr. ivi, p. 135.
[105] L. Pareyson, Verità e interpretazione cit., p. 170.
[106] J. G. Fichte, Missione del dotto, a cura di D. Fusaro,
Bompiani, Milano 2013, p. 227.
[107] Ivi, p. 235.
[108] Costanzo Preve,
Lettera sull’Umanesimo, Petite
Plaisance, Pistoia 2012, p. 126.
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