Premessa
Le citazioni dalle opere di Marx (e Engels), salvo
diversa indicazione, sono tratte da K. Marx,
Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso, a cura di E. Donaggio e P.
Kammerer, Feltrinelli, Milano 2007. Si riporta perciò il titolo (in italiano)
dell’opera originale, seguito dalla pagina di riferimento nell’Antologia.
Le citazioni benjaminiane sono invece tratte da W.
Benjamin, Sul concetto di storia, a
cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997. Si cita la tesi o il
manoscritto seguito dalla pagina in cui esso compare all’interno di questo
volume. Il riferimento alla traduzione delle tesi curata da R. Solmi rimanda al
volume W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi
e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 2006.
In apertura, per comodità di lettura, si riporta il
testo della tesi IV nella traduzione di Bonola e Ranchetti, con una piccola
modifica, la cui giustificazione segue in una nota del commento.
Cercate innanzitutto cibo
e vesti, e il regno di Dio
vi sarà dato in
sovrappiù. (Hegel, 1807).
La lotta di classe, che è sempre
davanti agli occhi di uno storico che si è formato su Marx, è una lotta per le
cose rozze e materiali, senza le quali non si danno cose fini e spirituali.
Questa ultime, però, sono presenti nella lotta di classe altrimenti dall’idea
di un bottino che tocca al vincitore. In questa lotta esse sono vive come
fiducia, coraggio, gaiezza, astuzia, perseversanza, e operano a ritroso nella
lontananza del tempo. Esse metteranno sempre di nuovo in discussione ogni
vittoria che mai sia toccata a chi è al potere. Come i fiori volgono il capo
verso il sole, così, per un eliotropismo di natura misteriosa, ciò che è stato tende
a rivolgersi verso quel sole che sta per sorgere nel cielo della storia. Di
questo, che tra tutti i mutamenti è il meno appariscente, deve intendersi il
materialista storico.
La tesi comincia con l’affermazione che la lotta di
classe è sempre davanti agli occhi dello storico formatosi su Marx, ossia del
materialista storico. Può essere utile, quindi, richiamare brevemente la
concezione marxiana della storia e della lotta di classe, per vedere poi in che
misura Benjamin resti fedele a questo modello e rispetto a quali questioni se
ne distanzi.
Per Marx la storia è «storia di lotte di classi.
Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle
corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente
in reciproco contrasto»[1]. In ogni
epoca storica, la classe oppressa si presenta come garante dell’interesse
generale della società, di contro all’interesse particolare espresso dalla
classe egemonica[2].
Senonché, questa dichiarazione di universalismo viene ben presto smentita dalla
realtà storica che, in seguto alla rivoluzione e al graduale definirsi di nuove
forme e rapporti di produzione, determina il profilarsi di un nuovo antagonismo
di classe.
La peculiarità storica del proletariato è che il suo
obiettivo non è una nuova «ripartizione del lavoro» e quindi l’instaurazione di
più evoluti rapporti tra le classi; «la rivoluzione comunista si dirige contro
il modo dell’attività invalso fino ad
ora, abolisce il lavoro e l’egemonia
di tutte quante le classi insieme con le classi stesse»[3]. Viene
così in luce il «carattere [davvero] universale del proletariato»[4].
Tuttavia, la sua azione rivoluzionaria non è
determinata da ideali o imperativi morali: «ciò che conta non è cosa questo o
quel proletario, o anche tutto il proletariato, si rappresenta temporaneamente come fine. Ciò che conta è cosa esso è, e cosa sarà costretto storicamente a fare in conformità di
questo suo essere»[5]. In
altre parole, è la storia stessa a conferire al proletariato il suo compito,
indipendentemente dalla coscienza dei soggetti coinvolti. L’unico spazio
riservato da Marx alla coscienza di classe sembra essere quello legato
all’unificazione in un'unica lotta delle «molte lotte locali»[6]. La
rivoluzione nasce unicamente per reazione alla disumanità delle condizioni
materiali in cui il proletariato è costretto a vivere; essa avviene «nel mondo
reale e con mezzi reali» e il suo scopo immediato è l’assicurazione di «cibo e
bevanda, abitazione e vestiario in qualità e quantità completa»[7].
La lotta di classe è quindi una «lotta per le cose
rozze e materiali, senza le quali non si danno cose fini e spirituali». Questa
affermazione benjaminiana equivale a una dichiarazione di accordo con la
dottrina marxiana. Il «però» della frase successiva, dunque, esprime un
complementare disaccordo.
Le «cose fini e spirituali», nella dottrina marxiana,
sono catalogate sotto l’etichetta di «sovrastruttura» (o «ideologia»), e sono
considerate espressione dei rapporti di forza: «la classe che rappresenta la
potenza materiale dominante della
società è, al tempo stesso, la sua potenza spirituale
dominante»[8]. Nella
società comunista, cessando il conflitto tra le classi, viene meno anche il
carattere ideologico della produzione spirituale, la quale potrebbe dunque
essere intesa come espressione trasparente di tutte le «disposizioni» umane
finalmente liberate[9].
Tuttavia essa resta una «sovrastruttura», nel senso che è una conseguenza della
modalità comunista di produzione materiale e non una condizione per
l’instaurazione dell’eguaglianza. Ciò che appartiene all’ambito della
produzione delle idee figura dunque come un vero e proprio «bottino» – secondo
l’espressione di Benjamin[10] – che
spetta al vincitore, il quale è tale in primo luogo sul piano delle «relazioni
materiali»[11].
Benjamin ritiene impossibile che il fine di migliorare
la propria condizione materiale possa essere un movente sufficiente per
un’efficace azione rivoluzionaria. Non solo perché è impossibile separare la
sfera «strutturale» da quella «sovrastrutturale», ma anche – e soprattutto –
perché è indispensabile che il proletariato sia mosso dalla volontà di
riscattare le generazioni oppresse del passato. L’immagine del futuro è troppo
indefinita perché possa dare sufficiente forza alla classe oppressa, la quale,
secondo la tesi XII, dev’essere mossa piuttosto dall’«odio» nei confronti degli
oppressori presenti e passati e dalla «volontà di sacrificio».
Come Benjamin aveva appreso dalla lettura di Storia e coscienza di classe di Lukács,
il proletariato deve avere una precisa coscienza del suo compito storico. La
contraddizione materiale può essere superata (aufgehoben) solo se a essa si aggiunge «l’attività cosciente degli
uomini»[12]. Vi è
dunque una stretta unità fra teoria e prassi, in quanto la prassi deve essere
sostenuta dalla coscienza e, d’altra parte, quest’ultima richiede un’immediata
azione pratica.
Secondo la tesi IV il proletariato in lotta è animato
da sentimenti «come fiducia, coraggio, gaiezza, astuzia, perseversanza». Si
tratta di una caratterizzazione del rivoluzionario che non ha precedenti né nei
materiali preparatori (ossia negli appunti preliminari alla stesura delle
tesi), né tanto meno nel marxismo. Non è chiaro da dove Benjamin tragga questi
termini e perché scelga proprio questi (considerando, peraltro, che alcuni
compaiono solo nella versione tedesca e altri solo in quella francese). Quel
che sembra essere chiaro è che si tratta di caratteristiche indispensabili per
avere la fermezza di spirito necessaria per combattere, contro le forze
nemiche, una lotta dall’esito incerto.
Si tratta di qualità spirituali che «operano a ritroso
nella lontananza del tempo», ossia legano l’azione storica del presente
all’eredità lasciata dal passato e attualizzata dalla «decisione» (termine che
conclude l’elenco nella versione francese) nell’«adesso»[13] per la
prassi rivoluzionaria. Il rapporto con il passato deve appartenere alla
coscienza della classe in lotta, in quanto – come è scritto nei materiali
preparatori – «sussiste un nesso strettissimo tra l’azione storica di una
classe e il concetto che questa classe ha non solo della storia a venire, ma
anche della storia passata»[14].
Oltre al nesso, già evidenziato, tra teoria e prassi,
emerge dunque, in modo specifico, il tema del passato. La storia è «narrata»
dalla storiografia ufficiale come un «continuum»
in cui compaiono, come su un carro trionfale, le immagini di tutti i vincitori[15]. Il
materialista storico deve far saltare questa continuità, svelandone il
carattere di falsa coscienza, per far emergere l’autentica storia, che è la tradizione
degli oppressi, in cui «la classe operaia compare come l’ultima classe
asservita, come la classe vendicatrice e liberatrice»[16].
Lungo questa tradizione, se consapevolmente assunta, ogni
qualvolta insorge un oppresso è come se tutti gli oppressi della storia fossero
risvegliati nella lotta. Le rivolte e le rivoluzioni «metteranno sempre di
nuovo in discussione ogni vittoria che mai sia toccata a chi è al potere»,
finché il proletariato – l’«ultima classe asservita» – porrà fine alle lotte di
classe, alla barbara «preistoria»[17]
dell’umanità.
La partigianeria benjaminiana, contro qualsiasi forma
di oppressione, è espressa efficacemente da un appunto dei materiali
preparatori: «il soggetto della storia: gli oppressi, non l’umanità»[18]. Si
tratta di un’affermazione inconciliabile con l’ortodossia marxista. Per Marx e
Engels i vincitori del passato hanno avuto un ruolo positivo, in quanto
protagonisti del progresso storico. La barbarie, inseparabile dall’oppressione
e ben descritta da Marx stesso (si pensi ad esempio alle pagine del Capitale sull’«accumulazione
originaria»), è quindi giustificata dal materialismo storico ortodosso alla
stessa maniera di come lo era dalla teodicea hegeliana. Come giustamente sottolinea
Michael Löwy commentando la tesi IX, «il metodo di Benjamin tende […] a
rovesciare questa visione della storia, demistificando il progresso e fissando
uno sguardo segnato da un dolore profondo e inconsolabile – ma anche da una
profonda rivolta morale – sulle rovine che esso produce»[19].
Ma vi è un’ulteriore, importante differenza tra la
concezione benjaminiana e quella marx-engelsiana della storia. Per quest’ultima
il proletariato è l’«ultima» classe oppressa perché essa non può essere sconfitta. L’andamento della storia, scandito
dialetticamente dalle rivoluzioni, è segnato da una necessità tale, per cui
l’instaurazione della società senza classi ad opera dei proletari non può
essere messa in dubbio.
Benjamin rifiuta tutto questo, prendendo le distanze dalla
«teoria del progresso in Marx»[20] e da
ogni pretesa di individuare nella storia leggi necessarie; scrive infatti che «la
società senza classi non può essere concepita come punto finale di uno sviluppo
storico»[21]. Il
proletariato è quindi l’«ultima» delle classi oppresse forse perché essa è
effettivamente – per Benjamin – l’unica classe che potrebbe sovvertire il
capitalismo, ma circa il suo successo non c’è alcuna certezza. È significativa,
a questo proposito, un’annotazione contenuta nel Passagen-Werk: «l’esperienza della nostra generazione: il
capitalismo non morirà di morte naturale»[22].
Quel «sempre di nuovo» della tesi IV («immer von neuem», che si potrebbe
tradurre anche con «ogni volta da capo») indica dunque che la messa in
discussione delle vittorie dei potenti è un compito la cui piena e definitiva realizzazione
(con il compimento dalla rivoluzione) non può essere prevista, né data per
certa[23].
Le lotte del presente sono quindi una sorta di
continuazione di tutte le lotte passate, e sono capaci di fare «dell’incompiuto
(la felicità) un compiuto e del compiuto (il dolore) un incompiuto»[24]. Nella
storia non vi è nulla di definitivo (a maggior ragione, dunque, non vi sono
leggi di sviluppo!) e ogni istante è portatore di una «chance rivoluzionaria»[25], cogliendo
la quale, come ha scritto Löwy, si possono «riaprire dossier storici “chiusi”,
“riabilitare” vittime calunniate, riattualizzare speranze e aspirazioni vinte,
riscoprire lotte dimenticate o giudicate “utopiche”, “anacronistiche” e
“contrarie al progresso”»[26].
È così che «ciò che è stato tende a rivolgersi verso quel sole che sta per sorgere nel cielo
della storia», proprio «come i fiori volgono il capo verso il sole»; l’evento
passato, ridestato alla storia, si avvia al possibile riscatto. Il «sole» può
essere inteso come l’azione rivoluzionaria che si sta per intraprendere o il
successo che si otterrà con questa. La vittoria comunista, infatti, muterebbe il
significato degli episodi di oppressione, in quanto darebbe ragione agli
oppressi, mostrando come l’oppressore, che si credeva artefice della storia, ne
sarebbe infine sconfitto definitivamente.
Ma si tratta di un «mutamento» del significato storico
degli eventi passati, che – dice Benjamin – ha un carattere «misterioso» e poco
«appariscente». Vi è dunque qualcosa in più del semplice mettere in questione
sul piano storico o storiografico le vittorie del passato. Nella tesi VI
Benjamin scrive che il materialista storico ha «il dono di riattizzare nel
passato la scintilla della speranza». Si tratta dunque, come già detto, di fare
«dell’incompiuto (la felicità) un compiuto e del compiuto (il dolore) un
incompiuto»[27]; ma –
come scrive Benjamin stesso – «questa è teologia»[28]. La
rammemorazione del passato «ci vieta di concepire la storia in modo fondamentalmente
ateologico, per quanto non ci sia lecito tentare di scriverla in concetti
immediatamente teologici»[29].
Il nucleo della metafora contiene dunque il tema della
redenzione, già comparso nelle tesi II e III, che è probabilmente, in Benjamin,
il frutto di una disperata ricerca del senso da attribuire all’azione e alla
vita umana. Di fronte alla certezza della sconfitta (si pensi alle condizioni
storiche e biografiche in cui le tesi furono scritte), il tema della redenzione
permette di pensare che anche gli sconfitti un giorno vinceranno, che la storia
ha un senso perché nulla va perduto. Questo emerge in maniera piuttosto
esplicita in un appunto: «Dai posteri non pretendiamo ringraziamenti per le
nostre vittorie, ma la rammemorazione delle nostre sconfitte. Questa è
consolazione: consolazione che si dà solo per quelli che non hanno più speranza
di consolazione»[30]. Questa
idea, del resto, è presente già in Hermann Lotze, filosofo tedesco citato da
Benjamin nella tesi II, di cui i materiali del Passagen-Werk riportano un passo assai significativo, in cui
peraltro compare lo stesso aggettivo «misterioso» che nella tesi II descrive il
rapporto tra presente e passato[31] e nella
tesi IV qualifica l’eliotropismo in base al quale ciò che è stato si ridesta verso
il sole della storia. Può essere utile leggere per intero l’appunto
benjaminiano:
Collegamento dell’idea del progresso con
quella della redenzione in Lotze: «Siccome il senso del mondo si capovolgerebbe in un controsenso, noi rifiutiamo
l’idea che il lavoro delle generazioni che passano vada per esse
irrimediabilmente perduto e vada a vantaggio, all’infinito, soltanto per coloro
che seguono» (p. 50)[32].
Questo non è ammissibile «se il mondo stesso in tutta l’ampiezza del suo
sviluppo storico, non deve apparire come un rumore incomprensibile e vano…
L’idea che, sia pure in modo misterioso,
il progresso nella storia accada anche per loro [le generazioni passate, n. d. c.], questa fede soltanto, ci consente di parlare di un’umanità così come
facciamo» (p. 51). […][33]
Che il rapporto con il passato descritto dalla tesi IV
abbia a che fare con la rammemorazione è confermato, del resto, anche dalla
proporzionalità istitutita da Benjamin fra questa e la storiografia: vi è «una
connessione tra storiografia e politica, che è identica a quella teologica tra
rammemorazione e redenzione»[34]. La
vera storiografia, infatti, è quella che «salva» il passato dall’oblio; solo in
questo modo la «vera immagine del passato», che «guizza via», può essere «trattenuta» (tesi V) ed entrare con il
presente in una «costellazione»[35]. E così
come il materialista storico si rivolge verso la tradizione degli oppressi per
riscattarla con l’azione presente, allo stesso modo la rammemorazione di ciò
che è stato può redimere il passato, mettendone in discussione il risultato e
facendo del compito un incompiuto.
Ma fra materialismo storico e rammemorazione teologica
non vi è un semplice parallelismo; il materialista storico «deve intendersi» di
quell’«eliotropismo di natura misteriosa» e deve – come si dice in un appunto –
restituire al «concetto di una società senza classi […] il suo volto messianico
autentico, e questo proprio nell’interesse stesso della politica rivoluzionaria
del proletariato»[36]. Solo
così, infatti, il proletariato può comprendere di essere stato atteso (tesi II)
dalle generazioni oppresse che l’hanno preceduto per portare a compimento le
loro lotte e liberare finalmente l’umanità.
La teologia qui impiegata a «servizio» (tesi I) del
materialismo storico propugna quindi una fede messianica che è indisgiungibile
dall’azione storica e «profana». Si comprende così il senso della citazione in
esergo, tolta da un epistolario fra Hegel e l’amico Knebel, in cui peraltro non
è ben chiaro se Hegel abbia di proposito rovesciato il passo evangelico[37] o se
sia stata una svista[38]. Il
testo del Vangelo invita a non affannarsi per le cose materiali, confidando
nella provvidenza del Padre che «sa» ciò di cui necessitano gli uomini.
Benjamin si serve della citazione invertita per porre l’accento sul fatto che
l’inerte attesa – il vizio della socialdemocrazia secondo la tesi XVIIa – si
fonda su un’illusione («l’idea della “situazione rivoluzionaria” che, come si
sa, non volle mai giungere»[39]) e che
soltanto la lotta può portare a risultati concreti. Una lotta per la redenzione,
che riattizzi nel passato la speranza e porti a compimento la missione cui il
presente è chiamato.
[1] Manifesto del Partito comunista, pp.
248-49.
[2]
Cfr. Ideologia tedesca, p. 68.
[3]
K. Marx, F. Engels, Ideologia tedesca,
a cura di D. Fusaro, Bompiani, Milano 2011, p. 449.
[4] Ivi, p. 445.
[5] La sacra famiglia, p. 248.
[6]
K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito
comunista, a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 1998, p. 17.
[7] Ideologia tedesca, p. 41. Forse non è
casuale la coincidenza di questa citazione con il «cibo e vesti» dell’esergo.
[8] K. Marx,
F. Engels, Ideologia tedesca cit., p.
391.
[9] Cfr. Ideologia tedesca, p. 54.
[10]
Bonola e Ranchetti, così come Solmi, traducono il tedesco «Beute», che compare nella tesi IV, con «preda». Lo stesso termine,
nella tesi VII, è tradotto dai primi con «bottino». Ma nella versione francese
delle tesi è presente in entrambi i casi il vocabolo «butin». Mi sembra dunque adeguato uniformare la traduzione
italiana, rendendo «Beute» con
«bottino», considerando che, mentre la preda è qualcosa che ci si procaccia
intenzionalmente, il bottino è una sorta di guadagno collaterale, che in genere
segue alla vittoria di una guerra.
[11] K.
Marx, F. Engels, Ideologia tedesca
cit., p. 391.
[12] G.
Lukács, Storia e coscienza di classe, tr. it. di G. Piena, SugarCo,
Milano 1991, p. 235.
[13] Il
termine tedesco è «Jetztzeit» e
compare nella tesi XIV.
[14] Ms 449,
p. 79.
[15] Cfr.
tesi VII. Il concetto di «continuum»
compare nelle tesi XIV, XV e XVI (nonché nei materiali preparatori; cfr. le
indicazione a p. 152 del volume di Bonola e Ranchetti). Per quanto riguarda il
«narrare» come cifra della storiografia ufficiale, cfr. Ms 444, p. 75; Ms 477,
pp. 76-78.
[16] Ms
466r, p. 81.
[17] Il
termine, di origine marxiana, è impiegato da Benjamin in N 9a, 8, p. 124.
[18] Ms 481,
p. 89.
[19] M.
Löwy, Segnalatore d’incendio. Una lettura
delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, tr. it di M.
Pezzella, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 80.
[20] Ms 476,
p. 88. Ma cfr. anche Ms 1098v, p. 101 e la tesi XIII.
[21] Ms
1103, p. 102.
[22] X 11a,
3, p. 134.
[23] Anche
nella versione francese non compare alcun senso di compiutezza. Vi si trova: «Toute victoire qui jamais y a été remportée
et fêtée par les puissant – elles n’ont pas fini de la remettre en question»
(«Ogni vittoria che sia mai stata riportata e festeggiata dai potenti – esse
[le forze spirituali] non hanno cessato di rimetterla in questione»).
[24] N 8, 1,
p. 121.
[25] Tesi
XVIIa; Ms 451, p. 80.
[26] M.
Löwy, Segnalatore d’incendio cit., p.
140.
[27] N 8, 1,
p. 121.
[28] Ibidem.
[29] Ibidem.
[30] Ms 446,
p. 76.
[31] «[…] esiste
un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra.
Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni
generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto» (p. 23).
[32]
Benjamin fa riferimento all’opera di Lotze intitolata Mikrokosmos.
[33] N 13a,
3, p. 128. Corsivi miei.
[34] Ms 442,
p. 74.
[35] Ms 474,
p. 87; Na, 3, p. 116.
[36] Ms
1103, p. 102.
[37] Si
tratta di Mt 6, 31-14: «Non
affannatevi dunque dicendo: che cosa mangeremo? che cosa berremo? che cosa
indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro
celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate
prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date
in aggiunta».
[38] Hegel dice infatti di essersi «convinto con
l’esperienza della verità del detto biblico», poi lo riporta con l’inversione
«materialistica» citata da Benjamin; ma nella risposta di Knebel è scritto:
«essendo il vestiario, il cibo, la cosa primaria dopo [corsivo mio] il regno dei cieli, come Ella scrive […]». G. W.
F. Hegel, Epistolario, I, a cura di
P. Manganaro, Guida, Napoli 1983, pp. 302-306.
[39] Ms
1103, p. 102.
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