Di seguito la mia tesina per un esame sul tema della Tecnica.
Introduzione
Là dove la riflessione filosofica del Novecento si è rivolta alla
considerazione della realtà sociale dell'uomo contemporaneo si
possono notare motivi di convergenza tra pensatori per altro
diversissimi: Heidegger, Horkeimer, Adorno e Lukács
sono forse tra i più significativi in questa prospettiva. Le loro
rispettive esperienze biografiche motivano tangibilmente le loro
divergenze: Heidegger visse nella Germania hitleriana e visse sotto
il regime del Führer
tutte
le contraddizioni della sua politica spregiudicata, subendone in
diverse occasioni l'ingiusto arbitrio. Pur avendo inizialmente
riposto le sue speranze nel nazionalsocialismo, fu infine costretto
dall'evidenza dei fatti a riconoscere che la «rottura»
da esso compiuta nei confronti del passato non era portatrice di un
migliore avvenire.
Horkeimer e Adorno, marxisti di
formazione, lasciarono la Germania nello stesso periodo ed emigrarono
negli Stati Uniti, dove continuarono le loro ricerche. Fuggendo
l'orrore fascista, tuttavia, essi approdarono in un Paese che si
avviava ad estendere il suo dominio sui paesi Europei che usciranno
stremati dalla guerra. Con la sua politica liberale ma severamente
anticomunista, gli Stati Uniti erano il luogo dove il volto nuovo del
capitalismo era già pienamente riconoscibile: l'estetizzazione stava
ormai prendendo il posto del feticismo delle merci, mutandone la
forma ed aggravandone la sostanza. Il capitalismo si avviava così a
mostrare il suo carattere totalitario, abilmente nascosto
dall'ideologia che proclama tutti uguali e tutti parimenti dotati
delle medesime opportunità. Ma l'altra metà del mondo, cioè l'area
sovietica, non costituiva per Adorno e Horkeimer il polo verso il
quale tendere, bensì un'ennesima forma di dominio brutale dell'uomo
sull'uomo, mediato dalla tecnica e servito dalla violenza.
Lukács,
infine, visse e in gran parte condivise la politica sovietica,
nonostante questa l'avesse in diversi casi osteggiato. Egli si
avvicinò gradualmente alla dogmatica filosofica del regime, finendo
con l'abbracciare la versione ufficiale del materialismo dialettico
marxista-leninista. La sua convinzione politica permise al suo
pensiero di rimanere sempre segnato dalla fiducia nel movimento
progressivo della storia, in direzione dell'avvento del socialismo.
Nonostante
queste differenze, si diceva, fra questi pensatori è possibile
rintracciare dei motivi comuni, che illuminano da diverse prospettive
la realtà sociale dell'uomo contemporaneo, che ha perso la sua
libertà nel dominio del Ge-stell,
della falsità universale, della feticizzazione capitalistica, ecc.
Nelle considerazioni che seguono
cerchiamo di illustrare brevemente questi tratti comuni e le relative
(non-) soluzioni avanzate dagli autori.
Heidegger
e il dominio della tecnica
Heidegger
rileva che uno dei caratteri peculiari della modernità è la scienza
della natura. Essa si caratterizza come un'indagine quantitativa
della natura, considerata come oggetto della rappresentazione del
soggetto. Il rappresentare ha la forma di un porre-innanzi
(vor-stellen)
l'ente, che si concretizza nello stabilire a priori un progetto della
natura. Questo significa che a partire da categorie
fisico-matematiche si stabilisce a priori la modalità in base alla
quale la natura dovrà presentarsi, rendersi visibile, allo
scienziato. Il rappresentare, quindi, «mira
a presentare ogni ente in modo tale che l'uomo calcolatore possa
esser sicuro, cioè certo dell'ente»1.
La verità è perciò ricondotta all'esattezza, garantita dalla
certezza del rappresentare. Questo trova la sua originaria
formulazione in Cartesio, la cui metafisica stabilisce
quell'interpretazione dell'ente che verrà mantenuta sino a Nietzsche
e che per Heidegger avrà come conseguenza e culmine il dominio della
tecnica.
Ma
perché questa interpretazione sia possibile, è necessario che
l'uomo, colui che indaga, si ponga di fronte alla natura come
subjectum,
cioè come ciò che sta-prima, che costituisce il fondamento
dell'essere. Con l'età moderna, l'uomo eleva se stesso (la sua
facoltà conoscitiva) a principio fondante dell'essere degli enti e
della loro verità. In tal modo il mondo
viene ridotto a immagine: «l'ente nel suo insieme è assunto come
ciò in cui l'uomo si orienta, e quindi come ciò che egli vuol
portare innanzi a sé e avere innanzi a sé; e quindi, in un senso
decisivo, come ciò che vuol porre innanzi a sé [vor-stellen],
rappresentarsi»2.
L'ente
viene considerato, nella sua semplice presenza, come disponibile per
l'uomo, per la sua indagine conoscitiva e per l'applicazione di
questa nella forma del potere e del dominio sul mondo, secondo
l'assunto baconiano per cui il sapere equivale al potere. Con le
parole di Heidegger, «l'uomo pone in giuoco la potenza illimitata
dei suoi calcoli, della pianificazione e del controllo di tutte le
cose»3.
Il
dominio dell'uomo sulla natura si attua mediante la tecnica, che non
va però confusa come la semplice applicazione dei principi della
scienza, come se fosse il medio attraverso il quale la scienza
signoreggia il mondo. La tecnica stessa, infatti, è a sua volta una
trasformazione della prassi che, anziché presupporlo, richiede l'uso
della conoscenza matematica e scientifica. Dipende anch'essa dalla
trasformazione del mondo in immagine, ciò che equivale,
filosoficamente, alla confusione e quindi alla identificazione di
essere ed ente, inteso come ciò che si dà alla rappresentazione
nella sua semplice presenza4.
Per
comprendere che cosa sia la tecnica occorre domandare circa la sua
essenza. Nell'indagarla, si scopre, appunto, l'insufficienza di
considerare la tecnica come instrumentum.
Si tratta di una risposta inadeguata, antropologica, che si illude di
poter sottomettere la tecnica al dominio dell'uomo, risolvendo i
problemi da essa posti semplicemente con un impiego migliore delle
sue potenzialità. In realtà la tecnica è sfuggita al controllo
dell'uomo, che è ormai ad essa soggetto. In maniera simile a ciò
che sarà descritta da Horkeimer e Adorno come dialettica
dell'illuminismo, il tentativo dell'uomo di dominare la natura
mediante la tecnica si capovolge nel dominio della tecnica sull'uomo.
Non si può allora ritenere che la tecnica sia un semplice mezzo:
occorre domandare più radicalmente.
Secondo
il metodo consueto dello Heidegger successivo alla cosiddetta
«svolta», il filosofo riscopre i significati inespressi della
terminologia originaria greca. Nel campo semantico di τέχνη sono
compresi tutti i modi della produzione, sia artigianale che
artistica: essa è perciò immediatamente legata alla ποίησις.
Quest'ultima è la pro-duzione di qualcosa che per esistere ha
bisogno dell'intervento umano, il quale conduce un nascosto
all'apparire nella dis-velatezza. La τέχνη è infatti legata, in
greco, anche all'επιστήμη, che è il sapere, l'intendersi di
qualcosa, che, in quanto tale, è una modalità del dis-velamento,
cioè dell'αλήθεια (il non-velato, la verità)5.
Questo
è significativo in quanto per Heidegger ogni autentico rapporto
dell'esserci con l'ente riguarda il suo carattere di s-velatezza. Nel
comprendere l'ente come ciò che è dis-velato, infatti, si dà la
possibilità di comprendere la differenza ontologica tra ente ed
essere. Soltanto in base a questa comprensione l'uomo può
rapportarsi all'ente nella dimensione fondamentale della cura,
che è la forma della libertà con cui l'esserci si vincola
pro-gettualmente all'essere. «Divenire-liberi significa comprendere
l'essere in quanto tale e soltanto questa comprensione fa essere
l'ente
in quanto
ente»6.
Se
la tecnica – tanto quella antica quanto quella moderna – è
dis-velatezza, significa che nell'adeguata comprensione di essa si dà
anche la possibilità di un diverso rapporto con essa. Già da questa
chiarificazione sull'essenza della tecnica si comprende perché
Heidegger potrà citare, nel seguito del suo saggio su La
questione della tecnica,
un verso di Hölderlin per il quale «là dove c'è il pericolo,
cresce / anche ciò che salva»7.
Ma perché la tecnica è il luogo
del pericolo? Un pericolo dinnanzi al quale la salvezza può essere
soltanto una speranza e mai una certezza? Per comprenderlo occorre
seguire Heidegger nell'ulteriore caratterizzazione dell'essenza della
tecnica moderna.
Essa,
a differenza della tecnica antica, non appartiene all'ambito della
ποίησις. Il dis-velamento che la caratterizza si dà nella
forma della pro-vocazione (Herausfordern),
nel senso che la natura viene vista come una riserva infinita di
risorse a disposizione dell'uomo, le quali vengono sottoposte ad un
calcolo utilitario per poter essere sfruttate al massimo con il
minimo costo. L'oggetto che viene dis-velato in questa pro-vocazione
è inteso meramente come «fondo», come ciò che è «impiegabile».
La natura è solo il punto di partenza dell'intero processo di
pro-vocazione e impiego, in quanto ciò che fornisce l'energia e le
materie prime. Ma lo stesso avviene ai livelli più avanzati, dove le
stesse macchine, cioè gli stessi mezzi della tecnica, vengono intesi
come «fondo» e quindi non più in base alla reale essenza della
tecnica come dis-velamento.
Chi
compie questa pro-vocazione mediante la quale il reale si dis-vela
come fondo è l'uomo, ma egli lo può fare «solo nella misura in
cui... è già, da parte sua, pro-vocato a mettere allo scoperto le
energie della natura»8.
L'uomo è perciò esso stesso impiegato come «fondo», anche se mai
completamente riducibile ad esso, in quanto resta sempre aperta per
lui la possibilità della salvezza. Si capisce tuttavia da questa
ambigua posizione dell'uomo, che è al contempo il soggetto e
l'oggetto della pro-vocazione, che la tecnica non può in nessun modo
essere intesa come mezzo per gli scopi umani. L'essenza della tecnica
si rivela piuttosto come qualcosa che eccede l'operare umano: è ciò
che Heideggerr chiama Ge-stell,
im-posizione, inteso come «la riunione di quel ri-chiedere che
richiede, cioè pro-voca, l'uomo a disvelare il reale, nel modo
dell'impiego, come “fondo”. Im-posizione si chiama il modo di
disvelamento che vige nell'essenza della tecnica senza essere esso
stesso qualcosa di tecnico»9.
La tecnica moderna si dà perciò
come apparato sistemico, anonimo ed impersonale; come una forza
oggettiva che sovrasta il potere dell'uomo e che si realizza nel
dominio di quel mondo che la scienza moderna ha ridotto ad immagine e
del quale fa parte l'uomo stesso.
L'uomo,
perciò, si trova «sradicato» dalla terra che voleva dominare:
«tutto ciò che resta è una situazione puramente tecnica. Non è
più la Terra quella su cui oggi l'uomo vive»10.
Laddove l'uomo «è solo più colui che impiega il “fondo” -
allora l'uomo cammina sull'orlo del precipizio, cioè là dove egli
stesso può essere preso solo più come “fondo”»11.
Ma,
come ricorda il verso citato sopra, nello stesso pericolo si radica
anche la possibilità della salvezza, che risiede per Heidegger nel
rapporto autentico dell'esserci all'essere degli enti. Nel
riconoscere l'essenza della tecnica si apre la possibilità per
l'uomo di «custodire la disvelatezza e con essa sempre anzitutto
l'esser nascosto di ogni essenza su questa terra»12.
Questo può avvenire soltanto nell'ambito dell'arte e in particolar
modo nella poesia, che ha il compito di mantenere aperta la
possibilità del disvelamento essenziale.
Si
vede bene, tuttavia, come questa sia l'ultima speranza nella
disperazione: dinnanzi alla potenza della tecnica non c'è più nulla
da fare, secondo Heidegger; la prassi è completamente impotente e
paralizzata. Da ciò consegue coerentemente l'ultimo appello del
filosofo, che invita a «preparare nel pensare e nel poetare, una
disponibilità all'apparizione del Dio o all'assenza del Dio nel
tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi
tramontiamo)», perché «ormai solo un Dio ci può salvare»13.
Adorno
e lo scandalo della contraddizione
La
tecnica come strumento del dominio si è risolta nel dominio della
tecnica; l'uomo come subjectum
è
divenuto esso stesso oggetto del Ge-stell.
Questi termini heideggeriani esprimono ciò che Horkeimer e Adorno
hanno definito dialettica
dell'illuminismo.
L'illuminismo è da essi inteso in senso lato come il movimento
dialettico della razionalità che nella sua evoluzione considera ogni
sua precedente oggettivazione al pari di un mito, e che al contempo
essa stessa si trasforma sempre inconsapevolmente in un ulteriore
mito. Non soltanto, ma la ragione che deve servire l'uomo nel suo
processo di emancipazione e dominio della realtà, si rivela come ciò
che distanzia l'uomo dal suo oggetto, lo aliena e lo sottomette al
dominio anonimo della realtà esistente.
Se
l'illuminismo in questo senso lato è rintracciabile già nel tessuto
narrativo dell'epica classica, ed è dunque caratteristico di tutta
la storia dell'Occidente, esso assume una peculiare forma con
l'illuminismo propriamente detto o, più in generale, con la
modernità.
Horkeimer e Adorno
rilevano le medesime caratteristiche esposte da Heidegger: il
carattere quantitativo della conoscenza come ciò che viene assunto a
modello gnoseologico della modernità, il carattere utilitaristico
del sapere-potere nel progetto dell'uomo di assoggettare a sé la
natura. Ma al contempo Horkeimer e Adorno vanno più in profondità
nell'analisi filosofica delle conseguenze della modernità.
La
ragione, anticamente intesa in senso oggettivo, come ordine
dell'intero, viene degradata a mezzo soggettivo della conoscenza, che
non è più in grado di stabilire fini validi per la prassi umana, né
di conoscere ontologicamente e valutare assiologicamente il mondo
dell'uomo. La ragione viene piuttosto intesa come ciò che fa
corrispondere ad un fine arbitrario il mezzo più adeguato: diviene
ragione strumentale, che è il riflesso ideologico dell'accettazione
del mondo dato. L'illuminismo, con la sua critica distruttiva, dopo
aver eliminato i residui metafisici della Scolastica, si è
gradualmente volto contro se stesso, finendo col considerare privi di
significato i concetti stessi di “ragione”, “libertà”,
“giustizia”, ecc., in base ai quali aveva condotto la sua lotta
originaria14.
Formalizzandosi
e riducendosi ad «apparato matematico» per la conoscenza del mondo,
la ragione finisce con l'esserne il mero rispecchiamento, sicché
«ciò che appare come un trionfo della razionalità soggettiva, la
sottomissione di tutto ciò che è al formalismo logico, è pagato
con la docile sottomissione della ragione a ciò che è dato
senz'altro»15.
Ogni conoscenza effettiva, che consisterebbe nell'andare oltre il
dato, per scoprire la mediazione con la negazione dell'immediatezza,
è resa per principio impossibile16.
Così come la mitologia era l'espressione simbolica dell'esistente,
così anche l'illuminismo finisce per essere mitologico.
In
questa critica all'illuminismo, che è molto simile alla hegeliana
critica alle categorie astratte dell'intelletto ripresa e sviluppata
da Lukács,
si deve vedere anche una polemica condotta dai francofortesi nei
confronti delle più diffuse tendenze della filosofia contemporanea
(che oggi, a distanza di più di sessanta anni dal loro saggio, si
sono forse ulteriormente accentuate): il neopositivismo logico, il
neokantismo, il pragmatismo americano e la filosofia analitica del
linguaggio. Questi modi di intendere la filosofia sono integralmente
aderenti all'unica «dimensione»
del pensiero (come sostiene anche Marcuse) che costituisce
l'ideologia dominante e che, in quanto tale, deve neutralizzare ogni
discorso rivoluzionario ed ogni conoscenza concreta per eternizzare
il mondo esistente.
In
questo modo l'individuo si sottomette al dominio reificante
dell'esistente, dal quale non sfugge né chi si trova in posizione
privilegiata, né chi è palesemente sfruttato. Horkerimer e Adorno
richiamano l'episodio di Odisseo che si fa incatenare all'albero
della nave per non essere tentato dal canto ammaliatore delle sirene,
mentre ai suoi compagni egli ha tappato le orecchie e impartito il
compito di non smettere di remare. Così, nella società odierna,
ciascuno è legato al proprio ruolo sociale senza la possibilità di
trascenderlo: la classe dei proprietari si tiene a forzata distanza
dal godimento anche quando avrebbe la possibilità di approfittarne,
mentre i proletari sono costretti a lavorare, inconsapevoli
dell'esistenza della liberazione possibile. Citando la dialettica del
rapporto tra il servo e il signore della Fenomenologia
hegeliana,
gli autori affermano così che «lo schiavo resta soggiogato nel
corpo e nell'anima, il signore regredisce»17.
Ma
il lavoratore della società tardo-capitalista non è soggiogato
soltanto dall'apparato della produzione materiale: egli è legato al
dominio del sistema anche «al cinema e nel collettivo»18.
Il miglioramento del tenore di vita, la riduzione dell'orario di
lavoro rispetto ai primi decenni dell'industrializzazione
capitalistica, lungi dall'essere mezzi di reale emancipazione del
proletariato, non sono altro che subdoli mezzi di
manipolazione. Come scriverà più tardi Guy Debord, l'operaio,
«improvvisamente
ripulito del disprezzo totale chiaramente espressogli da tutte le
modalità di organizzazione e di sorveglianza della produzione, si
ritrova ogni giorno, al di fuori di questa, sotto il travestimento
del consumatore, trattato apparentemente come una persona di
riguardo, con una premurosa cortesia. Allora
l’umanismo
della merce si
prende cura del “tempo libero e dell’umanità” del
lavoratore»19.
Quest'egemonia
del sistema che sussume sotto le sue regole razionali (nel senso
weberiano del termine) tutta l'esistenza degli individui massificati,
è resa possibile dall'industria
culturale.
Quest'ultima non è solo l'insieme dei produttori di merci culturali,
come film, programmi radio, pubblicità, ma è qualcosa di molto
simile al Ge-stell
heideggeriano,
anche se inteso in senso ancora più pervasivo: esso corrisponde in
un certo senso all'intero mondo sociale in cui vive l'uomo, che è
divenuto falso20
e all'interno del quale non è più possibile un'esistenza autentica:
«non
si dà vera vita nella falsa»21.
L'industria culturale riduce ogni individualità a elemento
intercambiabile della massa, ogni elemento che sembra caratterizzare
la particolarità è già programmato e spacciato falsamente come
naturale22.
Così anche l'idea illuministica di soggetto come fondamento perde di
ogni significato.
La
standardizzazione non caratterizza soltanto i fruitori delle merci
spettacolari, ma i prodotti stessi dell'industria culturale, che
nella loro apparente diversità sono tramite semiotico sempre dello
stesso messaggio, il quale è volto ad esaltare le condizioni di
vita. Esso agisce in base a quella tecnica che Lukács
chiama «apologetica
indiretta», che non occulta le contraddizioni della società
capitalistica, ma afferma l'impossibilità di superarle e ne dà
un'interpretazione che funge da sostegno ideologico al sistema
stesso23.
L'industria culturale, infatti, mostra la riproduzione fedele della
realtà, che viene ripetuta all'infinito e di fronte alla quale cade
il dubbio che possa esistere un'alternativa. Così facendo, essa è
costretta a mostrare anche il dolore, il tragico dell'esistenza, che
«assume così l'aspetto del destino»24.
Con
l'esperienza estetica quotidiana, l'uomo della massa viene distratto
mediante il divertimento (amusement),
che, come già sapeva Pascal, non è altro che un pretesto per
impedire all'uomo di pensare, di comprendere la propria condizione e
le cause che la pongono in essere25.
Nell'industria culturale e nella pubblicità, che ne è espressione,
«la tecnica diventa psicotecnica, tecnica della manipolazione degli
esseri umani»26,
che trasforma la libertà individuale, su cui dovrebbe fondarsi la
società contemporanea laddove essa si dichiara democratica, in
un'illusione: «la libertà del sempre uguale»27.
Nel
mondo falso ogni cosa che appare cela il suo contrario, la verità
soppressa: compito della teoria critica è individuare quest'ultimo,
nella sua relazione dialettica con l'esistente, ma con l'amara
consapevolezza che tale dialettica è destinata a fermarsi allo
stadio della contraddizione (Dialettica negativa), poiché la
realtà è pietrificata dal potere capitalistico ed è ormai troppo
difficile individuare una strada che porti al superamento della
contraddizione e ad uno stadio di realtà più elevato.
L'industria
culturale infatti registra nel suo catalogo la voce che oppone
resistenza e la riassorbe entro le sue logiche: il destino dei libri
di Horkeimer e Adorno, oggi, è infatti quello di trovare spazio
negli scaffali delle grandi catene librarie, che magari lo mettono
anche in sconto promuovendolo come il più bel testo di critica
sociale. D'altra parte, chi si estraniasse completamente e non
accettasse alcun compromesso, sarebbe costretto al silenzio, che è
sintomo forse ancora più forte di impotenza28.
L'intellettuale
è perciò uguale a ogni altro individuo e la sua resistenza nei
confronti dell'esistente resta meramente simbolica. Ciò che lo
differenzia dall'uomo medio è soltanto la consapevolezza di vivere
lo scandalo della contraddizione secondo la quale «ogni sforzo di
sottrarsi reca i tratti di ciò che è negato»29.
Ciò
che resta della vita vera non è che apparenza, sospetto, come un che
di rimosso, che giace nell'inconscio ed informa di sé alcuni momenti
della vita in cui può riaffiorare. L'ultima speranza è perciò data
da questi frammenti di realtà, che portano con sé la concretezza
dell'utopia, rivelando la possibilità di un mondo più umano30.
Quest'utopia
può trovare espressione nell'opera d'arte. Anche questa è intessuta
di contraddizioni: da un lato, l'arte seria è ed è sempre state
elitaria e borghese, potendo esprimersi in indipendenza proprio
grazie a quel sistema che essa negava; dall'altro essa è ridotta a
merce dell'industria culturale, resa accessibile a tutti e perciò
stesso degradata31.
La
perdita dell'«aura» descritta da Benjamin32
è per Adorno la perdita dell'ultimo baluardo di salvezza. Adorno non
crede al potenziale emancipativo della diffusione dell'arte. Se per
Benjamin la fotografia e soprattutto il cinema possono mostrare la
realtà quotidiana in dettagli che nella vita abitudinaria non
vengono colti e può perciò far emergere elementi inconsci sui quali
le masse sono chiamate ad esprimersi, e può perciò avere una
funzione critica fondamentale33,
per Adorno il cinema non è altro che la riproduzione ideologica
della vita sociale. Benjamin non è estraneo alla critica adorniana e
ritiene anch'egli che nel mondo occidentale il cinema sia al servizio
del potere capitalistico, ma pone come esempio alternativo il cinema
dell'Unione sovietica, dove ciascuno può esprime se stesso e
riprodurre il proprio lavoro dinanzi alla macchina da presa34.
Adorno rifiuta invece questo principio di possibile democratizzazione
dell'arte, in quanto essa richiede specifiche competenze tecniche che
la massa non può acquisire.
L'opera
d'arte autentica esprime per Adorno un contenuto di verità sotto la
forma di un «enigma», di un «crittogramma» da interpretare
mediante la riflessione filosofica. L'arte trae la sua origine dalla
realtà concreta, di cui è l'immagine trasformata e, in quanto tale,
rimanda ad un contenuto che è altro da sé, che essa non può
esprimere: la verità dell'arte è l'utopia. È chiaro dunque che per
Adorno il contenuto emancipativo dell'arte resta prerogativa del
filosofo, dell'intellettuale che si rapporta ad essa e non può
essere accessibile alle masse.
L'opera
d'arte, sorgendo all'interno di uno specifico contesto
storico-sociale, non può trascenderlo: si identifica con esso e solo
mediante la negazione, la mediazione dell'interprete, essa giunge
oltre se stessa. L'arte è così una «promessa di felicità», che
tuttavia «non viene mantenuta»35.
Si
vede dunque come per Adorno la possibilità di resistenza al sistema
risieda unicamente nella coscienza dell'individuo che coglie il
negativo, che vive la contraddizione, senza possibilità di una
traduzione di questa consapevolezza in una prassi rovesciante.
Così
Horkeimer, che nella sua ultima fase imprime alla teoria critica un
indirizzo di resistenza, di contro all'iniziale spirito di rivolta,
giunge ad affermare: «Dobbiamo preservare quel che un tempo si
chiamava liberalismo, l'autonomia del singolo … ciò che conta per
noi è assicurare l'autonomia personale al maggior numero possibile
di soggetti, rafforzare una situazione sociale dove il singolo possa
dispiegare le proprie forze»36.
La
riflessione di questo pensatore culmina così, similmente a quella
heideggeriana, in una speranza rivolta al «totalmente altro»:
nonostante sia per lui impossibile credere nell'esistenza di un
essere sommamente buono, poiché sarebbe contraddetta dalle storture
del mondo reale, si appella a un principio trascendente, nei
confronti del quale la coscienza sperimenta il sentimento della
Sensucht,
che possa fondare «la
speranza che, nonostante questa ingiustizia, che caratterizza il
mondo, non possa avvenire che l'ingiustizia possa essere l'ultima
parola»37.
Lukács
e la ragione dialettica
Lukács
si è espresso criticamente nei confronti sia di Hiedegger che di
Adorno. Egli riconduce la filosofia heideggeriana nell'ambito della
storia dell'irrazionalismo tedesco, la cui origine rintraccia
nell'intuizione
intellettuale di Schelling e la cui conclusione trova nella barbarie
nazista. Più precisamente, la filosofia di Heidegger, intesa come
filosofia dell'esistenza (il riferimento è soprattutto a Essere
e tempo),
viene vista da Lukács come una variante della filosofia della vita,
che si differenzia da questa pone il soggetto di fronte ad un mondo
che, in seguito alla guerra mondiale, «è diventato un cumulo di
rovine»38.
Il soggetto individuale è l'unico elemento del mondo che ancora «si
cerca di salvare da questa generale e incombente rovina»39.
La
filosofia heideggeriana, che pone la possibilità più in alto della
realtà, cerca secondo Lukács di compiere un salto nel vuoto, di
negare la realtà senza poterla superare realmente, e unicamente in
vista della salvezza dell'individuo. Con ciò Heidegger capovolge la
filosofia hegelo-marxiana di cui Lukács è originale interprete,
secondo la quale la possibilità si dà soltanto come concretezza del
movimento dialettico del reale, che si tratta di comprendere per
fondare una prassi collettiva che possa superare il modo di
produzione capitalistico.
Ciò
che Lukács critica costantemente in tutti gli autori che compaiono
nella sua storia dell'irrazionalismo è soprattutto la mancata
comprensione della storia intesa come processo unitario e
progressivo. Questa tematica è centrale in tutta l'opera del
filosofo marxista, già a partire da Storia
e coscienza di classe (1923),
testo che sarà poi da lui rinnegato come «idealista», in seguito
alla condanna da parte dei gerarchi sovietici.
Lukács
vede nella descrizione heideggeriana dell'esistenza inautentica del
«Si» (che peraltro ha notevoli somiglianze con alcuni passaggi di
Horkeimer e Adorno sull'industria culturale) un «quadro vero e
fedele»40
della realtà sociale del dopoguerra e tuttavia rimprovera al
filosofo tedesco di non essere stato in grado (per ragioni
ideologiche) di mostrare quali fossero le cause «sociali e storiche
di quelle esperienze»41.
In tal modo, rileva Lukács, il «Si» viene inteso da Heidegger come
un male necessario dell'esistenza sociale dell'uomo e conseguenza di
questo non può che essere il catalogare la storia reale e universale
degli uomini come «storia impropria», in quanto la «storia
propria» viene ad essere intesa sulla base soggettivista
dell'Esserci, sulla sua esistenza come «nesso della vita fra la
nascita e la morte»42.
L'esistenza
autentica, che si stacca dell'impersonalità del quotidiano e che
conosce la verità dell'essere, non può essere accessibile a tutti,
«l'irresolutezza del si impersonale – dice Heidegger – rimane
ugualmente al potere». Il soggettivismo heideggeriano si risolve
quindi, nella lettura di Lukács, da un lato nell'accettazione
dell'esistente, dall'altro in un sostegno filosofico alle tendenze
antidemocratiche43.
Ma
si è visto come anche la filosofia di Horkeimer e Adorno finisca col
porre nell'individuo l'unica possibilità di salvezza. Lukács
riconosce in gran parte la correttezza delle analisi di questi
autori, ma critica aspramente il loro rifiuto di qualsiasi prassi,
che diviene anche nei loro scritti una supina e ideologica
accettazione della società capitalistica. Così, nella prefazione ad
una riedizione del 1962 della sua Teoria
del romanzo,
Lukács scriverà che «una
parte considerevole della migliore intellighenzia tedesca, fra cui lo
stesso Adorno, ha preso alloggio – come scrissi in una mia critica
a Schopenhauer – presso il “Grand Hotel dell’Abisso”»44.
Questo Hotel, «fornito
di ogni comodità», è costruito «sull'orlo dell'abisso, del nulla
e dell'assurdità»45.
Fuor di metafora, la critica che Lukács aveva volto a Schopenhauer e
che ora rivolge ad Adorno è di aver perfettamente compresso
l'assurdità del mondo capitalistico, ma di mantenersi da essa a
debita distanza, come uno spettatore che guarda di lontano un triste
spettacolo, con la certezza di essere al sicuro e di poter godere di
«ogni comodità»46.
In tal modo anche la filosofia critica si trasforma in una
«apologetica indiretta» del sistema capitalistico.
Questa
accusa coglie sicuramente un elemento di verità, ma del resto Adorno
stesso, come si è visto, era pienamente consapevole di questa
contraddizione. Ciò che Lukács non può tollerare, tuttavia, è
proprio la dialettica negativa, l'«irretimento» (il termine è
adorniano47)
nella contraddizione e la perdita di ogni speranza. Lukács considera
questo un atteggiamento di disperazione irrazionalistica che,
privandosi della possibilità di comprensione e azione (stante il
nesso strettissimo tra teoria e prassi istituito da Lukács già
nella sua opera del 1923), non fa che favorire l'avversario, con il
rischio concreto di permettere il sopravanzare del fascismo sulle
masse impotenti.
Con
Heidegger, Horkeimer e Adorno, Lukács condivide invece la critica
alla ragione soggettivo-strumentale, trattando il problema in termine
molto simili48.
Ma aggiunge a questa critica, come si è accennato, una disamina
attenta e dettagliata dell'irrazionalismo inteso come distruzione
filosofica della ragione. In questa forma di degradazione della
coscienza egli rintraccia una delle principali forme di «filosofia
reazionaria» che, se con Schelling è ancora rivolta al passato
pre-borghese, con Schopenhauer diviene ideologia propria della
borghesia decadente, fino a fondare filosoficamente l'aggressione
imperialistica del capitale e infine il dominio irrazionale del
fascismo hitleriano.
Fedele
all'assunto marxiano per cui la coscienza è determinata dall'essere
sociale Lukács ritiene che prendere parte a favore o contro le
possibilità conoscitive dell'intero da parte della ragione
significhi al contempo prendere parte a favore o contro il progresso
sociale. Ora, essendo il metodo dialettico prima hegeliano e poi –
materialisticamente corretto – marxiano e marxista quella forma di
filosofia propensa a rintracciare nella storia un movimento
progressivo, ogni filosofia borghese reazionaria non può che nascere
«in continua lotta» con la dialettica49,
sia questo un processo genetico consapevole oppure no.
Caratteristiche
fondamentali del pensiero reazionario sono quindi «la svalutazione
dell'intelletto e della ragione, l'esaltazione acritica
dell'intuizione, l'aristocratica gnoseologia, il ripudio del
progresso storico-sociale, la creazione di miti ecc.»50.
Non
avrebbe senso qui dilungarsi nell'esporre la critica lukacciana a
ogni singolo pensatore (filosofo o sociologo) che egli prende in
considerazione ne La
distruzione della ragione.
Ciò che qui importa è constatare come Lukács abbia avuto il merito
di fornire un'accurata critica di una tendenza filosofica che solo
apparentemente è opposta al razionalismo illuministico, mentre ne è
in realtà il semplice risvolto. Più precisamente, la filosofia
razionalistica di stampo kantiano è intesa nella sua origine come
espressione del pensiero della borghesia quale classe rivoluzionaria.
Le categorie filosofiche che compaiono nel periodo della sua ascesa
sono al servizio della liquidazione di ogni residuo feudale della
società, come del resto aveva già notato Marx.
L'irrazionalismo
è l'espressione ideologica della medesima classe sociale, ma nel suo
periodo di decadenza, ossia nella fase della sua esistenza in cui si
inasprisce la lotta di classe in seguito all'acuirsi delle
contraddizioni tra lo sviluppo delle forze produttive e la staticità
dei rapporti di produzione, alle crescenti vittorie del proletariato
(la Comune di Parigi, la Rivoluzione d'Ottobre), ai problemi legati
alla necessità di espandere i propri mercati a causa della
sovrapproduzione, ecc.
La
filosofia razionalistica borghese, del resto, contiene già in
nuce un
elemento irrazionalistico che diverrà predominante, in quanto fin
dall'inizio (con Kant) essa riconduce la conoscenza alle categorie
del soggetto, che suddividono il reale in regioni ontologicamente
autonome, che vengono contrapposte al soggetto e sottomesse ad
un'indagine quantitativa come unica conoscenza possibile. In tal modo
la filosofia escludeva dal proprio campo la conoscenza dell'intero
storico-sociale, che Lukács vede affermata soltanto in Hegel (ultimo
pensatore della fase ascendente della borghesia) e infine in Marx,
che supera e risolve i limiti idealistico-borghesi propri ancora di
Hegel stesso.
Nei
suoi saggi giovanili, poi rinnegati, raccolti sotto il titolo di
Storia
e coscienza di classe,
Lukács prospetta un genere di conoscenza razionale e dialettico che
si opponga efficacemente tanto al razionalismo formale quanto
all'irrazionalismo.
In
base ad un'interpretazione fortemente hegeliana del pensiero di Marx
Lukács individua nel proletariato la classe che, a causa delle
condizioni oggettive della sua esistenza, può pervenire ad una sorta
di «sapere assoluto». La coscienza di classe del proletariato
corrisponderebbe infatti all'autocoscienza dello spirito hegeliano,
che coglie se stesso nell'unità di soggetto e oggetto. Quest'ultima
significa qui che il proletariato è in grado di accedere alla
conoscenza della realtà al di là di ogni barriera ideologica, in
quanto esso non ha nessun interesse particolare da difendere e perciò
la sua coscienza non diviene «falsa», ossia ideologica, bensì
esprime una conoscenza razionale e oggettiva che porta con sé
l'universale verità del divenire storico.
Lukács
descrive il mondo contemporaneo a partire dalla categoria della
merce, sviluppando gli argomenti ad essa relativi del Capitale
marxiano
e finendo col fornire un'analisi dell'alienazione dell'operaio nel
processo produttivo che coincide in larga misura con quella dei
Manoscritti
economico-filosofici del 1844 che
non erano ancora stati ritrovati e che quindi Lukács non conosceva.
La
società capitalistica appare affetta dal fenomeno della
«reificazione», ossia dalla mercificazione di tutti i rapporti
sociali. L'organizzazione sistemica, che è determinata da precisi
rapporti tra persone e classi, viene occultata da «veli cosali» e
sembra così essere un rapporto del tutto naturale tra cose, che
nascondono la loro genesi reale, ossia il lavoro che sta alla base
della loro produzione. Il prodotto dell'attività lavorativa
dell'operaio si erge così di fronte ad esso come una forza estranea,
impersonale e autonoma, regolata da proprie leggi che l'ideologia
esprime nell'economia politica occultandone anche in questa forma la
genesi oggettiva.
In
questo sistema, le cui caratteristiche spersonalizzanti ricordano
tanto il Ge-stell
quanto
l'industria culturale, l'operaio trova se stesso «come uno strumento
accessorio meccanizzato e razionalizzato» di un «processo parziale»
del sistema di produzione, quindi si riconosce come merce
intercambiabile e perde l'«illusione» di essere un autonomo
«soggetto della propria vita»51.
Citando Max Weber e il suo studio sull'«ascesi intramondana» quale
cifra dello spirito originario del capitalismo, egli riconosce come
questa alienazione sia propria anche del capitalista (come abbiamo
visto anche nella figura di Odisseo ripresa da Horkeimer e Adorno).
Ma per il capitalista, che trae profitto dalla sua condizione di
classe, questa condizione appare come «un attivo dispiegarsi del suo
soggetto»52.
Il proletario riconosce invece la sua condizione di brutale
asservimento53,
che trova la sua espressione manifesta nel problema del tempo di
lavoro, dove appare evidente che l'operaio non è altro che la sua
stessa forza-lavoro considerata come merce.
In
questa scissione la coscienza del proletario, che sa di essere
soggetto ma al contempo si riconosce unicamente come oggetto, può
giungere a comprendere la realtà del mondo in cui si trova.
Scoprendosi nella sua immediatezza come merce, il proletario può
comprendere come questa immediatezza non sia altro che «conseguenza
di molteplici mediazioni». Così, «nella merce, l'operaio riconosce
se stesso ed i suoi rapporti con il capitale. (…) la sua
autocoscienza è l'autocoscienza
della merce;
o, in altri termini: l'autocoscienza, l'autodisvelamento della
società capitalistica fondata sulla produzione e sullo scambio di
merci»54.
La
coscienza così risvegliata arriva quindi alla comprensione di ciò
che si cela dietro l'apparente legalità di questi rapporti: una
contingente organizzazione del sistema produttivo. Il mutamento di
questa condizione, naturalmente, non può essere puramente teorico,
ma implica di necessità un rovesciamento di questi rapporti e
l'instaurazione di una società senza classi. Su questo si fonda il
nesso tra teoria e prassi: l'autocoscienza del proletariato si
trasforma necessariamente in azione rivoluzionaria.
La
società reificata viene riportata alla sua genesi oggettiva, che è
costituita dal modo di produzione capitalistico e dai rapporti di
produzione che vedono una contrapposizione tra proprietari e
lavoratori. In questo contesto, la coscienza proletaria diviene
conoscenza della contraddizione reale del processo storico ed in essa
viene individuato anche l'unico passo che può essere compiuto in
direzione di un superamento della stessa: la rivoluzione.
Insistendo
sul carattere di coscienza
del
proletariato, Lukács rompe qui con la dogmatica di stampo
positivistico che ha investito buona parte del marxismo successivo a
Marx, secondo la quale il progresso storico verso il comunismo era
una necessità che sarebbe giunta a compimento a prescindere dalla
volontà dei singoli o delle classi. Per Lukács, invece, «una
necessità dialettica non è affatto identica ad una necessità
meccanico-causale»55
(si capisce quindi perché in quest'opera il filosofo rifiuta di
applicare il medesimo metodo dialettico sia alla storia che alla
natura). Affinché si compia il superamento della contraddizione è
indispensabile «l'attività cosciente degli uomini»56.
Tale
coscienza, tuttavia, può essere soltanto «coscienza di classe»,
non soltanto perché la prassi può avere efficacia solo se
collettivamente organizzata, ma anche e soprattutto perché tale
coscienza, per essere autentica, deve giungere a comprensione del
fatto che la situazione del singolo proletario coincide con quella di
tutti i proletari ed è determinata ad essere tale da cause
storico-sociali ben precise, che come forniscono un'univoca
spiegazione genetica della reificazione capitalistica, così anche
indicano un'univoca strada per l'azione rivoluzionaria.
La
storia non procede autonomamente, ma ad ogni stadio pone le
condizioni oggettive per la possibilità dell'oltrepassamento, il
quale può essere compiuto solo con l'azione cosciente degli uomini.
Così le contraddizioni della società capitalistica, insieme con lo
sviluppo delle forze produttive, generano la possibilità oggettiva
della realizzazione del socialismo, che tuttavia non verrà se la
coscienza di classe del proletariato sarà impedita a formarsi dalla
forza dell'ideologia antagonista, o da altre contingenze storiche
imprevedibili.
L'alternativa
che ci si deve porre oggi credo sia tra il riconoscere con Heidegger
che «la
filosofia è alla fine»57
e rassegnarsi con essa alla fine (capitalistica) della storia, oppure
tentare la ricostruzione di un'utopia concreta, a partire dalla
convinzione ancor valida di Lukács seconda la quale
soltanto
se l'uomo è in grado di afferrare il presente, in quanto riconosce
in esso quelle tendenze dal cui contrasto dialettico egli è capace
di creare
il
futuro, il presente, il presente come divenire diventa il suo
presente.
Solo chi ha la vocazione e la volontà di approssimare il futuro, può
vedere la verità concreta del presente58.
1M.
Heidegger, L'epoca dell'immagine del mondo,
in Id., Sentieri interrotti,
a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 19993,
pp. 83-84.
2Ivi,
p. 87.
3Ivi,
p. 99.
4Cfr.
Ivi, p. 72.
5Cfr.
M. Heidegger, La questione della tecnica,
in Id., Saggi e discorsi,
a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 9-10.
6Id.,
L'essenza della verità, a
cura di F. Volpi, Adelphi 1997, p. 86.
7Id.,
La questione della tecnica cit.,
p. 22.
8Ivi,
p. 13.
9Ivi,
p. 15.
10Id.,
Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo Spiegel,
a cura di A. Marini, Ugo Guanda, Parma 1987, p. 134.
11Id.,
La questione della tecnica cit.,
pp. 20-21.
12Ivi,
p. 24.
13Id.,
Ormai solo un Dio ci può salvare cit.,
p. 136.
14Cfr.
M. Horkeimer, Sul concetto di ragione,
in E. Donaggio (a cura di), La scuola di Francoforte. La
storia e i testi, Einaudi,
Torino 2005, pp. 195 e ss.
15M.
Horkeimer, T. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo,
tr. it di R. Solmi, Einaudi, Torino 20105,
p. 34.
16Ibidem.
17Ivi,
p. 43.
18Ivi,
p. 44.
19G.
Debord, La società dello spettacolo,
tesi 43,
http://www.marxists.org/italiano/sezione/filosofia/debord/societa-spettacolo.htm#6
(url visitato in data 01/07/'13)
20
«Il tutto è il falso» secondo T. W. Adorno, Minima
moralia. Meditazioni della vita offesa,
tr. it. R. Solmi, Einaudi, Torino 2005, p. 48.
21Ivi,
p. 35.
22M.
Horkeimer, T. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo cit.,
p. 166.
24M.
Horkeimer, T. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo cit.,
p. 163.
25Ivi,
p. 154.
26Ivi,
p. 177.
27Ivi,
p. 181.
28Cfr.
Ivi, pp. 139-141.
29T.
W. Adorno, Minima moralia cit.,
p. 18.
30Cfr.
Ivi, pp. 58-61; ma questo è
un motivo che percorre tutto il libro.
31M.
Horkeimer, T. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo cit.,
p. 143, 173.
32W.
Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità
tecnica. Arte e società di massa,
tr. it. E. Filippini, Einaudi, Torino 20003,
p. 23.
33Cfr.
Ivi, pp. 40-42.
34Ivi,
p. 36.
35T.
W. Adorno, Teoria estetica,
a cura di F. Desideri e G. Matteucci, Einaudi, Torino 2009, p. 182.
Per quanto detto sopra, cfr. anche le pp. 45, 172-182.
36M.
Horkeimer, La teoria critica ieri e oggi,
in E. Donaggio (a cura di), La Scuola di Francoforte cit.,
p. 381.
39Ivi,
p. 499-500.
40Ivi,
p. 507.
41Ibidem.
42Ivi,
pp. 518 e ss.
43Ivi,
p. 515, 509.
44Il
testo di questa prefazione è disponibile all'indirizzo
http://gyorgyLukács.wordpress.com/i-testi/teoria-del-romanzo/premessa-1962/
(url visitato in data 02/07/2013)
45G.
Lukács, La distruzione della ragione cit.,
p. 248.
46La
tematica del rapporto tra il filosofo e la realtà nella metafora
dello spettatore è stata illustrata in senso storico in H.
Blumenberg, Naufragio con spettatore,
Il Mulino, Milano 2001.
47T.
W. Adorno, Minima moralia cit.,
pp. 18-19.
48Cfr.
G. Lukács, Storia e coscienza di classe,
tr. it. G. Piena, SugarCo, Milano 1991, pp. 1-34, 59-106, 144-196.
49G.
Lukács, La distruzione della ragione cit.,
p. 6
50Ivi,
p. 10.
51G.
Lukács, Storia e coscienza di classe cit.,
pp. 218-219.
52Ivi,
p. 219.
53Ibidem.
54Ivi,
p. 222.
55Ivi,
p. 234.
56Ivi,
p. 235
57M.
Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare cit.,
p. 137.
58G.
Lukács, Storia e coscienza di classe cit., p. 269.
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