giovedì 22 agosto 2013

Ragione, tecnica, dominio. Heidegger, Adorno, Lukács

Di seguito la mia tesina per un esame sul tema della Tecnica.

Introduzione
Là dove la riflessione filosofica del Novecento si è rivolta alla considerazione della realtà sociale dell'uomo contemporaneo si possono notare motivi di convergenza tra pensatori per altro diversissimi: Heidegger, Horkeimer, Adorno e Lukács sono forse tra i più significativi in questa prospettiva. Le loro rispettive esperienze biografiche motivano tangibilmente le loro divergenze: Heidegger visse nella Germania hitleriana e visse sotto il regime del Führer tutte le contraddizioni della sua politica spregiudicata, subendone in diverse occasioni l'ingiusto arbitrio. Pur avendo inizialmente riposto le sue speranze nel nazionalsocialismo, fu infine costretto dall'evidenza dei fatti a riconoscere che la «rottura» da esso compiuta nei confronti del passato non era portatrice di un migliore avvenire.
Horkeimer e Adorno, marxisti di formazione, lasciarono la Germania nello stesso periodo ed emigrarono negli Stati Uniti, dove continuarono le loro ricerche. Fuggendo l'orrore fascista, tuttavia, essi approdarono in un Paese che si avviava ad estendere il suo dominio sui paesi Europei che usciranno stremati dalla guerra. Con la sua politica liberale ma severamente anticomunista, gli Stati Uniti erano il luogo dove il volto nuovo del capitalismo era già pienamente riconoscibile: l'estetizzazione stava ormai prendendo il posto del feticismo delle merci, mutandone la forma ed aggravandone la sostanza. Il capitalismo si avviava così a mostrare il suo carattere totalitario, abilmente nascosto dall'ideologia che proclama tutti uguali e tutti parimenti dotati delle medesime opportunità. Ma l'altra metà del mondo, cioè l'area sovietica, non costituiva per Adorno e Horkeimer il polo verso il quale tendere, bensì un'ennesima forma di dominio brutale dell'uomo sull'uomo, mediato dalla tecnica e servito dalla violenza.
Lukács, infine, visse e in gran parte condivise la politica sovietica, nonostante questa l'avesse in diversi casi osteggiato. Egli si avvicinò gradualmente alla dogmatica filosofica del regime, finendo con l'abbracciare la versione ufficiale del materialismo dialettico marxista-leninista. La sua convinzione politica permise al suo pensiero di rimanere sempre segnato dalla fiducia nel movimento progressivo della storia, in direzione dell'avvento del socialismo.
Nonostante queste differenze, si diceva, fra questi pensatori è possibile rintracciare dei motivi comuni, che illuminano da diverse prospettive la realtà sociale dell'uomo contemporaneo, che ha perso la sua libertà nel dominio del Ge-stell, della falsità universale, della feticizzazione capitalistica, ecc.
Nelle considerazioni che seguono cerchiamo di illustrare brevemente questi tratti comuni e le relative (non-) soluzioni avanzate dagli autori.



Heidegger e il dominio della tecnica
Heidegger rileva che uno dei caratteri peculiari della modernità è la scienza della natura. Essa si caratterizza come un'indagine quantitativa della natura, considerata come oggetto della rappresentazione del soggetto. Il rappresentare ha la forma di un porre-innanzi (vor-stellen) l'ente, che si concretizza nello stabilire a priori un progetto della natura. Questo significa che a partire da categorie fisico-matematiche si stabilisce a priori la modalità in base alla quale la natura dovrà presentarsi, rendersi visibile, allo scienziato. Il rappresentare, quindi, «mira a presentare ogni ente in modo tale che l'uomo calcolatore possa esser sicuro, cioè certo dell'ente»1. La verità è perciò ricondotta all'esattezza, garantita dalla certezza del rappresentare. Questo trova la sua originaria formulazione in Cartesio, la cui metafisica stabilisce quell'interpretazione dell'ente che verrà mantenuta sino a Nietzsche e che per Heidegger avrà come conseguenza e culmine il dominio della tecnica.
Ma perché questa interpretazione sia possibile, è necessario che l'uomo, colui che indaga, si ponga di fronte alla natura come subjectum, cioè come ciò che sta-prima, che costituisce il fondamento dell'essere. Con l'età moderna, l'uomo eleva se stesso (la sua facoltà conoscitiva) a principio fondante dell'essere degli enti e della loro verità. In tal modo il mondo viene ridotto a immagine: «l'ente nel suo insieme è assunto come ciò in cui l'uomo si orienta, e quindi come ciò che egli vuol portare innanzi a sé e avere innanzi a sé; e quindi, in un senso decisivo, come ciò che vuol porre innanzi a sé [vor-stellen], rappresentarsi»2.
L'ente viene considerato, nella sua semplice presenza, come disponibile per l'uomo, per la sua indagine conoscitiva e per l'applicazione di questa nella forma del potere e del dominio sul mondo, secondo l'assunto baconiano per cui il sapere equivale al potere. Con le parole di Heidegger, «l'uomo pone in giuoco la potenza illimitata dei suoi calcoli, della pianificazione e del controllo di tutte le cose»3.
Il dominio dell'uomo sulla natura si attua mediante la tecnica, che non va però confusa come la semplice applicazione dei principi della scienza, come se fosse il medio attraverso il quale la scienza signoreggia il mondo. La tecnica stessa, infatti, è a sua volta una trasformazione della prassi che, anziché presupporlo, richiede l'uso della conoscenza matematica e scientifica. Dipende anch'essa dalla trasformazione del mondo in immagine, ciò che equivale, filosoficamente, alla confusione e quindi alla identificazione di essere ed ente, inteso come ciò che si dà alla rappresentazione nella sua semplice presenza4.
Per comprendere che cosa sia la tecnica occorre domandare circa la sua essenza. Nell'indagarla, si scopre, appunto, l'insufficienza di considerare la tecnica come instrumentum. Si tratta di una risposta inadeguata, antropologica, che si illude di poter sottomettere la tecnica al dominio dell'uomo, risolvendo i problemi da essa posti semplicemente con un impiego migliore delle sue potenzialità. In realtà la tecnica è sfuggita al controllo dell'uomo, che è ormai ad essa soggetto. In maniera simile a ciò che sarà descritta da Horkeimer e Adorno come dialettica dell'illuminismo, il tentativo dell'uomo di dominare la natura mediante la tecnica si capovolge nel dominio della tecnica sull'uomo. Non si può allora ritenere che la tecnica sia un semplice mezzo: occorre domandare più radicalmente.
Secondo il metodo consueto dello Heidegger successivo alla cosiddetta «svolta», il filosofo riscopre i significati inespressi della terminologia originaria greca. Nel campo semantico di τέχνη sono compresi tutti i modi della produzione, sia artigianale che artistica: essa è perciò immediatamente legata alla ποίησις. Quest'ultima è la pro-duzione di qualcosa che per esistere ha bisogno dell'intervento umano, il quale conduce un nascosto all'apparire nella dis-velatezza. La τέχνη è infatti legata, in greco, anche all'επιστήμη, che è il sapere, l'intendersi di qualcosa, che, in quanto tale, è una modalità del dis-velamento, cioè dell'αλήθεια (il non-velato, la verità)5.
Questo è significativo in quanto per Heidegger ogni autentico rapporto dell'esserci con l'ente riguarda il suo carattere di s-velatezza. Nel comprendere l'ente come ciò che è dis-velato, infatti, si dà la possibilità di comprendere la differenza ontologica tra ente ed essere. Soltanto in base a questa comprensione l'uomo può rapportarsi all'ente nella dimensione fondamentale della cura, che è la forma della libertà con cui l'esserci si vincola pro-gettualmente all'essere. «Divenire-liberi significa comprendere l'essere in quanto tale e soltanto questa comprensione fa essere l'ente in quanto ente»6.
Se la tecnica – tanto quella antica quanto quella moderna – è dis-velatezza, significa che nell'adeguata comprensione di essa si dà anche la possibilità di un diverso rapporto con essa. Già da questa chiarificazione sull'essenza della tecnica si comprende perché Heidegger potrà citare, nel seguito del suo saggio su La questione della tecnica, un verso di Hölderlin per il quale «là dove c'è il pericolo, cresce / anche ciò che salva»7.
Ma perché la tecnica è il luogo del pericolo? Un pericolo dinnanzi al quale la salvezza può essere soltanto una speranza e mai una certezza? Per comprenderlo occorre seguire Heidegger nell'ulteriore caratterizzazione dell'essenza della tecnica moderna.
Essa, a differenza della tecnica antica, non appartiene all'ambito della ποίησις. Il dis-velamento che la caratterizza si dà nella forma della pro-vocazione (Herausfordern), nel senso che la natura viene vista come una riserva infinita di risorse a disposizione dell'uomo, le quali vengono sottoposte ad un calcolo utilitario per poter essere sfruttate al massimo con il minimo costo. L'oggetto che viene dis-velato in questa pro-vocazione è inteso meramente come «fondo», come ciò che è «impiegabile». La natura è solo il punto di partenza dell'intero processo di pro-vocazione e impiego, in quanto ciò che fornisce l'energia e le materie prime. Ma lo stesso avviene ai livelli più avanzati, dove le stesse macchine, cioè gli stessi mezzi della tecnica, vengono intesi come «fondo» e quindi non più in base alla reale essenza della tecnica come dis-velamento.
Chi compie questa pro-vocazione mediante la quale il reale si dis-vela come fondo è l'uomo, ma egli lo può fare «solo nella misura in cui... è già, da parte sua, pro-vocato a mettere allo scoperto le energie della natura»8. L'uomo è perciò esso stesso impiegato come «fondo», anche se mai completamente riducibile ad esso, in quanto resta sempre aperta per lui la possibilità della salvezza. Si capisce tuttavia da questa ambigua posizione dell'uomo, che è al contempo il soggetto e l'oggetto della pro-vocazione, che la tecnica non può in nessun modo essere intesa come mezzo per gli scopi umani. L'essenza della tecnica si rivela piuttosto come qualcosa che eccede l'operare umano: è ciò che Heideggerr chiama Ge-stell, im-posizione, inteso come «la riunione di quel ri-chiedere che richiede, cioè pro-voca, l'uomo a disvelare il reale, nel modo dell'impiego, come “fondo”. Im-posizione si chiama il modo di disvelamento che vige nell'essenza della tecnica senza essere esso stesso qualcosa di tecnico»9.
La tecnica moderna si dà perciò come apparato sistemico, anonimo ed impersonale; come una forza oggettiva che sovrasta il potere dell'uomo e che si realizza nel dominio di quel mondo che la scienza moderna ha ridotto ad immagine e del quale fa parte l'uomo stesso.
L'uomo, perciò, si trova «sradicato» dalla terra che voleva dominare: «tutto ciò che resta è una situazione puramente tecnica. Non è più la Terra quella su cui oggi l'uomo vive»10. Laddove l'uomo «è solo più colui che impiega il “fondo” - allora l'uomo cammina sull'orlo del precipizio, cioè là dove egli stesso può essere preso solo più come “fondo”»11.
Ma, come ricorda il verso citato sopra, nello stesso pericolo si radica anche la possibilità della salvezza, che risiede per Heidegger nel rapporto autentico dell'esserci all'essere degli enti. Nel riconoscere l'essenza della tecnica si apre la possibilità per l'uomo di «custodire la disvelatezza e con essa sempre anzitutto l'esser nascosto di ogni essenza su questa terra»12. Questo può avvenire soltanto nell'ambito dell'arte e in particolar modo nella poesia, che ha il compito di mantenere aperta la possibilità del disvelamento essenziale.
Si vede bene, tuttavia, come questa sia l'ultima speranza nella disperazione: dinnanzi alla potenza della tecnica non c'è più nulla da fare, secondo Heidegger; la prassi è completamente impotente e paralizzata. Da ciò consegue coerentemente l'ultimo appello del filosofo, che invita a «preparare nel pensare e nel poetare, una disponibilità all'apparizione del Dio o all'assenza del Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo)», perché «ormai solo un Dio ci può salvare»13.



Adorno e lo scandalo della contraddizione
La tecnica come strumento del dominio si è risolta nel dominio della tecnica; l'uomo come subjectum è divenuto esso stesso oggetto del Ge-stell. Questi termini heideggeriani esprimono ciò che Horkeimer e Adorno hanno definito dialettica dell'illuminismo. L'illuminismo è da essi inteso in senso lato come il movimento dialettico della razionalità che nella sua evoluzione considera ogni sua precedente oggettivazione al pari di un mito, e che al contempo essa stessa si trasforma sempre inconsapevolmente in un ulteriore mito. Non soltanto, ma la ragione che deve servire l'uomo nel suo processo di emancipazione e dominio della realtà, si rivela come ciò che distanzia l'uomo dal suo oggetto, lo aliena e lo sottomette al dominio anonimo della realtà esistente.
Se l'illuminismo in questo senso lato è rintracciabile già nel tessuto narrativo dell'epica classica, ed è dunque caratteristico di tutta la storia dell'Occidente, esso assume una peculiare forma con l'illuminismo propriamente detto o, più in generale, con la modernità.
Horkeimer e Adorno rilevano le medesime caratteristiche esposte da Heidegger: il carattere quantitativo della conoscenza come ciò che viene assunto a modello gnoseologico della modernità, il carattere utilitaristico del sapere-potere nel progetto dell'uomo di assoggettare a sé la natura. Ma al contempo Horkeimer e Adorno vanno più in profondità nell'analisi filosofica delle conseguenze della modernità.
La ragione, anticamente intesa in senso oggettivo, come ordine dell'intero, viene degradata a mezzo soggettivo della conoscenza, che non è più in grado di stabilire fini validi per la prassi umana, né di conoscere ontologicamente e valutare assiologicamente il mondo dell'uomo. La ragione viene piuttosto intesa come ciò che fa corrispondere ad un fine arbitrario il mezzo più adeguato: diviene ragione strumentale, che è il riflesso ideologico dell'accettazione del mondo dato. L'illuminismo, con la sua critica distruttiva, dopo aver eliminato i residui metafisici della Scolastica, si è gradualmente volto contro se stesso, finendo col considerare privi di significato i concetti stessi di “ragione”, “libertà”, “giustizia”, ecc., in base ai quali aveva condotto la sua lotta originaria14.
Formalizzandosi e riducendosi ad «apparato matematico» per la conoscenza del mondo, la ragione finisce con l'esserne il mero rispecchiamento, sicché «ciò che appare come un trionfo della razionalità soggettiva, la sottomissione di tutto ciò che è al formalismo logico, è pagato con la docile sottomissione della ragione a ciò che è dato senz'altro»15. Ogni conoscenza effettiva, che consisterebbe nell'andare oltre il dato, per scoprire la mediazione con la negazione dell'immediatezza, è resa per principio impossibile16. Così come la mitologia era l'espressione simbolica dell'esistente, così anche l'illuminismo finisce per essere mitologico.
In questa critica all'illuminismo, che è molto simile alla hegeliana critica alle categorie astratte dell'intelletto ripresa e sviluppata da Lukács, si deve vedere anche una polemica condotta dai francofortesi nei confronti delle più diffuse tendenze della filosofia contemporanea (che oggi, a distanza di più di sessanta anni dal loro saggio, si sono forse ulteriormente accentuate): il neopositivismo logico, il neokantismo, il pragmatismo americano e la filosofia analitica del linguaggio. Questi modi di intendere la filosofia sono integralmente aderenti all'unica «dimensione» del pensiero (come sostiene anche Marcuse) che costituisce l'ideologia dominante e che, in quanto tale, deve neutralizzare ogni discorso rivoluzionario ed ogni conoscenza concreta per eternizzare il mondo esistente.
In questo modo l'individuo si sottomette al dominio reificante dell'esistente, dal quale non sfugge né chi si trova in posizione privilegiata, né chi è palesemente sfruttato. Horkerimer e Adorno richiamano l'episodio di Odisseo che si fa incatenare all'albero della nave per non essere tentato dal canto ammaliatore delle sirene, mentre ai suoi compagni egli ha tappato le orecchie e impartito il compito di non smettere di remare. Così, nella società odierna, ciascuno è legato al proprio ruolo sociale senza la possibilità di trascenderlo: la classe dei proprietari si tiene a forzata distanza dal godimento anche quando avrebbe la possibilità di approfittarne, mentre i proletari sono costretti a lavorare, inconsapevoli dell'esistenza della liberazione possibile. Citando la dialettica del rapporto tra il servo e il signore della Fenomenologia hegeliana, gli autori affermano così che «lo schiavo resta soggiogato nel corpo e nell'anima, il signore regredisce»17.
Ma il lavoratore della società tardo-capitalista non è soggiogato soltanto dall'apparato della produzione materiale: egli è legato al dominio del sistema anche «al cinema e nel collettivo»18. Il miglioramento del tenore di vita, la riduzione dell'orario di lavoro rispetto ai primi decenni dell'industrializzazione capitalistica, lungi dall'essere mezzi di reale emancipazione del proletariato, non sono altro che subdoli mezzi di manipolazione. Come scriverà più tardi Guy Debord, l'operaio, «improvvisamente ripulito del disprezzo totale chiaramente espressogli da tutte le modalità di organizzazione e di sorveglianza della produzione, si ritrova ogni giorno, al di fuori di questa, sotto il travestimento del consumatore, trattato apparentemente come una persona di riguardo, con una premurosa cortesia. Allora l’umanismo della merce si prende cura del “tempo libero e dell’umanità” del lavoratore»19.
Quest'egemonia del sistema che sussume sotto le sue regole razionali (nel senso weberiano del termine) tutta l'esistenza degli individui massificati, è resa possibile dall'industria culturale. Quest'ultima non è solo l'insieme dei produttori di merci culturali, come film, programmi radio, pubblicità, ma è qualcosa di molto simile al Ge-stell heideggeriano, anche se inteso in senso ancora più pervasivo: esso corrisponde in un certo senso all'intero mondo sociale in cui vive l'uomo, che è divenuto falso20 e all'interno del quale non è più possibile un'esistenza autentica: «non si dà vera vita nella falsa»21. L'industria culturale riduce ogni individualità a elemento intercambiabile della massa, ogni elemento che sembra caratterizzare la particolarità è già programmato e spacciato falsamente come naturale22. Così anche l'idea illuministica di soggetto come fondamento perde di ogni significato.
La standardizzazione non caratterizza soltanto i fruitori delle merci spettacolari, ma i prodotti stessi dell'industria culturale, che nella loro apparente diversità sono tramite semiotico sempre dello stesso messaggio, il quale è volto ad esaltare le condizioni di vita. Esso agisce in base a quella tecnica che Lukács chiama «apologetica indiretta», che non occulta le contraddizioni della società capitalistica, ma afferma l'impossibilità di superarle e ne dà un'interpretazione che funge da sostegno ideologico al sistema stesso23. L'industria culturale, infatti, mostra la riproduzione fedele della realtà, che viene ripetuta all'infinito e di fronte alla quale cade il dubbio che possa esistere un'alternativa. Così facendo, essa è costretta a mostrare anche il dolore, il tragico dell'esistenza, che «assume così l'aspetto del destino»24.
Con l'esperienza estetica quotidiana, l'uomo della massa viene distratto mediante il divertimento (amusement), che, come già sapeva Pascal, non è altro che un pretesto per impedire all'uomo di pensare, di comprendere la propria condizione e le cause che la pongono in essere25. Nell'industria culturale e nella pubblicità, che ne è espressione, «la tecnica diventa psicotecnica, tecnica della manipolazione degli esseri umani»26, che trasforma la libertà individuale, su cui dovrebbe fondarsi la società contemporanea laddove essa si dichiara democratica, in un'illusione: «la libertà del sempre uguale»27.
Nel mondo falso ogni cosa che appare cela il suo contrario, la verità soppressa: compito della teoria critica è individuare quest'ultimo, nella sua relazione dialettica con l'esistente, ma con l'amara consapevolezza che tale dialettica è destinata a fermarsi allo stadio della contraddizione (Dialettica negativa), poiché la realtà è pietrificata dal potere capitalistico ed è ormai troppo difficile individuare una strada che porti al superamento della contraddizione e ad uno stadio di realtà più elevato.
L'industria culturale infatti registra nel suo catalogo la voce che oppone resistenza e la riassorbe entro le sue logiche: il destino dei libri di Horkeimer e Adorno, oggi, è infatti quello di trovare spazio negli scaffali delle grandi catene librarie, che magari lo mettono anche in sconto promuovendolo come il più bel testo di critica sociale. D'altra parte, chi si estraniasse completamente e non accettasse alcun compromesso, sarebbe costretto al silenzio, che è sintomo forse ancora più forte di impotenza28.
L'intellettuale è perciò uguale a ogni altro individuo e la sua resistenza nei confronti dell'esistente resta meramente simbolica. Ciò che lo differenzia dall'uomo medio è soltanto la consapevolezza di vivere lo scandalo della contraddizione secondo la quale «ogni sforzo di sottrarsi reca i tratti di ciò che è negato»29.
Ciò che resta della vita vera non è che apparenza, sospetto, come un che di rimosso, che giace nell'inconscio ed informa di sé alcuni momenti della vita in cui può riaffiorare. L'ultima speranza è perciò data da questi frammenti di realtà, che portano con sé la concretezza dell'utopia, rivelando la possibilità di un mondo più umano30.
Quest'utopia può trovare espressione nell'opera d'arte. Anche questa è intessuta di contraddizioni: da un lato, l'arte seria è ed è sempre state elitaria e borghese, potendo esprimersi in indipendenza proprio grazie a quel sistema che essa negava; dall'altro essa è ridotta a merce dell'industria culturale, resa accessibile a tutti e perciò stesso degradata31.
La perdita dell'«aura» descritta da Benjamin32 è per Adorno la perdita dell'ultimo baluardo di salvezza. Adorno non crede al potenziale emancipativo della diffusione dell'arte. Se per Benjamin la fotografia e soprattutto il cinema possono mostrare la realtà quotidiana in dettagli che nella vita abitudinaria non vengono colti e può perciò far emergere elementi inconsci sui quali le masse sono chiamate ad esprimersi, e può perciò avere una funzione critica fondamentale33, per Adorno il cinema non è altro che la riproduzione ideologica della vita sociale. Benjamin non è estraneo alla critica adorniana e ritiene anch'egli che nel mondo occidentale il cinema sia al servizio del potere capitalistico, ma pone come esempio alternativo il cinema dell'Unione sovietica, dove ciascuno può esprime se stesso e riprodurre il proprio lavoro dinanzi alla macchina da presa34. Adorno rifiuta invece questo principio di possibile democratizzazione dell'arte, in quanto essa richiede specifiche competenze tecniche che la massa non può acquisire.
L'opera d'arte autentica esprime per Adorno un contenuto di verità sotto la forma di un «enigma», di un «crittogramma» da interpretare mediante la riflessione filosofica. L'arte trae la sua origine dalla realtà concreta, di cui è l'immagine trasformata e, in quanto tale, rimanda ad un contenuto che è altro da sé, che essa non può esprimere: la verità dell'arte è l'utopia. È chiaro dunque che per Adorno il contenuto emancipativo dell'arte resta prerogativa del filosofo, dell'intellettuale che si rapporta ad essa e non può essere accessibile alle masse.
L'opera d'arte, sorgendo all'interno di uno specifico contesto storico-sociale, non può trascenderlo: si identifica con esso e solo mediante la negazione, la mediazione dell'interprete, essa giunge oltre se stessa. L'arte è così una «promessa di felicità», che tuttavia «non viene mantenuta»35.
Si vede dunque come per Adorno la possibilità di resistenza al sistema risieda unicamente nella coscienza dell'individuo che coglie il negativo, che vive la contraddizione, senza possibilità di una traduzione di questa consapevolezza in una prassi rovesciante.
Così Horkeimer, che nella sua ultima fase imprime alla teoria critica un indirizzo di resistenza, di contro all'iniziale spirito di rivolta, giunge ad affermare: «Dobbiamo preservare quel che un tempo si chiamava liberalismo, l'autonomia del singolo … ciò che conta per noi è assicurare l'autonomia personale al maggior numero possibile di soggetti, rafforzare una situazione sociale dove il singolo possa dispiegare le proprie forze»36.
La riflessione di questo pensatore culmina così, similmente a quella heideggeriana, in una speranza rivolta al «totalmente altro»: nonostante sia per lui impossibile credere nell'esistenza di un essere sommamente buono, poiché sarebbe contraddetta dalle storture del mondo reale, si appella a un principio trascendente, nei confronti del quale la coscienza sperimenta il sentimento della Sensucht, che possa fondare «la speranza che, nonostante questa ingiustizia, che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l'ingiustizia possa essere l'ultima parola»37.



Lukács e la ragione dialettica
Lukács si è espresso criticamente nei confronti sia di Hiedegger che di Adorno. Egli riconduce la filosofia heideggeriana nell'ambito della storia dell'irrazionalismo tedesco, la cui origine rintraccia nell'intuizione intellettuale di Schelling e la cui conclusione trova nella barbarie nazista. Più precisamente, la filosofia di Heidegger, intesa come filosofia dell'esistenza (il riferimento è soprattutto a Essere e tempo), viene vista da Lukács come una variante della filosofia della vita, che si differenzia da questa pone il soggetto di fronte ad un mondo che, in seguito alla guerra mondiale, «è diventato un cumulo di rovine»38. Il soggetto individuale è l'unico elemento del mondo che ancora «si cerca di salvare da questa generale e incombente rovina»39.
La filosofia heideggeriana, che pone la possibilità più in alto della realtà, cerca secondo Lukács di compiere un salto nel vuoto, di negare la realtà senza poterla superare realmente, e unicamente in vista della salvezza dell'individuo. Con ciò Heidegger capovolge la filosofia hegelo-marxiana di cui Lukács è originale interprete, secondo la quale la possibilità si dà soltanto come concretezza del movimento dialettico del reale, che si tratta di comprendere per fondare una prassi collettiva che possa superare il modo di produzione capitalistico.
Ciò che Lukács critica costantemente in tutti gli autori che compaiono nella sua storia dell'irrazionalismo è soprattutto la mancata comprensione della storia intesa come processo unitario e progressivo. Questa tematica è centrale in tutta l'opera del filosofo marxista, già a partire da Storia e coscienza di classe (1923), testo che sarà poi da lui rinnegato come «idealista», in seguito alla condanna da parte dei gerarchi sovietici.
Lukács vede nella descrizione heideggeriana dell'esistenza inautentica del «Si» (che peraltro ha notevoli somiglianze con alcuni passaggi di Horkeimer e Adorno sull'industria culturale) un «quadro vero e fedele»40 della realtà sociale del dopoguerra e tuttavia rimprovera al filosofo tedesco di non essere stato in grado (per ragioni ideologiche) di mostrare quali fossero le cause «sociali e storiche di quelle esperienze»41. In tal modo, rileva Lukács, il «Si» viene inteso da Heidegger come un male necessario dell'esistenza sociale dell'uomo e conseguenza di questo non può che essere il catalogare la storia reale e universale degli uomini come «storia impropria», in quanto la «storia propria» viene ad essere intesa sulla base soggettivista dell'Esserci, sulla sua esistenza come «nesso della vita fra la nascita e la morte»42.
L'esistenza autentica, che si stacca dell'impersonalità del quotidiano e che conosce la verità dell'essere, non può essere accessibile a tutti, «l'irresolutezza del si impersonale – dice Heidegger – rimane ugualmente al potere». Il soggettivismo heideggeriano si risolve quindi, nella lettura di Lukács, da un lato nell'accettazione dell'esistente, dall'altro in un sostegno filosofico alle tendenze antidemocratiche43.
Ma si è visto come anche la filosofia di Horkeimer e Adorno finisca col porre nell'individuo l'unica possibilità di salvezza. Lukács riconosce in gran parte la correttezza delle analisi di questi autori, ma critica aspramente il loro rifiuto di qualsiasi prassi, che diviene anche nei loro scritti una supina e ideologica accettazione della società capitalistica. Così, nella prefazione ad una riedizione del 1962 della sua Teoria del romanzo, Lukács scriverà che «una parte considerevole della migliore intellighenzia tedesca, fra cui lo stesso Adorno, ha preso alloggio – come scrissi in una mia critica a Schopenhauer – presso il “Grand Hotel dell’Abisso”»44. Questo Hotel, «fornito di ogni comodità», è costruito «sull'orlo dell'abisso, del nulla e dell'assurdità»45. Fuor di metafora, la critica che Lukács aveva volto a Schopenhauer e che ora rivolge ad Adorno è di aver perfettamente compresso l'assurdità del mondo capitalistico, ma di mantenersi da essa a debita distanza, come uno spettatore che guarda di lontano un triste spettacolo, con la certezza di essere al sicuro e di poter godere di «ogni comodità»46. In tal modo anche la filosofia critica si trasforma in una «apologetica indiretta» del sistema capitalistico.
Questa accusa coglie sicuramente un elemento di verità, ma del resto Adorno stesso, come si è visto, era pienamente consapevole di questa contraddizione. Ciò che Lukács non può tollerare, tuttavia, è proprio la dialettica negativa, l'«irretimento» (il termine è adorniano47) nella contraddizione e la perdita di ogni speranza. Lukács considera questo un atteggiamento di disperazione irrazionalistica che, privandosi della possibilità di comprensione e azione (stante il nesso strettissimo tra teoria e prassi istituito da Lukács già nella sua opera del 1923), non fa che favorire l'avversario, con il rischio concreto di permettere il sopravanzare del fascismo sulle masse impotenti.
Con Heidegger, Horkeimer e Adorno, Lukács condivide invece la critica alla ragione soggettivo-strumentale, trattando il problema in termine molto simili48. Ma aggiunge a questa critica, come si è accennato, una disamina attenta e dettagliata dell'irrazionalismo inteso come distruzione filosofica della ragione. In questa forma di degradazione della coscienza egli rintraccia una delle principali forme di «filosofia reazionaria» che, se con Schelling è ancora rivolta al passato pre-borghese, con Schopenhauer diviene ideologia propria della borghesia decadente, fino a fondare filosoficamente l'aggressione imperialistica del capitale e infine il dominio irrazionale del fascismo hitleriano.
Fedele all'assunto marxiano per cui la coscienza è determinata dall'essere sociale Lukács ritiene che prendere parte a favore o contro le possibilità conoscitive dell'intero da parte della ragione significhi al contempo prendere parte a favore o contro il progresso sociale. Ora, essendo il metodo dialettico prima hegeliano e poi – materialisticamente corretto – marxiano e marxista quella forma di filosofia propensa a rintracciare nella storia un movimento progressivo, ogni filosofia borghese reazionaria non può che nascere «in continua lotta» con la dialettica49, sia questo un processo genetico consapevole oppure no.
Caratteristiche fondamentali del pensiero reazionario sono quindi «la svalutazione dell'intelletto e della ragione, l'esaltazione acritica dell'intuizione, l'aristocratica gnoseologia, il ripudio del progresso storico-sociale, la creazione di miti ecc.»50.
Non avrebbe senso qui dilungarsi nell'esporre la critica lukacciana a ogni singolo pensatore (filosofo o sociologo) che egli prende in considerazione ne La distruzione della ragione. Ciò che qui importa è constatare come Lukács abbia avuto il merito di fornire un'accurata critica di una tendenza filosofica che solo apparentemente è opposta al razionalismo illuministico, mentre ne è in realtà il semplice risvolto. Più precisamente, la filosofia razionalistica di stampo kantiano è intesa nella sua origine come espressione del pensiero della borghesia quale classe rivoluzionaria. Le categorie filosofiche che compaiono nel periodo della sua ascesa sono al servizio della liquidazione di ogni residuo feudale della società, come del resto aveva già notato Marx.
L'irrazionalismo è l'espressione ideologica della medesima classe sociale, ma nel suo periodo di decadenza, ossia nella fase della sua esistenza in cui si inasprisce la lotta di classe in seguito all'acuirsi delle contraddizioni tra lo sviluppo delle forze produttive e la staticità dei rapporti di produzione, alle crescenti vittorie del proletariato (la Comune di Parigi, la Rivoluzione d'Ottobre), ai problemi legati alla necessità di espandere i propri mercati a causa della sovrapproduzione, ecc.
La filosofia razionalistica borghese, del resto, contiene già in nuce un elemento irrazionalistico che diverrà predominante, in quanto fin dall'inizio (con Kant) essa riconduce la conoscenza alle categorie del soggetto, che suddividono il reale in regioni ontologicamente autonome, che vengono contrapposte al soggetto e sottomesse ad un'indagine quantitativa come unica conoscenza possibile. In tal modo la filosofia escludeva dal proprio campo la conoscenza dell'intero storico-sociale, che Lukács vede affermata soltanto in Hegel (ultimo pensatore della fase ascendente della borghesia) e infine in Marx, che supera e risolve i limiti idealistico-borghesi propri ancora di Hegel stesso.
Nei suoi saggi giovanili, poi rinnegati, raccolti sotto il titolo di Storia e coscienza di classe, Lukács prospetta un genere di conoscenza razionale e dialettico che si opponga efficacemente tanto al razionalismo formale quanto all'irrazionalismo.
In base ad un'interpretazione fortemente hegeliana del pensiero di Marx Lukács individua nel proletariato la classe che, a causa delle condizioni oggettive della sua esistenza, può pervenire ad una sorta di «sapere assoluto». La coscienza di classe del proletariato corrisponderebbe infatti all'autocoscienza dello spirito hegeliano, che coglie se stesso nell'unità di soggetto e oggetto. Quest'ultima significa qui che il proletariato è in grado di accedere alla conoscenza della realtà al di là di ogni barriera ideologica, in quanto esso non ha nessun interesse particolare da difendere e perciò la sua coscienza non diviene «falsa», ossia ideologica, bensì esprime una conoscenza razionale e oggettiva che porta con sé l'universale verità del divenire storico.
Lukács descrive il mondo contemporaneo a partire dalla categoria della merce, sviluppando gli argomenti ad essa relativi del Capitale marxiano e finendo col fornire un'analisi dell'alienazione dell'operaio nel processo produttivo che coincide in larga misura con quella dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 che non erano ancora stati ritrovati e che quindi Lukács non conosceva.
La società capitalistica appare affetta dal fenomeno della «reificazione», ossia dalla mercificazione di tutti i rapporti sociali. L'organizzazione sistemica, che è determinata da precisi rapporti tra persone e classi, viene occultata da «veli cosali» e sembra così essere un rapporto del tutto naturale tra cose, che nascondono la loro genesi reale, ossia il lavoro che sta alla base della loro produzione. Il prodotto dell'attività lavorativa dell'operaio si erge così di fronte ad esso come una forza estranea, impersonale e autonoma, regolata da proprie leggi che l'ideologia esprime nell'economia politica occultandone anche in questa forma la genesi oggettiva.
In questo sistema, le cui caratteristiche spersonalizzanti ricordano tanto il Ge-stell quanto l'industria culturale, l'operaio trova se stesso «come uno strumento accessorio meccanizzato e razionalizzato» di un «processo parziale» del sistema di produzione, quindi si riconosce come merce intercambiabile e perde l'«illusione» di essere un autonomo «soggetto della propria vita»51. Citando Max Weber e il suo studio sull'«ascesi intramondana» quale cifra dello spirito originario del capitalismo, egli riconosce come questa alienazione sia propria anche del capitalista (come abbiamo visto anche nella figura di Odisseo ripresa da Horkeimer e Adorno). Ma per il capitalista, che trae profitto dalla sua condizione di classe, questa condizione appare come «un attivo dispiegarsi del suo soggetto»52. Il proletario riconosce invece la sua condizione di brutale asservimento53, che trova la sua espressione manifesta nel problema del tempo di lavoro, dove appare evidente che l'operaio non è altro che la sua stessa forza-lavoro considerata come merce.
In questa scissione la coscienza del proletario, che sa di essere soggetto ma al contempo si riconosce unicamente come oggetto, può giungere a comprendere la realtà del mondo in cui si trova. Scoprendosi nella sua immediatezza come merce, il proletario può comprendere come questa immediatezza non sia altro che «conseguenza di molteplici mediazioni». Così, «nella merce, l'operaio riconosce se stesso ed i suoi rapporti con il capitale. (…) la sua autocoscienza è l'autocoscienza della merce; o, in altri termini: l'autocoscienza, l'autodisvelamento della società capitalistica fondata sulla produzione e sullo scambio di merci»54.
La coscienza così risvegliata arriva quindi alla comprensione di ciò che si cela dietro l'apparente legalità di questi rapporti: una contingente organizzazione del sistema produttivo. Il mutamento di questa condizione, naturalmente, non può essere puramente teorico, ma implica di necessità un rovesciamento di questi rapporti e l'instaurazione di una società senza classi. Su questo si fonda il nesso tra teoria e prassi: l'autocoscienza del proletariato si trasforma necessariamente in azione rivoluzionaria.
La società reificata viene riportata alla sua genesi oggettiva, che è costituita dal modo di produzione capitalistico e dai rapporti di produzione che vedono una contrapposizione tra proprietari e lavoratori. In questo contesto, la coscienza proletaria diviene conoscenza della contraddizione reale del processo storico ed in essa viene individuato anche l'unico passo che può essere compiuto in direzione di un superamento della stessa: la rivoluzione.
Insistendo sul carattere di coscienza del proletariato, Lukács rompe qui con la dogmatica di stampo positivistico che ha investito buona parte del marxismo successivo a Marx, secondo la quale il progresso storico verso il comunismo era una necessità che sarebbe giunta a compimento a prescindere dalla volontà dei singoli o delle classi. Per Lukács, invece, «una necessità dialettica non è affatto identica ad una necessità meccanico-causale»55 (si capisce quindi perché in quest'opera il filosofo rifiuta di applicare il medesimo metodo dialettico sia alla storia che alla natura). Affinché si compia il superamento della contraddizione è indispensabile «l'attività cosciente degli uomini»56.
Tale coscienza, tuttavia, può essere soltanto «coscienza di classe», non soltanto perché la prassi può avere efficacia solo se collettivamente organizzata, ma anche e soprattutto perché tale coscienza, per essere autentica, deve giungere a comprensione del fatto che la situazione del singolo proletario coincide con quella di tutti i proletari ed è determinata ad essere tale da cause storico-sociali ben precise, che come forniscono un'univoca spiegazione genetica della reificazione capitalistica, così anche indicano un'univoca strada per l'azione rivoluzionaria.
La storia non procede autonomamente, ma ad ogni stadio pone le condizioni oggettive per la possibilità dell'oltrepassamento, il quale può essere compiuto solo con l'azione cosciente degli uomini. Così le contraddizioni della società capitalistica, insieme con lo sviluppo delle forze produttive, generano la possibilità oggettiva della realizzazione del socialismo, che tuttavia non verrà se la coscienza di classe del proletariato sarà impedita a formarsi dalla forza dell'ideologia antagonista, o da altre contingenze storiche imprevedibili.

L'alternativa che ci si deve porre oggi credo sia tra il riconoscere con Heidegger che «la filosofia è alla fine»57 e rassegnarsi con essa alla fine (capitalistica) della storia, oppure tentare la ricostruzione di un'utopia concreta, a partire dalla convinzione ancor valida di Lukács seconda la quale
soltanto se l'uomo è in grado di afferrare il presente, in quanto riconosce in esso quelle tendenze dal cui contrasto dialettico egli è capace di creare il futuro, il presente, il presente come divenire diventa il suo presente. Solo chi ha la vocazione e la volontà di approssimare il futuro, può vedere la verità concreta del presente58.


1M. Heidegger, L'epoca dell'immagine del mondo, in Id., Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 19993, pp. 83-84.
2Ivi, p. 87.
3Ivi, p. 99.
4Cfr. Ivi, p. 72.
5Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 9-10.
6Id., L'essenza della verità, a cura di F. Volpi, Adelphi 1997, p. 86.
7Id., La questione della tecnica cit., p. 22.
8Ivi, p. 13.
9Ivi, p. 15.
10Id., Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo Spiegel, a cura di A. Marini, Ugo Guanda, Parma 1987, p. 134.
11Id., La questione della tecnica cit., pp. 20-21.
12Ivi, p. 24.
13Id., Ormai solo un Dio ci può salvare cit., p. 136.
14Cfr. M. Horkeimer, Sul concetto di ragione, in E. Donaggio (a cura di), La scuola di Francoforte. La storia e i testi, Einaudi, Torino 2005, pp. 195 e ss.
15M. Horkeimer, T. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, tr. it di R. Solmi, Einaudi, Torino 20105, p. 34.
16Ibidem.
17Ivi, p. 43.
18Ivi, p. 44.
19G. Debord, La società dello spettacolo, tesi 43, http://www.marxists.org/italiano/sezione/filosofia/debord/societa-spettacolo.htm#6 (url visitato in data 01/07/'13)
20 «Il tutto è il falso» secondo T. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, tr. it. R. Solmi, Einaudi, Torino 2005, p. 48.
21Ivi, p. 35.
22M. Horkeimer, T. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo cit., p. 166.
23Cfr. G. Lukács, La distruzione della ragione, tr. it. E. Arnaud, Einaudi, Torino 19743, p. 206.
24M. Horkeimer, T. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo cit., p. 163.
25Ivi, p. 154.
26Ivi, p. 177.
27Ivi, p. 181.
28Cfr. Ivi, pp. 139-141.
29T. W. Adorno, Minima moralia cit., p. 18.
30Cfr. Ivi, pp. 58-61; ma questo è un motivo che percorre tutto il libro.
31M. Horkeimer, T. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo cit., p. 143, 173.
32W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, tr. it. E. Filippini, Einaudi, Torino 20003, p. 23.
33Cfr. Ivi, pp. 40-42.
34Ivi, p. 36.
35T. W. Adorno, Teoria estetica, a cura di F. Desideri e G. Matteucci, Einaudi, Torino 2009, p. 182. Per quanto detto sopra, cfr. anche le pp. 45, 172-182.
36M. Horkeimer, La teoria critica ieri e oggi, in E. Donaggio (a cura di), La Scuola di Francoforte cit., p. 381.
37M. Horkeimer, La nostalgia del totalmente altro, Queriniana, Brescia 20015, pp. 74-75.
38G. Lukács, La distruzione della ragione cit., p. 496.
39Ivi, p. 499-500.
40Ivi, p. 507.
41Ibidem.
42Ivi, pp. 518 e ss.
43Ivi, p. 515, 509.
44Il testo di questa prefazione è disponibile all'indirizzo http://gyorgyLukács.wordpress.com/i-testi/teoria-del-romanzo/premessa-1962/ (url visitato in data 02/07/2013)
45G. Lukács, La distruzione della ragione cit., p. 248.
46La tematica del rapporto tra il filosofo e la realtà nella metafora dello spettatore è stata illustrata in senso storico in H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, Il Mulino, Milano 2001.
47T. W. Adorno, Minima moralia cit., pp. 18-19.
48Cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, tr. it. G. Piena, SugarCo, Milano 1991, pp. 1-34, 59-106, 144-196.
49G. Lukács, La distruzione della ragione cit., p. 6
50Ivi, p. 10.
51G. Lukács, Storia e coscienza di classe cit., pp. 218-219.
52Ivi, p. 219.
53Ibidem.
54Ivi, p. 222.
55Ivi, p. 234.
56Ivi, p. 235
57M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare cit., p. 137.
58G. Lukács, Storia e coscienza di classe cit., p. 269.

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