Di seguito una mia tesina per un esame sul tema della verità in Aristotele.
Introduzione
Negli scritti di Aristotele non è rintracciabile
una trattazione unitaria e sistematica del tema della verità. Non vi
si trova la specificazione dei diversi sensi in cui qualcosa può
essere detto «vero» o «falso», se non parzialmente. Tuttavia
risulta evidente come il filosofo utilizzi questi termini in
accezioni non univoche, generando difficoltà che aprono a diverse
interpretazioni. Essendo che Aristotele ha dedicato la sua attività
di ricerca filosofica e scientifica a pressoché ogni ambito del
sapere, sembra quasi pleonastico notare come il significato dei
termini da lui impiegati muti spesso a seconda dell’oggetto
trattato, e ciò è particolarmente evidente nel caso della verità e
della falsità. Tutto ciò rende assai arduo l’approccio al tema,
il quale richiede la capacità di adeguarsi ai differenti livelli
dell’espressività filosofica dello Stagirita. Consapevole
dell’enorme mole di lavoro che uno studio approfondito del tema
richiederebbe, ho cercato nondimeno di affrontarlo nei limiti del
seguente lavoro, nella speranza di esser riuscito a dare una lettura
dell’argomento che, pur risultando di necessità incompleta, possa
quanto meno risultare non del tutto fuori strada.
Occorre innanzitutto precisare che per Aristotele il
valore di verità non è soltanto una proprietà delle proposizioni e
dei pensieri, ma è anche e soprattutto una determinazione ontologica
del reale. Ciò che è vero nel senso più profondo, sono infatti gli
enti semplici, ingenerati, incorruttibili ed eterni, cioè
Dio, i motori celesti e le essenze. Vero è che quest’ultime non
sono entità separate al modo delle idee platoniche, bensì inerenti
sempre a singoli individui, tuttavia si può attribuire loro un
carattere di eternità, in quanto sono coeterne all’universo e
coincidono con i generi e le specie ultimi degli individui che vivono
in esso.
Secondariamente, sono ontologicamente veri gli enti
composti, i quali sono soggetti a generazione e corruzione; il
loro essere non ha dunque il carattere della necessità e così
nemmeno la loro verità, che può capovolgersi in falsità.
In terzo luogo vi sono gli enti fittizi,
quali sono i personaggi dell’epica, della tragedia e della
commedia. Essi si situano al grado del verisimile, che non
corrisponde ad una degradazione della verità, bensì alla
rappresentazione universale di ciò che attiene alla vita umana e che
rientra nell’ambito di quelle cose che avvengono non
necessariamente, bensì per lo più, cioè con una regolarità che
può favorire un certo grado di astrazione dal particolare, pur senza
l’elevazione al concetto.
Infine l’attributo di verità e falsità può
essere riferito a proposizioni e pensieri apofantici. A questo
livello si pone il corrispettivo logico della verità ontologica, ciò
che fa della teoria aristotelica una dottrina corrispondentista.
Un’affermazione avrà dunque sempre come condizione di verità il
darsi effettivo di una verità ontologica.
Nel presente lavoro ho tentato di sviluppare questi
quattro modi di intendere la verità, cercando di indicarne le
implicazioni filosofiche all’interno del pensiero aristotelico.
1. LA VERITÀ ONTOLOGICA DEGLI ENTI
Se in Aristotele verità e
falsità siano attributi unicamente di enunciati e pensieri, oppure
abbiano un valore ontologico, è questione discussa tra i
commentatori, a causa del fatto che in alcuni passaggi Aristotele
afferma esplicitamente che il valore di verità può essere
attribuito soltanto a un’operazione della mente[1],
mentre in altri sembra attribuire questa qualità anche alle cose[2].
Seguirò qui l’interpretazione fornita da Paolo Crivelli, il quale,
sulla base di un’accurata analisi testuale[3],
afferma esistere in Aristotele una dottrina ontologica della verità.
Nei passi in cui Aristotele discute dell’essere e
del non-essere nel senso del vero e del falso, egli opera una
fondamentale distinzione ontologica, ponendo da una parte 1)
gli enti semplici e dall’altra 2) gli enti
composti. Fra i primi, la sua metafisica annovera 1.a) le
sostanze incorporee (Dio e i cinquantacinque motori
dell’universo) e 1.b) le essenze; fra i secondi, 2.a)
gli stati di cose composti da enti in relazione tra loro
e 2.b) le sostanze corporee.
A questo schema dell’ontologia aristotelica
possiamo infine aggiungere 3) gli enti fittizi, che
sono il risultato dell’imitazione poetica.
Le sostanze incorporee
Se è vero, dunque, che la
verità è un attributo dell’essere, allora il senso proprio della
verità sarà quello in base al significato dell’essere che è
ontologicamente primario, ossia a quello che indica la sostanza
immobile e incorruttibile, cioè Dio. Egli infatti è inteso come
«intelligenza [che] pensa se stessa, cogliendosi come
intelligibile»[4],
e l’oggetto dell’attività di ogni intelligenza è la verità[5].
Dio è perciò il Vero essere che si contempla quale suprema Verità.
Così anche l’uomo, nell’attività in cui si esplica la virtù
dianoetica della sapienza, contemplando Dio quale supremo principio e
causa di tutti gli esseri, sarà nella verità e in ciò si
farà simile a Dio[6].
Come la vita divina, coincidendo con «la somma bellezza ed il sommo
bene», è «vita ottima ed eterna», così l’uomo che, nella
limitatezza della sua condizione, si avvicinerà il più possibile ad
essa, realizzerà la somma di ogni bene e di ogni bellezza
(kalokagathia)[7].
In ciò consiste, secondo Aristotele, il fine della vita umana, che
procura all’uomo la felicità perfetta.
Accanto alla perfezione
del Motore immobile, l’uomo virtuoso contemplerà anche le altre
realtà celesti, il cui movimento perfetto deriva dalla loro tensione
verso Dio, inteso quale causa finale verso la quale essi tendono come
mossi da desiderio e amore. In tal modo, l’uomo può giungere
all’intuizione dei supremi principi di tutte le cose e, in base a
questi, avrà pure accesso alla scienza «delle realtà che sono più
degne di pregio»[8],
che è la conoscenza delle conseguenze vere derivanti dai supremi
principi stessi.
Le essenze
Le essenze sono le specie
ultime dei generi[9],
ciò mediante cui si definisce una sostanza prima[10],
e che non sono nulla di esistente senza queste ultime[11].
Esse sono quindi ciò che rende possibile l’unità della specie e
che ne caratterizza ogni singolo individuo. Se si escludono gli
esseri non viventi, si può dire che l’essenza corrisponde in
qualche modo alle facoltà dell’anima: per Aristotele infatti tutti
gli individui sono dotati di un’anima, la quale è causa delle
caratteristiche proprie dei generi o delle specie ai quali essi
possono essere ricondotti. La facoltà nutritiva appartiene
all’intero genere dei viventi ed è propria della specie delle
piante; la facoltà sensitiva è comune al genere animale e propria
della specie di animali non intelligenti; la facoltà intellettiva è
invece comune al genere umano e propria soltanto di esso (o
quantomeno della specie di uomini sani).
L’essenza è quindi
definibile a partire dalle capacità che l’individuo possiede
grazie alle facoltà dell’anima. Ora, per Aristotele, «il fine dei
viventi non è altro che l’esercizio delle attività a loro
peculiari»[12],
cioè dell’attività perfetta della parte dell’anima che li
caratterizza specificamente. Di conseguenza, il fine dei viventi sarà
la realizzazione di ciò che esprime la loro essenza peculiare.
Questa considerazione è
di fondamentale importanza, in quanto permette di comprendere come
l’attività (sia nel senso di energheia che nel senso di
praxis) propria di ciascun vivente sia intrinsecamente unita
alla verità ontologica della sua essenza. Ciò ha le sue più vaste
conseguenze nell’ambito dell’etica, ed è infatti nelle opere
dedicate alla scienza pratica che si trova la formulazione di tale
principio. Nell’Etica Eudemia ne rinveniamo la più concisa
ed eloquente: «τέλος εκάsτου
τò έργον»[13],
che Marcello Zanatta traduce come «fine di ciascuna cosa è
l’opera»[14].
Il medesimo traduttore precisa che érgon è un termine che
Aristotele mutua da Platone per denotare l’opera per il compimento
della quale la cosa è fatta. «[L’érgon] dunque - essendo
il suo fine – ne definisce anche l’essenza»[15].
Aggiungiamo noi che nella
filosofia aristotelica alla nozione di telos è associata
anche quella di energheia. Secondo la dottrina aristotelica
della potenza e dell’atto, la dynamis è capacità,
movimento orientato ad un fine; l’energheia (atto) è la
causa finale, il telos verso il quale tende qualsiasi dynamis.
Per questo, «secondo la sostanza» esso «è anteriore» rispetto
alla potenza: «tutto ciò che diviene procede verso un principio,
ossia verso il fine: infatti, lo scopo (telos) costituisce un
principio e il divenire ha luogo in funzione del fine. E il fine è
l’atto (energheia)»[16].
Possiamo perciò notare una straordinaria
convergenza, su questo punto, di un cospicuo numero di termini che
possono essere annoverati fra i più importanti di tutta la filosofia
aristotelica: telos, ergon, ousia, energheia
(e quindi, implicitamente, anche dynamis).
Volendo tentare di
esplicitare più chiaramente questa corrispondenza, possiamo
affermare che per Aristotele: 1) il fine (telos) di
ogni vivente è compiere l’opera che gli è propria (ergon),
cioè quell’opera che è espressione della parte dell’anima che
lo caratterizza; 2) il compimento di quest’opera coincide
con la realizzazione dell’essenza (ousia) del vivente e
quindi con 3) la piena attualizzazione (energheia)
delle potenzialità (dynamis) che gli sono proprie per natura.
Ogni cosa, infatti, realizza pienamente la propria natura soltanto
quando perviene all’attualizzazione, in quanto «l’atto è
l’esistere della cosa»[17].
Ora, se è l’essenza ad indicare l’opera propria
che è fine del vivente, e se, come abbiamo detto, l’essenza è la
verità ontologica della specie, ci si apre da questa prospettiva la
possibilità di comprendere il nesso tra verità e prassi, che
Aristotele non ha mai esplicitato. Infatti la scelta dei fini
moralmente belli delle azioni, che costituiscono i principi
dell’agire fungendo da premessa maggiore dei sillogismi pratici,
dovrà basarsi sulla conoscenza della verità ontologica della specie
umana, ossia sulla conoscenza di quale opera è maggiormente
adeguata alla sua natura.
La conoscenza delle
essenze, peraltro, è oggetto dell’attività dell’intelletto[18],
e quindi attiene all’attività teoretica del sapiente, completando
il numero di principi da cui deriva la conoscenza scientifica. La
verità oggetto della contemplazione, pertanto, non è qualcosa di
completamente separato dalla prassi, come sostenuto da alcuni
interpreti[19]:
al contrario, quest’ultima trae i suoi principi da quella. Come ha
messo in chiaro Marcello Zanatta, tra l’attività teoretica e
quella pratica sussiste un fondamentale rapporto, sul quale si salda
il sillogismo pratico, in quanto il conoscere i principi (che
costituiscono la premessa maggiore nei sillogismi), anche nell’ambito
della scienza pratica, è di pertinenza dell’intelletto, e quindi
della parte «scientifica» della ragione, mentre lo sviluppo del
sillogismo (nella sua premessa minore e quindi nella sua conclusione,
che coincide con l’azione), basandosi sul particolare delle
circostanze che si presentano di volta in volta, è di pertinenza
della saggezza, e quindi della parte «calcolativa» della
ragione[20].
Gli stati di cose
Naturalmente Aristotele non usa alcuna espressione
equivalente a «stati di cose», e tuttavia questa formulazione, che
Paolo Crivelli applica diffusamente nel suo studio sulla teoria
aristotelica della verità, può essere calzante per descrivere
quella condizione di unione e separazione tra «cose», di cui
Aristotele parla per esempio nell’ultimo capitolo del IX libro
della Metafisica. Uno stato di cose sarebbe quindi un ente
composto, la cui unitarietà è data dalla relazione tra due oggetti
componenti. Questi due possono essere entrambi degli universali,
oppure uno universale e l’altro un individuo.
La verità ontologica di
uno stato di cose è data dalla combinazione tra i due componenti,
mentre la sua falsità è data dalla loro divisione[21].
Ad esempio, lo stato di cose che Teeteto è seduto è composto
dall’universale seduto e dall’individuo Teeteto, ed è vero se e
soltanto se si dà il caso che Teeteto è seduto; lo stato di cose
che ogni uomo vola è composto dall’universale vola e
dall’universale uomo ed è falso, in quanto non si dà il caso che
ogni uomo vola.
Seguendo le indicazioni di
Crivelli, Aristotele concepisce soltanto stati di cose “affermativi”:
non esiste lo stato di cose che Teeteto non è seduto, ma soltanto
quello che Teeteto è seduto, che sarà falso se Teeteto non è
seduto. Uno stato di cose, inoltre, può esistere anche se è falso
(sempre o in un determinato tempo), poiché la falsità dello stato
di cose non pregiudica il principio in base al quale esso è
composto[22].
Esisteranno dunque stati di cose sempre veri (ad esempio lo stato di
cose che la diagonale di un quadrato è incommensurabile rispetto al
lato), altri che sono sempre falsi (ad esempio lo stato di cose che
Socrate vola); la maggior parte, infine, possono essere sia veri che
falsi, a seconda del momento in cui vengono considerati (ad esempio
che Teeteto è seduto).
Le sostanze corporee
Aristotele non parla di
verità e falsità in relazione alle sostanze corporee (enti composti
di materia e forma), ma è possibile arguire la sua posizione in
merito, basandosi sull’analogia che intercorre tra la composizione
della materia e della forma, da una parte, e la relazione tra enti
all’interno di uno stato di cose, dall’altra. Se per uno stato di
cose l’esser vero corrisponde all’effettivo darsi della
combinazione tra gli enti, così per una sostanza corporea l’essere
corrisponde all’unione tra forma e materia; è perciò probabile
che a questa unione corrisponda la verità della sostanza[23].
Tanto la materia quanto la
forma sono antecedenti al sinolo, ma soltanto la loro unione, che è
data dall’inerire di una determinata forma ad una materia
indeterminata, costituisce la sostanza corporea quale essere
ontologicamente vero. Tuttavia, essendo la forma causa e principio
dell’essere del composto, essa è «maggiormente essere»[24]
sia rispetto alla materia che al composto. Anche il carattere di
verità ontologica spetterà quindi primariamente alla forma, come
del resto è evidente dal fatto che la forma è ingenerata e dunque
necessariamente vera, mentre il composto, cioè la sostanza
fenomenicamente esistente, è soggetta a generazione e corruzione. Si
può dire che la forma, di per sé, rientra ancora fra gli enti
semplici: del resto, essa corrisponda all’essenza del sinolo,
mentre quest’ultimo è il primo fra gli enti composti, che si
situano a un gradino inferiore di verità ontologica, una verità non
necessaria in senso assoluto, ma condizionale (quando e solo quando
la forma inerisce alla materia il composto è ontologicamente vero,
cioè esiste).
Gli enti fittizi
La trattazione
aristotelica degli enti fittizi è limitata al suo breve trattato
sulla Poetica, ed è in un certo senso laterale rispetto al
corpo dottrinario vero e proprio, che viene affrontato più
esplicitamente nella Metafisica e negli scritti dell’Organon.
Tuttavia questo isolamento è comprensibile, per il fatto che la
verità concernente gli enti fittizi della narrazione ha delle
caratteristiche del tutto peculiari: essa non riguarda, se non in
maniera indiretta, la realtà, ma concerne l’ambito dell’ipotetico,
del possibile, del verisimile. Il compito del poeta, infatti, non è
dire «le cose che sono avvenute», quanto piuttosto le cose «quali
sarebbero potute avvenire»[25].
Alle prime si rivolge propriamente lo storico, il cui ruolo è da
Aristotele degradato a mera ricerca empirica di fatti particolari,
che proprio in quanto particolari non hanno in sé alcuna possibilità
di ripetersi, e perciò sono utili alla conoscenza del passato, ma
non alla comprensione di ciò che riguarda il mondo umano in senso
universale. La poesia, per contro, astrae da qualsiasi contingenza
effettiva, e narra di fatti che non sono unici e irripetibili, ma
sono modelli universali di ciò che accade «per lo più». Per
questo la poesia «è affare più filosofico e più serio della
storia»[26].
Gli enti fittizi sono i
«caratteri» espressi dai personaggi della narrazione; essi sono ciò
che può essere colto dallo spettatore per mezzo dell’attore e che
rende manifesto «di che natura sia» «la scelta deliberata»[27]
che è movente dell’azione. In altre parole, l’ente fittizio è
un’azione di cui è possibile comprendere la causa. Esso non va
confuso con l’individuo singolo presente sulla scena, il quale è
soltanto il tramite del carattere universale che esprime. Come scrive
Aristotele «la tragedia è imitazione non di uomini», cioè di
individui, «ma di fatti e di vita»[28],
che, come abbiamo testé detto, avvengono «per lo più».
Come nota Marcello
Zanatta, «la ricorrenza dell’evento» che accade nella maggioranza
dei casi, «non comporta che esso si verifichi ogni volta in modo
rigorosamente e assolutamente identico, ma ammette in ciascuna
[ricorrenza] un certo margine di variabilità e di
differenziazione»[29].
Ciò significa che l’ente fittizio esprime i caratteri di
somiglianza che accomunano ogni possibile ricorrenza di un evento.
Per questo esso è un universale, o meglio, «funziona “come”
un universale»[30];
infatti l’universale esprime un’identità degli enti che cadono
sotto di esso, mentre il tipo di universale poetico esprime piuttosto
una somiglianza.
Zanatta sottolinea ancora
che l’universale poetico funziona «come il genere rispetto alla
specie» e quindi attribuisce ad esso «una capacità che è simile
alla definizione»[31].
In altre parole, è come se l’universale poetico fornisse la
definizione di un determinato carattere, e così esso sarà
conoscibile anche a coloro che non perseguono l’indagine filosofica
e dunque non potrebbero pervenire per altra via alla conoscenza
universale di ciò che è propriamente umano.
Come si è detto, gli enti fittizi sono enti
possibili, e tuttavia, a differenza di qualsiasi altro ente
possibile, il loro carattere di verità ontologica non è
intaccabile: essi sono sempre veri. Il racconto può essere costruito
con maggiore o minore arte, ma tuttavia non sarà mai falso, in
quanto non si darà mai il caso che ciò che esso esprime possa
essere, nella maggioranza dei casi, diverso da come è espresso.
2. LA VERITÀ LOGICA DI AFFERMAZIONI E PENSIERI
Circa il valore di verità dei costrutti linguistici
(siano essi mentali o espliciti) è più semplice rintracciare
evidenze testuali per comprendere la dottrina aristotelica. Tuttavia
queste sono, ancora una volta, sparse e non univocamente
interpretabili. La ricerca di Paolo Crivelli ha l’indiscutibile
merito di fornire una lettura coerente e completa della questione: a
questa ci atterremo, per lo più, nel seguito dell’esposizione.
Le proposizioni che sono
passibili di essere vere o false sono chiamate da Aristotele
«discorsi dichiarativi», che sono l’affermazione («il giudizio
che attribuisce qualcosa a qualcosa») e la negazione («il giudizio
che separa qualcosa da qualcosa»). La congiunzione di più discorsi
dichiarativi forma un discorso composto, il cui valore di verità
dipenderà tuttavia dai suoi componenti semplici, che perciò sono i
soli ad essere presi in considerazione. Vi sono poi dei discorsi,
come la preghiera, che, pur essendo significativi, non sono né veri
né falsi[32].
È verosimile supporre che
Aristotele ritenesse passibili di verità e falsità anche le
opinioni, che sono il corrispettivo mentale delle dichiarazioni[33],
sicché si può definire l’opinione affermativa come l’opinione
che attribuisce qualcosa a qualcosa, e l’opinione negativa come
quella che separa qualcosa da qualcosa.
I termini «unire» e «separare» significano qui
rispettivamente «predicare affermativamente» e «predicare
negativamente», nel senso che un’opinione o una dichiarazione che
predichino affermativamente qualcosa di qualcosa ritengono che, nella
realtà, il secondo sia unito al primo; mentre un’opinione o una
dichiarazione che predicano negativamente, esprimono la credenza che
nella realtà qualcosa sia separato da qualcosa. Ad esempio «Teeteto
è seduto» asserisce che nella realtà l’essere-seduto è unito
a Teeteto, mentre «Teeteto non è seduto» asserisce che nella
realtà l’essere-seduto è separato da Teeteto.
Poiché la predicazione
implica l’unione o la separazione di enti, è chiaro che i discorsi
dichiarativi potranno riferirsi soltanto agli enti composti. Gli enti
semplici sono invece oggetto di un’intuizione conoscitiva, compiuta
mediante l’intelletto, che si differenzia in ciò dal logos
della ragione. Per quanto concerne gli enti semplici, perciò,
saranno possibili soltanto affermazioni esistenziali[34],
che colgono l’essere dell’ente: tali affermazioni potranno essere
esclusivamente vere, poiché gli enti semplici sono eterni; il
contrario della verità, in questo caso, non sarà la falsità, bensì
l’ignoranza[35].
L’essere di tali sostanze implica la loro esistenza, giacché esse
sono sempre in atto: se così non fosse, esse sarebbero soggette alla
generazione e alla corruzione.
La conoscenza intuitiva
degli enti semplici è poi inscindibile dalla conoscenza delle loro
caratteristiche[36],
in quanto una sostanza non composta «esiste in un determinato modo,
e, se non esiste in questo modo, non esiste in alcun modo»[37].
L’intuizione del loro essere sarà quindi insieme anche intuizione
del loro esser-così.
Un’ulteriore precisazione è qui necessaria: per
quanto riguarda i discorsi dichiarativi, il loro oggetto proprio
saranno gli stati di cose. Le sostanze corporee sono infatti oggetto
di enunciati di carattere esistenziale, anche se differenti da quelli
relativi agli enti semplici. Esse sono implicate negli stati di cose
e perciò nel discorso riguardante uno stato di cose è sempre
implicato un sottointeso enunciato esistenziale riguardante le
sostanze corporee. In ogni predicazione è presente infatti una
copula (ad es. “Teeteto è seduto”, oppure “Teeteto
corre”, che è riconducibile a “Teeteto è corrente”),
la quale predica l’esistenza del soggetto, che è appunto una
sostanza corporea.
Aristotele, infatti,
afferma che un singolo nome, da solo, significa sì qualcosa, «ma
non che questo qualcosa è o non è» (ad es. il nome “uomo”
significa qualcosa, ma non dice nulla circa l’essere o il
non-essere dell’uomo); subito dopo lo Stagirita afferma che, per
contro, «vi sarà […] affermazione o negazione, una volta aggiunto
un altro termine»[38],
e si può intendere che l’affermazione e la negazione non soltanto
significano qualcosa, ma implicano anche l’essere o il non-essere
del soggetto.
Tuttavia, siccome le
sostanze corporee non sono eterne come gli enti semplici, l’opinione
o l’asserzione esistenziale implicata nel discorso dichiarativo
potrà essere sia vera che falsa. Se essa è falsa, tale sarà anche
il discorso affermativo in cui è contenuta[39].
Per esempio, l’affermazione “Teeteto è seduto” implica
l’asserzione esistenziale “Teeteto è”; ora, siccome Teeteto è
morto in battaglia, “Teeteto è” è falsa e di conseguenza sarà
falsa anche l’affermazione “Teeteto è seduto”.
Per riassumere, avremo: 1)
opinioni e asserzioni predicative, riguardanti stati di cose,
passibili di essere vere o false; 2) opinioni e asserzioni
esistenziali, riguardanti sostanze corporee, passibili di essere vere
o false; 3) opinioni e asserzioni esistenziali, riguardanti
enti semplici, le quali saranno sempre vere oppure saranno
semplicemente ignorate[40].
Opinioni e asserzioni predicative
Ogni credenza o asserzione
predicativa può riguardare un individuo oppure un universale; quelle
riguardanti un universale possono essere o indeterminate o
quantificate e queste ultime, a loro volta, possono essere
particolari ovvero universali[41].
Avremo opinioni e dichiarazioni:
a) singolari (riguardanti un individuo; es. Teeteto
è seduto);
b) generali (riguardanti un universale): b1)
indeterminate (es. Un uomo è seduto); b2) quantificate: particolari
(es. qualche uomo è seduto) oppure universali (es. Tutti gli uomini
sono seduti).
La teoria aristotelica
della verità delle opinioni e asserzioni predicative dipende da una
definizione generale di verità e falsità, che Paolo Crivelli
sistematizza nei seguenti termini: «Ogni opinione o asserzione
semplice [sia predicativa, sia esistenziale] si riferisce
esattamente ad un ente e può essere affermativa ovvero negativa.
Ogni opinione o asserzione affermativa semplice asserisce che
l’oggetto cui si riferisce è [ontologicamente] vero. Di
conseguenza, ogni opinione o asserzione affermativa semplice è vera
quando e solo quando l’ente cui si riferisce è vero; un’opinione
o asserzione affermativa semplice è falsa quando e solo quando
l’ente cui si riferisce è falso. Ogni opinione o asserzione
negativa semplice afferma che l’ente cui si riferisce è
[ontologicamente] falso. Di conseguenza, un’opinione o asserzione
negativa semplice è vera quando e solo quando l’ente cui si
riferisce è falso; un’opinione o affermazione negativa semplice è
falsa quando e solo quando l’ente cui si riferisce è vero»[42].
Questa definizione, che
vale per tutte le opinioni e asserzioni, sia affermative che
negative, sia predicative che esistenziali, applicata al caso delle
predicazioni assume la seguente forma: ogni opinione o asserzione
predicativa[43]
affermativa (negativa) è vera quando e solo quando lo stato di cose
cui si riferisce è vero (falso), cioè quando e solo quando gli enti
che compongono lo stato di cose sono uniti (separati) al modo voluto
dall’opinione o asserzione stessa. Ogni opinione o asserzione
predicativa affermativa (negativa) è falsa quando e solo quando lo
stato di cose cui si riferisce è falso (vero), cioè quando e solo
quando gli enti che compongono lo stato di cose sono separati (uniti)
al modo voluto dall’opinione o asserzione stessa.
Per brevità, non entriamo
nel dettaglio dell’applicazione della definizione generale alle
differenze quantitative della predicazione[44]
esposte nello schema precedente.
Notiamo piuttosto come la precisazione «quando e
solo quando» sia importante in quanto indica che una stessa opinione
o asserzione predicativa (affermativa o negativa) può essere vera
all’istante t e falsa all’istante t+x, o viceversa.
Ad esempio l’opinione per cui Socrate è seduto è vera all’istante
t, in quanto all’istante t si dà il caso che Socrate
è seduto, ma è falsa all’istante t+x, in quanto
all’istante t+x non si dà il caso che Socrate è seduto,
bensì che è in piedi.
Vi sono poi opinioni e asserzioni predicative
(affermative o negative) che possono essere sempre vere o sempre
false: rispettivamente in quanto lo stato di cose cui si riferiscono
è sempre sussistente (ad es. il sole è luminoso) ovvero impossibile
(ad es. Socrate vola).
Quanto fin qui detto, ad
esser più precisi, è valido soltanto per quelle opinioni e
asserzioni predicative il cui verbo è al tempo passato o al tempo
presente: esse hanno sempre un valore di verità; non è così per le
opinioni e asserzioni riguardanti un tempo futuro, che pongono un
rilevante problema alla teoria della verità aristotelica. Il
filosofo ne discute nel nono capitolo del De interpretazione:
se un’opinione o asserzione riguardante uno stato di cose futuro
fosse necessariamente vero (falso) all’istante presente t,
allora lo stato di cose dovrà necessariamente darsi (non darsi)
all’istante t+x. Se così fosse, tutto ciò che accade
sarebbe deterministicamente necessitato ad accadere. Ma si dà il
caso che vi siano eventi futuri «che prendono principio dalle
deliberazioni e dalle azioni» e perciò «non tutti gli eventi
futuri sono o divengono per necessità; si deve dire piuttosto, che
alcuni oggetti possono accadere indifferentemente in due modi, caso
in cui l’affermazione [pronunciata all’istante t] non
risulta affatto più vera della negazione»[45].
L’esempio che Aristotele
porta è quello dell’asserzione: domani avrà luogo una battaglia
navale. Se quest’asserzione fosse vera, allora sarebbe necessario
fin dal momento in cui viene proferita che il giorno seguente ci sia
una battaglia navale, la quale risulterebbe perciò già determinata
ad avvenire. In realtà, precisa il filosofo, è sì vero che ogni
affermazione predicativa ha un valore di verità, ma se essa riguarda
il futuro, lo assumerà soltanto nell’istante in cui lo stato di
cose da essa asserito si verificherà oppure non si verificherà. In
altre parole, e seguendo l’esempio, l’asserzione “all’istante
t+x ci sarà una battaglia navale” equivale all’asserzione
“in questo momento è in corso una battaglia navale”, che
assumerà il suo carattere di verità o falsità soltanto all’istante
t+x, e sarà vera se in quell’istante si darà il caso che è
in corso una battaglia navale, falsa altrimenti[46].
Le opinioni e asserzioni predicative, quindi, hanno
un valore di verità soltanto quando si riferiscono ad un tempo
passato o presente, mentre nel caso del futuro esso è
momentaneamente indeterminato.
Opinioni e
asserzioni esistenziali[47]
Nel caso delle opinioni e delle asserzioni
esistenziali concernenti le sostanze corporee, la definizione
generale sopra riportata si scandisce nei seguenti termini:
un’opinione o asserzione esistenziale affermativa (negativa) è
vera quando e solo quando la sostanza corporea cui si riferisce è
vera (falsa), ossia quando la sua forma inerisce (non inerisce) alla
sua materia, ossia quando essa esiste (non esiste); un’opinione o
asserzione esistenziale affermativa (negativa) è falsa quando e solo
quando la sostanza corporea cui si riferisce è falsa (vera), ossia
quando la sua forma non inerisce (inerisce) alla sua materia, ossia
quando essa non esiste (esiste).
Nel caso delle opinioni e delle asserzioni
esistenziali concernenti gli enti semplici, la medesima assume il
seguente carattere: un’opinione o asserzione esistenziale
affermativa (negativa) è vera quando e solo quando l’ente semplice
cui si riferisce è vero (falso), ossia quando esso esiste;
un’opinione o un’asserzione esistenziale affermativa (negativa) è
falsa quando e solo quando l’ente semplice cui si riferisce è
falso (vero), ossia quando esso esiste.
Ora, siccome ogni ente semplice è eterno, cioè
sempre vero, allora ogni opinione o asserzione esistenziale
affermativa concernente un ente semplice è sempre vera, e ogni
opinione o asserzione esistenziale negativa concernente un ente
semplice è sempre falsa.
Verità come corrispondenza
È chiaro, da quanto
detto, che nell’ottica aristotelica la verità logica di
un’opinione o di un’asserzione dipende dalla verità ontologica
dell’ente cui si riferisce. Emerge perciò come la teoria
aristotelica sia di tipo corrispondentista. Essa si specifica
nella convinzione che «la verità di un’opinione o asserzione
consiste nel suo essere isomorfa rispetto alla realtà»[48].
Una siffatta teoria dapprima procede a una
classificazione delle opinioni e asserzioni; dopo di che mette in
relazione ciascuna classe con una determinata caratteristica che può
appartenere ad uno o più oggetti dell’opinione (asserzione);
infine asserisce che un’opinione (asserzione) è vera quando e solo
quando tale caratteristica appartiene effettivamente all’oggetto o
agli oggetti significati.
Nella fattispecie, la teoria aristotelica distingue
soltanto due classi di opinioni/asserzioni: affermazioni e negazioni.
Queste due classi sono messe in relazione rispettivamente con la
verità e la falsità, che sono caratteristiche che possono
appartenere agli oggetti significati. Il risultato di questa
relazione è che un’affermazione è vera quando e solo quando la
verità appartiene all’oggetto che essa significa; una negazione è
vera quando e solo quando la falsità appartiene all’oggetto che
essa significa.
Ma la teoria aristotelica
è corrispondentista anche in un senso più specifico, in quanto,
cioè, ogni affermazione o negazione rispecchia le
caratteristiche di verità e falsità della realtà. Infatti,
asserendo che l’oggetto è vero, un’affermazione “rispecchia”
la verità; e asserendo che l’oggetto è falso, una negazione
“rispecchia” la falsità[49].
Se Platone aveva
identificato la realtà ontologicamente vera con le Idee separate,
attribuendo al mondo degli enti transeunti la caratteristica di «non
autenticità», l’ontologia aristotelica attribuisce dignità di
vero a tutti gli enti del cosmo, eliminando qualsiasi Idea separata.
Così facendo Aristotele dispone le condizioni per la verità logica,
senza dover ricorrere ad un rapporto tra problematici enti astratti e
all’altrettanto problematico rapporto di «partecipazione»[50].
L’attribuzione di una verità ontologica agli
enti, oltre ad assumere un autonomo significato metafisico, svolge
infatti tre funzioni al servizio della formulazione della logica. In
primo luogo, la verità degli enti permette di spiegare che cosa
significa l’essere vero o falso per un pensiero e una proposizione.
In secondo luogo, gli enti
sono «portatori di attributi modali»[51]
(necessità, impossibilità, possibilità, contingenza), che sono poi
trasferiti alle opinioni e asserzioni: ad esempio, un’opinione o
asserzione affermativa concernente un ente necessario è a sua volta
necessaria, come si è visto nel caso di quelle affermazioni che sono
sempre vere o sempre false.
In terzo luogo, gli enti
svolgono il ruolo di «indicatori di atteggiamenti
proposizionali»[52],
cioè sono ciò che è creduto o non creduto, desiderato o ripugnato,
ecc. Ad esempio la mia credenza che Teeteto è seduto può essere
analizzata come il mio porre in relazione il credere con lo stato di
cose che Teeteto è seduto.
Infine, la teoria della
verità come corrispondenza porta con sé un’ulteriore conseguenza:
se ogni nome o verbo significa qualcosa, questo qualcosa deve essere
un che di esistente. Cosa dire allora di frasi che riguardano
soggetti non (più) esistenti? Si è detto sopra che ogni
predicazione implica un’asserzione esistenziale e si è fatto
l’esempio della dichiarazione “Teeteto è seduto”, resa falsa
dal fatto che Teeteto non è più in vita. Ma vi sono asserzioni cui
si attribuisce un valore di verità, pur riguardando esse un soggetto
non più esistente al momento della dichiarazione, ad esempio “Omero
è un poeta”. In questo caso, dice Aristotele, la predicazione
esistenziale sottointesa è del tutto accidentale[53],
poiché quel che si vuole porre in evidenza non è tanto l’essere
di Omero, quanto il suo essere-poeta.
L’essere-poeta, di per sé, non implica l’essere
nel senso di esistere, mentre, nell’esempio precedente,
l’essere-seduto implica necessariamente l’essere nel senso di
esistere, poiché soltanto chi esiste può essere seduto, mentre
anche chi non esiste più può essere poeta.
Ogni opinione o asserzione
predicativa, perciò, è sempre relativa ad enti che esistono al
tempo presente o che sono esistiti nel tempo passato[54].
Il predicato, essendo un universale, non fa problema, e nemmeno il
soggetto, se è universale a sua volta. Ma se il soggetto è
individuale, allora la possibilità di essere vero o falso per un
asserto dipendono dalla possibilità di attribuire il
predicato al soggetto: negli esempi fatti, “Teeteto è seduto” è
falso e non può essere vero perché non è possibile attribuire
l’essere seduto a Teeteto che non è; “Omero è un poeta” può
essere vero ed è vero perché è possibile attribuire l’essere
poeta a Omero, anche se egli non è.
Per quanto riguarda, infine, un soggetto che fosse
del tutto inesistente (ad es. un unicorno), si dovrebbe semplicemente
dire che esso non è significativo e dunque quella dichiarazione o
pensiero che lo contiene in realtà non è una reale dichiarazione o
pensiero.
[1]
Cfr. ad es. Metaph. E4, 1027b 25-28
[4]
Metaph. Λ7 1072b 20.
[5]
Cfr. ad es. EN VI, 2, 1139b 12-13.
[7]
EE VIII, 3, 1248b 10-11.
[8]
EN VI, 7, 1141a 19.
[9]
Metaph. Z4, 1030a 10-15.
[10]
«Sostanza è quella detta nel senso più proprio e in senso
primario e principalmente, la quale né si dice di qualche soggetto
né è in qualche soggetto: ad esempio, un certo uomo o un certo
cavallo» (Cat. I, 5, 2a 11-13).
[11]
Cfr. Cat. I, 5, 2b 6.
[12]
G. Movia, Introduzione, in Aristotele, L’anima,
Bompiani, Milano 2001, p. 26.
[13]
EE II, 1, 1219a 4.
[14]
EE, Rizzoli, Milano 2012, p. 365.
[15]
M. Zanatta, nota 1 a EN, I, 6, Rizzoli, Milano 1986,
p. 407.
[16]
Metafisica Θ, 8, 1050a 7-9.
[17]
Metafisica Θ, 6, 1048a 32.
[18]
Metaph. Θ, 10, 1051b 17-30.
[19]
Ad esempio, in M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza,
Roma-Bari 2010 (1989), pp. 159-218.
[20]
Cfr. M. Zanatta, Introduzione alla filosofia di Aristotele,
Rizzoli, Milano 2010, pp. 293 e ss.
[21]
Cfr. P. Crivelli, op. cit., p. 4.
[22]
Ibidem.
[23]
Cfr. P. Crivelli, op. cit., p. 5, dove lo studioso mette in
chiaro anche le differenze che intercorrono tra sostanze corporee e
stati di cose.
[28]
Poet. 6, 1450a 18.
[29]
M. Zanatta, Introduzione a Poetica, in Aristotele,
Retorica e poetica, UTET, Torino 2006, p. 469.
[30]
Ivi, p. 470.
[31]
Ibidem.
[32]
Per tutte queste considerazioni cfr. Cat. 4-6, 17a 1-30.
[33]
P. Crivelli, op. cit., p. 8.
[34]
Cfr. P. Crivelli, op. cit., p. 18, p. 103.
[35]
Cfr. Metaph. Θ10, 1051b 17-30.
[36]
Mi discosto, in ciò, da quanto affermato in P. Crivelli, op.
cit., p. 20.
[39]
Cfr. De int. 11, 21a 20-23.
[40]
Non ho considerato il caso in cui l’opinione o asserzione
esistenziale sia negativa: in tal caso, è chiaro che sarà sempre
falsa.
[41]
Per il seguente schema, cfr. P. Crivelli, op. cit., p. 11.
[42]
Ivi, p. 9.
[43]
Sottointendiamo l’aggettivo “semplice” in quanto è sempre di
dichiarazioni semplici che Aristotele tratta, essendo che unicamente
da esse dipende il valore di verità del discorso composto, come s’è
detto.
[44]
Cfr. P. Crivelli, op. cit., pp. 13-16.
[45]
De int. 9, 19a 7-20.
[46]
Per un’analisi di De interpretazione 9, cfr. P. Crivelli,
op. cit., pp. 198-233.
[47]
Cfr. P. Crivelli, op. cit., pp. 18-20.
[48]
ivi, p. 23.
[49]
Per tutte queste considerazioni cfr. ivi, pp. 23-25.
[50]
Cfr. La logica del Sofista, 259d – 264b.
[51]
P. Crivelli, op. cit., p. 20.
[52]
Ivi, p. 21.
[53]
Cfr. De int. 11, 21a 23-28.
[54]
Cfr. P. Crivelli, op. cit., pp. 158-163.
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