giovedì 22 agosto 2013

La dottrina aristotelica della verità

Di seguito una mia tesina per un esame sul tema della verità in Aristotele.


Introduzione

  
Negli scritti di Aristotele non è rintracciabile una trattazione unitaria e sistematica del tema della verità. Non vi si trova la specificazione dei diversi sensi in cui qualcosa può essere detto «vero» o «falso», se non parzialmente. Tuttavia risulta evidente come il filosofo utilizzi questi termini in accezioni non univoche, generando difficoltà che aprono a diverse interpretazioni. Essendo che Aristotele ha dedicato la sua attività di ricerca filosofica e scientifica a pressoché ogni ambito del sapere, sembra quasi pleonastico notare come il significato dei termini da lui impiegati muti spesso a seconda dell’oggetto trattato, e ciò è particolarmente evidente nel caso della verità e della falsità. Tutto ciò rende assai arduo l’approccio al tema, il quale richiede la capacità di adeguarsi ai differenti livelli dell’espressività filosofica dello Stagirita. Consapevole dell’enorme mole di lavoro che uno studio approfondito del tema richiederebbe, ho cercato nondimeno di affrontarlo nei limiti del seguente lavoro, nella speranza di esser riuscito a dare una lettura dell’argomento che, pur risultando di necessità incompleta, possa quanto meno risultare non del tutto fuori strada.
Occorre innanzitutto precisare che per Aristotele il valore di verità non è soltanto una proprietà delle proposizioni e dei pensieri, ma è anche e soprattutto una determinazione ontologica del reale. Ciò che è vero nel senso più profondo, sono infatti gli enti semplici, ingenerati, incorruttibili ed eterni, cioè Dio, i motori celesti e le essenze. Vero è che quest’ultime non sono entità separate al modo delle idee platoniche, bensì inerenti sempre a singoli individui, tuttavia si può attribuire loro un carattere di eternità, in quanto sono coeterne all’universo e coincidono con i generi e le specie ultimi degli individui che vivono in esso.
Secondariamente, sono ontologicamente veri gli enti composti, i quali sono soggetti a generazione e corruzione; il loro essere non ha dunque il carattere della necessità e così nemmeno la loro verità, che può capovolgersi in falsità.
In terzo luogo vi sono gli enti fittizi, quali sono i personaggi dell’epica, della tragedia e della commedia. Essi si situano al grado del verisimile, che non corrisponde ad una degradazione della verità, bensì alla rappresentazione universale di ciò che attiene alla vita umana e che rientra nell’ambito di quelle cose che avvengono non necessariamente, bensì per lo più, cioè con una regolarità che può favorire un certo grado di astrazione dal particolare, pur senza l’elevazione al concetto.
Infine l’attributo di verità e falsità può essere riferito a proposizioni e pensieri apofantici. A questo livello si pone il corrispettivo logico della verità ontologica, ciò che fa della teoria aristotelica una dottrina corrispondentista. Un’affermazione avrà dunque sempre come condizione di verità il darsi effettivo di una verità ontologica.
Nel presente lavoro ho tentato di sviluppare questi quattro modi di intendere la verità, cercando di indicarne le implicazioni filosofiche all’interno del pensiero aristotelico.



1. LA VERITÀ ONTOLOGICA DEGLI ENTI


Se in Aristotele verità e falsità siano attributi unicamente di enunciati e pensieri, oppure abbiano un valore ontologico, è questione discussa tra i commentatori, a causa del fatto che in alcuni passaggi Aristotele afferma esplicitamente che il valore di verità può essere attribuito soltanto a un’operazione della mente[1], mentre in altri sembra attribuire questa qualità anche alle cose[2]. Seguirò qui l’interpretazione fornita da Paolo Crivelli, il quale, sulla base di un’accurata analisi testuale[3], afferma esistere in Aristotele una dottrina ontologica della verità.
Nei passi in cui Aristotele discute dell’essere e del non-essere nel senso del vero e del falso, egli opera una fondamentale distinzione ontologica, ponendo da una parte 1)  gli enti semplici e dall’altra 2) gli enti composti. Fra i primi, la sua metafisica annovera 1.a) le sostanze incorporee (Dio e i cinquantacinque motori dell’universo) e 1.b) le essenze; fra i secondi, 2.a) gli stati di cose composti da enti in relazione tra loro  e 2.b) le sostanze corporee.
A questo schema dell’ontologia aristotelica possiamo infine aggiungere 3) gli enti fittizi, che sono il risultato dell’imitazione poetica.


Le sostanze incorporee
Se è vero, dunque, che la verità è un attributo dell’essere, allora il senso proprio della verità sarà quello in base al significato dell’essere che è ontologicamente primario, ossia a quello che indica la sostanza immobile e incorruttibile, cioè Dio. Egli infatti è inteso come «intelligenza [che] pensa se stessa, cogliendosi come intelligibile»[4], e l’oggetto dell’attività di ogni intelligenza è la verità[5]. Dio è perciò il Vero essere che si contempla quale suprema Verità. Così anche l’uomo, nell’attività in cui si esplica la virtù dianoetica della sapienza, contemplando Dio quale supremo principio e causa di tutti gli esseri, sarà nella verità e in ciò si farà simile a Dio[6]. Come la vita divina, coincidendo con «la somma bellezza ed il sommo bene», è «vita ottima ed eterna», così l’uomo che, nella limitatezza della sua condizione, si avvicinerà il più possibile ad essa, realizzerà la somma di ogni bene e di ogni bellezza (kalokagathia)[7]. In ciò consiste, secondo Aristotele, il fine della vita umana, che procura all’uomo la felicità perfetta.
Accanto alla perfezione del Motore immobile, l’uomo virtuoso contemplerà anche le altre realtà celesti, il cui movimento perfetto deriva dalla loro tensione verso Dio, inteso quale causa finale verso la quale essi tendono come mossi da desiderio e amore. In tal modo, l’uomo può giungere all’intuizione dei supremi principi di tutte le cose e, in base a questi, avrà pure accesso alla scienza «delle realtà che sono più degne di pregio»[8], che è la conoscenza delle conseguenze vere derivanti dai supremi principi stessi.


Le essenze
Le essenze sono le specie ultime dei generi[9], ciò mediante cui si definisce una sostanza prima[10], e che non sono nulla di esistente senza queste ultime[11]. Esse sono quindi ciò che rende possibile l’unità della specie e che ne caratterizza ogni singolo individuo. Se si escludono gli esseri non viventi, si può dire che l’essenza corrisponde in qualche modo alle facoltà dell’anima: per Aristotele infatti tutti gli individui sono dotati di un’anima, la quale è causa delle caratteristiche proprie dei generi o delle specie ai quali essi possono essere ricondotti. La facoltà nutritiva appartiene all’intero genere dei viventi ed è propria della specie delle piante; la facoltà sensitiva è comune al genere animale e propria della specie di animali non intelligenti; la facoltà intellettiva è invece comune al genere umano e propria soltanto di esso (o quantomeno della specie di uomini sani).
L’essenza è quindi definibile a partire dalle capacità che l’individuo possiede grazie alle facoltà dell’anima. Ora, per Aristotele, «il fine dei viventi non è altro che l’esercizio delle attività a loro peculiari»[12], cioè dell’attività perfetta della parte dell’anima che li caratterizza specificamente. Di conseguenza, il fine dei viventi sarà la realizzazione di ciò che esprime la loro essenza peculiare.
Questa considerazione è di fondamentale importanza, in quanto permette di comprendere come l’attività (sia nel senso di energheia che nel senso di praxis) propria di ciascun vivente sia intrinsecamente unita alla verità ontologica della sua essenza. Ciò ha le sue più vaste conseguenze nell’ambito dell’etica, ed è infatti nelle opere dedicate alla scienza pratica che si trova la formulazione di tale principio. Nell’Etica Eudemia ne rinveniamo la più concisa ed eloquente: «τέλος εκάsτου τò έργον»[13], che Marcello Zanatta traduce come «fine di ciascuna cosa è l’opera»[14]. Il medesimo traduttore precisa che érgon è un termine che Aristotele mutua da Platone per denotare l’opera per il compimento della quale la cosa è fatta. «[L’érgon] dunque - essendo il suo fine – ne definisce anche l’essenza»[15].
Aggiungiamo noi che nella filosofia aristotelica alla nozione di telos è associata anche quella di energheia. Secondo la dottrina aristotelica della potenza e dell’atto, la dynamis è capacità, movimento orientato ad un fine; l’energheia (atto) è la causa finale, il telos verso il quale tende qualsiasi dynamis. Per questo, «secondo la sostanza» esso «è anteriore» rispetto alla potenza: «tutto ciò che diviene procede verso un principio, ossia verso il fine: infatti, lo scopo (telos) costituisce un principio e il divenire ha luogo in funzione del fine. E il fine è l’atto (energheia[16].
Possiamo perciò notare una straordinaria convergenza, su questo punto, di un cospicuo numero di termini che possono essere annoverati fra i più importanti di tutta la filosofia aristotelica: telos, ergon, ousia, energheia (e quindi, implicitamente, anche dynamis).
Volendo tentare di esplicitare più chiaramente questa corrispondenza, possiamo affermare che per Aristotele: 1) il fine (telos) di ogni vivente è compiere l’opera che gli è propria (ergon), cioè quell’opera che è espressione della parte dell’anima che lo caratterizza; 2) il compimento di quest’opera coincide con la realizzazione dell’essenza (ousia) del vivente e quindi con 3) la piena attualizzazione (energheia) delle potenzialità (dynamis) che gli sono proprie per natura. Ogni cosa, infatti, realizza pienamente la propria natura soltanto quando perviene all’attualizzazione, in quanto «l’atto è l’esistere della cosa»[17].
Ora, se è l’essenza ad indicare l’opera propria che è fine del vivente, e se, come abbiamo detto, l’essenza è la verità ontologica della specie, ci si apre da questa prospettiva la possibilità di comprendere il nesso tra verità e prassi, che Aristotele non ha mai esplicitato. Infatti la scelta dei fini moralmente belli delle azioni, che costituiscono i principi dell’agire fungendo da premessa maggiore dei sillogismi pratici, dovrà basarsi sulla conoscenza della verità ontologica della specie umana, ossia sulla conoscenza di quale opera è maggiormente adeguata alla sua natura.
La conoscenza delle essenze, peraltro, è oggetto dell’attività dell’intelletto[18], e quindi attiene all’attività teoretica del sapiente, completando il numero di principi da cui deriva la conoscenza scientifica. La verità oggetto della contemplazione, pertanto, non è qualcosa di completamente separato dalla prassi, come sostenuto da alcuni interpreti[19]: al contrario, quest’ultima trae i suoi principi da quella. Come ha messo in chiaro Marcello Zanatta, tra l’attività teoretica e quella pratica sussiste un fondamentale rapporto, sul quale si salda il sillogismo pratico, in quanto il conoscere i principi (che costituiscono la premessa maggiore nei sillogismi), anche nell’ambito della scienza pratica, è di pertinenza dell’intelletto, e quindi della parte «scientifica» della ragione, mentre lo sviluppo del sillogismo (nella sua premessa minore e quindi nella sua conclusione, che coincide con l’azione), basandosi sul particolare delle circostanze che si presentano di volta in volta, è di pertinenza della saggezza, e quindi della parte «calcolativa» della ragione[20].


Gli stati di cose
Naturalmente Aristotele non usa alcuna espressione equivalente a «stati di cose», e tuttavia questa formulazione, che Paolo Crivelli applica diffusamente nel suo studio sulla teoria aristotelica della verità, può essere calzante per descrivere quella condizione di unione e separazione tra «cose», di cui Aristotele parla per esempio nell’ultimo capitolo del IX libro della Metafisica. Uno stato di cose sarebbe quindi un ente composto, la cui unitarietà è data dalla relazione tra due oggetti componenti. Questi due possono essere entrambi degli universali, oppure uno universale e l’altro un individuo.
La verità ontologica di uno stato di cose è data dalla combinazione tra i due componenti, mentre la sua falsità è data dalla loro divisione[21]. Ad esempio, lo stato di cose che Teeteto è seduto è composto dall’universale seduto e dall’individuo Teeteto, ed è vero se e soltanto se si dà il caso che Teeteto è seduto; lo stato di cose che ogni uomo vola è composto dall’universale vola e dall’universale uomo ed è falso, in quanto non si dà il caso che ogni uomo vola.
Seguendo le indicazioni di Crivelli, Aristotele concepisce soltanto stati di cose “affermativi”: non esiste lo stato di cose che Teeteto non è seduto, ma soltanto quello che Teeteto è seduto, che sarà falso se Teeteto non è seduto. Uno stato di cose, inoltre, può esistere anche se è falso (sempre o in un determinato tempo), poiché la falsità dello stato di cose non pregiudica il principio in base al quale esso è composto[22]. Esisteranno dunque stati di cose sempre veri (ad esempio lo stato di cose che la diagonale di un quadrato è incommensurabile rispetto al lato), altri che sono sempre falsi (ad esempio lo stato di cose che Socrate vola); la maggior parte, infine, possono essere sia veri che falsi, a seconda del momento in cui vengono considerati (ad esempio che Teeteto è seduto).


Le sostanze corporee
Aristotele non parla di verità e falsità in relazione alle sostanze corporee (enti composti di materia e forma), ma è possibile arguire la sua posizione in merito, basandosi sull’analogia che intercorre tra la composizione della materia e della forma, da una parte, e la relazione tra enti all’interno di uno stato di cose, dall’altra. Se per uno stato di cose l’esser vero corrisponde all’effettivo darsi della combinazione tra gli enti, così per una sostanza corporea l’essere corrisponde all’unione tra forma e materia; è perciò probabile che a questa unione corrisponda la verità della sostanza[23].
Tanto la materia quanto la forma sono antecedenti al sinolo, ma soltanto la loro unione, che è data dall’inerire di una determinata forma ad una materia indeterminata, costituisce la sostanza corporea quale essere ontologicamente vero. Tuttavia, essendo la forma causa e principio dell’essere del composto, essa è «maggiormente essere»[24] sia rispetto alla materia che al composto. Anche il carattere di verità ontologica spetterà quindi primariamente alla forma, come del resto è evidente dal fatto che la forma è ingenerata e dunque necessariamente vera, mentre il composto, cioè la sostanza fenomenicamente esistente, è soggetta a generazione e corruzione. Si può dire che la forma, di per sé, rientra ancora fra gli enti semplici: del resto, essa corrisponda all’essenza del sinolo, mentre quest’ultimo è il primo fra gli enti composti, che si situano a un gradino inferiore di verità ontologica, una verità non necessaria in senso assoluto, ma condizionale (quando e solo quando la forma inerisce alla materia il composto è ontologicamente vero, cioè esiste).


Gli enti fittizi
La trattazione aristotelica degli enti fittizi è limitata al suo breve trattato sulla Poetica, ed è in un certo senso laterale rispetto al corpo dottrinario vero e proprio, che viene affrontato più esplicitamente nella Metafisica e negli scritti dell’Organon. Tuttavia questo isolamento è comprensibile, per il fatto che la verità concernente gli enti fittizi della narrazione ha delle caratteristiche del tutto peculiari: essa non riguarda, se non in maniera indiretta, la realtà, ma concerne l’ambito dell’ipotetico, del possibile, del verisimile. Il compito del poeta, infatti, non è dire «le cose che sono avvenute», quanto piuttosto le cose «quali sarebbero potute avvenire»[25]. Alle prime si rivolge propriamente lo storico, il cui ruolo è da Aristotele degradato a mera ricerca empirica di fatti particolari, che proprio in quanto particolari non hanno in sé alcuna possibilità di ripetersi, e perciò sono utili alla conoscenza del passato, ma non alla comprensione di ciò che riguarda il mondo umano in senso universale. La poesia, per contro, astrae da qualsiasi contingenza effettiva, e narra di fatti che non sono unici e irripetibili, ma sono modelli universali di ciò che accade «per lo più». Per questo la poesia «è affare più filosofico e più serio della storia»[26].
Gli enti fittizi sono i «caratteri» espressi dai personaggi della narrazione; essi sono ciò che può essere colto dallo spettatore per mezzo dell’attore e che rende manifesto «di che natura sia» «la scelta deliberata»[27] che è movente dell’azione. In altre parole, l’ente fittizio è un’azione di cui è possibile comprendere la causa. Esso non va confuso con l’individuo singolo presente sulla scena, il quale è soltanto il tramite del carattere universale che esprime. Come scrive Aristotele «la tragedia è imitazione non di uomini», cioè di individui, «ma di fatti e di vita»[28], che, come abbiamo testé detto, avvengono «per lo più».
 Come nota Marcello Zanatta, «la ricorrenza dell’evento» che accade nella maggioranza dei casi, «non comporta che esso si verifichi ogni volta in modo rigorosamente e assolutamente identico, ma ammette in ciascuna [ricorrenza] un certo margine di variabilità e di differenziazione»[29]. Ciò significa che l’ente fittizio esprime i caratteri di somiglianza che accomunano ogni possibile ricorrenza di un evento. Per questo esso è un universale, o  meglio, «funziona “come” un universale»[30]; infatti l’universale esprime un’identità degli enti che cadono sotto di esso, mentre il tipo di universale poetico esprime piuttosto una somiglianza.
Zanatta sottolinea ancora che l’universale poetico funziona «come il genere rispetto alla specie» e quindi attribuisce ad esso «una capacità che è simile alla definizione»[31]. In altre parole, è come se l’universale poetico fornisse la definizione di un determinato carattere, e così esso sarà conoscibile anche a coloro che non perseguono l’indagine filosofica e dunque non potrebbero pervenire per altra via alla conoscenza universale di ciò che è propriamente umano.
Come si è detto, gli enti fittizi sono enti possibili, e tuttavia, a differenza di qualsiasi altro ente possibile, il loro carattere di verità ontologica non è intaccabile: essi sono sempre veri. Il racconto può essere costruito con maggiore o minore arte, ma tuttavia non sarà mai falso, in quanto non si darà mai il caso che ciò che esso esprime possa essere, nella maggioranza dei casi, diverso da come è espresso.

  

2. LA VERITÀ LOGICA DI AFFERMAZIONI E PENSIERI


Circa il valore di verità dei costrutti linguistici (siano essi mentali o espliciti) è più semplice rintracciare evidenze testuali per comprendere la dottrina aristotelica. Tuttavia queste sono, ancora una volta, sparse e non univocamente interpretabili. La ricerca di Paolo Crivelli ha l’indiscutibile merito di fornire una lettura coerente e completa della questione: a questa ci atterremo, per lo più, nel seguito dell’esposizione.
Le proposizioni che sono passibili di essere vere o false sono chiamate da Aristotele «discorsi dichiarativi», che sono l’affermazione («il giudizio che attribuisce qualcosa a qualcosa») e la negazione («il giudizio che separa qualcosa da qualcosa»). La congiunzione di più discorsi dichiarativi forma un discorso composto, il cui valore di verità dipenderà tuttavia dai suoi componenti semplici, che perciò sono i soli ad essere presi in considerazione. Vi sono poi dei discorsi, come la preghiera, che, pur essendo significativi, non sono né veri né falsi[32].
È verosimile supporre che Aristotele ritenesse passibili di verità e falsità anche le opinioni, che sono il corrispettivo mentale delle dichiarazioni[33], sicché si può definire l’opinione affermativa come l’opinione che attribuisce qualcosa a qualcosa, e l’opinione negativa come quella che separa qualcosa da qualcosa.
I termini «unire» e «separare» significano qui rispettivamente «predicare affermativamente» e «predicare negativamente», nel senso che un’opinione o una dichiarazione che predichino affermativamente qualcosa di qualcosa ritengono che, nella realtà, il secondo sia unito al primo; mentre un’opinione o una dichiarazione che predicano negativamente, esprimono la credenza che nella realtà qualcosa sia separato da qualcosa. Ad esempio «Teeteto è seduto» asserisce che nella realtà l’essere-seduto è unito a Teeteto, mentre «Teeteto non è seduto» asserisce che nella realtà l’essere-seduto è separato da Teeteto.
Poiché la predicazione implica l’unione o la separazione di enti, è chiaro che i discorsi dichiarativi potranno riferirsi soltanto agli enti composti. Gli enti semplici sono invece oggetto di un’intuizione conoscitiva, compiuta mediante l’intelletto, che si differenzia in ciò dal logos della ragione. Per quanto concerne gli enti semplici, perciò, saranno possibili soltanto affermazioni esistenziali[34], che colgono l’essere dell’ente: tali affermazioni potranno essere esclusivamente vere, poiché gli enti semplici sono eterni; il contrario della verità, in questo caso, non sarà la falsità, bensì l’ignoranza[35]. L’essere di tali sostanze implica la loro esistenza, giacché esse sono sempre in atto: se così non fosse, esse sarebbero soggette alla generazione e alla corruzione.
La conoscenza intuitiva degli enti semplici è poi inscindibile dalla conoscenza delle loro caratteristiche[36], in quanto una sostanza non composta «esiste in un determinato modo, e, se non esiste in questo modo, non esiste in alcun modo»[37]. L’intuizione del loro essere sarà quindi insieme anche intuizione del loro esser-così.
Un’ulteriore precisazione è qui necessaria: per quanto riguarda i discorsi dichiarativi, il loro oggetto proprio saranno gli stati di cose. Le sostanze corporee sono infatti oggetto di enunciati di carattere esistenziale, anche se differenti da quelli relativi agli enti semplici. Esse sono implicate negli stati di cose e perciò nel discorso riguardante uno stato di cose è sempre implicato un sottointeso enunciato esistenziale riguardante le sostanze corporee. In ogni predicazione è presente infatti una copula (ad es. “Teeteto è seduto”, oppure “Teeteto corre”, che è riconducibile a “Teeteto è corrente”), la quale predica l’esistenza del soggetto, che è appunto una sostanza corporea.
Aristotele, infatti, afferma che un singolo nome, da solo, significa sì qualcosa, «ma non che questo qualcosa è o non è» (ad es. il nome “uomo” significa qualcosa, ma non dice nulla circa l’essere o il non-essere dell’uomo); subito dopo lo Stagirita afferma che, per contro, «vi sarà […] affermazione o negazione, una volta aggiunto un altro termine»[38], e si può intendere che l’affermazione e la negazione non soltanto significano qualcosa, ma implicano anche l’essere o il non-essere del soggetto.
Tuttavia, siccome le sostanze corporee non sono eterne come gli enti semplici, l’opinione o l’asserzione esistenziale implicata nel discorso dichiarativo potrà essere sia vera che falsa. Se essa è falsa, tale sarà anche il discorso affermativo in cui è contenuta[39]. Per esempio, l’affermazione “Teeteto è seduto” implica l’asserzione esistenziale “Teeteto è”; ora, siccome Teeteto è morto in battaglia, “Teeteto è” è falsa e di conseguenza sarà falsa anche l’affermazione “Teeteto è seduto”.
Per riassumere, avremo: 1) opinioni e asserzioni predicative, riguardanti stati di cose, passibili di essere vere o false; 2) opinioni e asserzioni esistenziali, riguardanti sostanze corporee, passibili di essere vere o false; 3) opinioni e asserzioni esistenziali, riguardanti enti semplici, le quali saranno sempre vere oppure saranno semplicemente ignorate[40].

  
Opinioni e asserzioni predicative
Ogni credenza o asserzione predicativa può riguardare un individuo oppure un universale; quelle riguardanti un universale possono essere o indeterminate o quantificate e queste ultime, a loro volta, possono essere particolari ovvero universali[41].
Avremo opinioni e dichiarazioni:
a) singolari (riguardanti un individuo; es. Teeteto è seduto);
b) generali (riguardanti un universale): b1) indeterminate (es. Un uomo è seduto); b2) quantificate: particolari (es. qualche uomo è seduto) oppure universali (es. Tutti gli uomini sono seduti).

La teoria aristotelica della verità delle opinioni e asserzioni predicative dipende da una definizione generale di verità e falsità, che Paolo Crivelli sistematizza nei seguenti termini: «Ogni opinione o asserzione  semplice [sia predicativa, sia esistenziale] si riferisce esattamente ad un ente e può essere affermativa ovvero negativa. Ogni opinione o asserzione affermativa semplice asserisce che l’oggetto cui si riferisce è [ontologicamente] vero. Di conseguenza, ogni opinione o asserzione affermativa semplice è vera quando e solo quando l’ente cui si riferisce è vero; un’opinione o asserzione affermativa semplice è falsa quando e solo quando l’ente cui si riferisce è falso. Ogni opinione o asserzione negativa semplice afferma che l’ente cui si riferisce è [ontologicamente] falso. Di conseguenza, un’opinione o asserzione negativa semplice è vera quando e solo quando l’ente cui si riferisce è falso; un’opinione o affermazione negativa semplice è falsa quando e solo quando l’ente cui si riferisce è vero»[42].
Questa definizione, che vale per tutte le opinioni e asserzioni, sia affermative che negative, sia predicative che esistenziali, applicata al caso delle predicazioni assume la seguente forma: ogni opinione o asserzione predicativa[43] affermativa (negativa) è vera quando e solo quando lo stato di cose cui si riferisce è vero (falso), cioè quando e solo quando gli enti che compongono lo stato di cose sono uniti (separati) al modo voluto dall’opinione o asserzione stessa. Ogni opinione o asserzione predicativa affermativa (negativa) è falsa quando e solo quando lo stato di cose cui si riferisce è falso (vero), cioè quando e solo quando gli enti che compongono lo stato di cose sono separati (uniti) al modo voluto dall’opinione o asserzione stessa.
Per brevità, non entriamo nel dettaglio dell’applicazione della definizione generale alle differenze quantitative della predicazione[44] esposte nello schema precedente.
Notiamo piuttosto come la precisazione «quando e solo quando» sia importante in quanto indica che una stessa opinione o asserzione predicativa (affermativa o negativa) può essere vera all’istante t e falsa all’istante t+x, o viceversa. Ad esempio l’opinione per cui Socrate è seduto è vera all’istante t, in quanto all’istante t si dà il caso che Socrate è seduto, ma è falsa all’istante t+x, in quanto all’istante t+x non si dà il caso che Socrate è seduto, bensì che è in piedi.
Vi sono poi opinioni e asserzioni predicative (affermative o negative) che possono essere sempre vere o sempre false: rispettivamente in quanto lo stato di cose cui si riferiscono è sempre sussistente (ad es. il sole è luminoso) ovvero impossibile (ad es. Socrate vola).
Quanto fin qui detto, ad esser più precisi, è valido soltanto per quelle opinioni e asserzioni predicative il cui verbo è al tempo passato o al tempo presente: esse hanno sempre un valore di verità; non è così per le opinioni e asserzioni riguardanti un tempo futuro, che pongono un rilevante problema alla teoria della verità aristotelica. Il filosofo ne discute nel nono capitolo del De interpretazione: se un’opinione o asserzione riguardante uno stato di cose futuro fosse necessariamente vero (falso) all’istante presente t, allora lo stato di cose dovrà necessariamente darsi (non darsi) all’istante t+x. Se così fosse, tutto ciò che accade sarebbe deterministicamente necessitato ad accadere. Ma si dà il caso che vi siano eventi futuri «che prendono principio dalle deliberazioni e dalle azioni» e perciò «non tutti gli eventi futuri sono o divengono per necessità; si deve dire piuttosto, che alcuni oggetti possono accadere indifferentemente in due modi, caso in cui l’affermazione [pronunciata all’istante t] non risulta affatto più vera della negazione»[45].
L’esempio che Aristotele porta è quello dell’asserzione: domani avrà luogo una battaglia navale. Se quest’asserzione fosse vera, allora sarebbe necessario fin dal momento in cui viene proferita che il giorno seguente ci sia una battaglia navale, la quale risulterebbe perciò già determinata ad avvenire. In realtà, precisa il filosofo, è sì vero che ogni affermazione predicativa ha un valore di verità, ma se essa riguarda il futuro, lo assumerà soltanto nell’istante in cui lo stato di cose da essa asserito si verificherà oppure non si verificherà. In altre parole, e seguendo l’esempio, l’asserzione “all’istante t+x ci sarà una battaglia navale” equivale all’asserzione “in questo momento è in corso una battaglia navale”, che assumerà il suo carattere di verità o falsità soltanto all’istante t+x, e sarà vera se in quell’istante si darà il caso che è in corso una battaglia navale, falsa altrimenti[46].
Le opinioni e asserzioni predicative, quindi, hanno un valore di verità soltanto quando si riferiscono ad un tempo passato o presente, mentre nel caso del futuro esso è momentaneamente indeterminato.


Opinioni e asserzioni esistenziali[47]
Nel caso delle opinioni e delle asserzioni esistenziali concernenti le sostanze corporee, la definizione generale sopra riportata si scandisce nei seguenti termini: un’opinione o asserzione esistenziale affermativa (negativa) è vera quando e solo quando la sostanza corporea cui si riferisce è vera (falsa), ossia quando la sua forma inerisce (non inerisce) alla sua materia, ossia quando essa esiste (non esiste); un’opinione o asserzione esistenziale affermativa (negativa) è falsa quando e solo quando la sostanza corporea cui si riferisce è falsa (vera), ossia quando la sua forma non inerisce (inerisce) alla sua materia, ossia quando essa non esiste (esiste).
Nel caso delle opinioni e delle asserzioni esistenziali concernenti gli enti semplici, la medesima assume il seguente carattere: un’opinione o asserzione esistenziale affermativa (negativa) è vera quando e solo quando l’ente semplice cui si riferisce è vero (falso), ossia quando esso esiste; un’opinione o un’asserzione esistenziale affermativa (negativa) è falsa quando e solo quando l’ente semplice cui si riferisce è falso (vero), ossia quando esso esiste.
Ora, siccome ogni ente semplice è eterno, cioè sempre vero, allora ogni opinione o asserzione esistenziale affermativa concernente un ente semplice è sempre vera, e ogni opinione o asserzione esistenziale negativa concernente un ente semplice è sempre falsa.


Verità come corrispondenza
È chiaro, da quanto detto, che nell’ottica aristotelica la verità logica di un’opinione o di un’asserzione dipende dalla verità ontologica dell’ente cui si riferisce. Emerge perciò come la teoria aristotelica sia di tipo corrispondentista. Essa si specifica nella convinzione che «la verità di un’opinione o asserzione consiste nel suo essere isomorfa rispetto alla realtà»[48].
Una siffatta teoria dapprima procede a una classificazione delle opinioni e asserzioni; dopo di che mette in relazione ciascuna classe con una determinata caratteristica che può appartenere ad uno o più oggetti dell’opinione (asserzione); infine asserisce che un’opinione (asserzione) è vera quando e solo quando tale caratteristica appartiene effettivamente all’oggetto o agli oggetti significati.
Nella fattispecie, la teoria aristotelica distingue soltanto due classi di opinioni/asserzioni: affermazioni e negazioni. Queste due classi sono messe in relazione rispettivamente con la verità e la falsità, che sono caratteristiche che possono appartenere agli oggetti significati. Il risultato di questa relazione è che un’affermazione è vera quando e solo quando la verità appartiene all’oggetto che essa significa; una negazione è vera quando e solo quando la falsità appartiene all’oggetto che essa significa.
Ma la teoria aristotelica è corrispondentista anche in un senso più specifico, in quanto, cioè, ogni affermazione o negazione rispecchia le caratteristiche di verità e falsità della realtà. Infatti, asserendo che l’oggetto è vero, un’affermazione “rispecchia” la verità; e asserendo che l’oggetto è falso, una negazione “rispecchia” la falsità[49].
Se Platone aveva identificato la realtà ontologicamente vera con le Idee separate, attribuendo al mondo degli enti transeunti la caratteristica di «non autenticità», l’ontologia aristotelica attribuisce dignità di vero a tutti gli enti del cosmo, eliminando qualsiasi Idea separata. Così facendo Aristotele dispone le condizioni per la verità logica, senza dover ricorrere ad un rapporto tra problematici enti astratti e all’altrettanto problematico rapporto di «partecipazione»[50].
L’attribuzione di una verità ontologica agli enti, oltre ad assumere un autonomo significato metafisico, svolge infatti tre funzioni al servizio della formulazione della logica. In primo luogo, la verità degli enti permette di spiegare che cosa significa l’essere vero o falso per un pensiero e una proposizione.
In secondo luogo, gli enti sono «portatori di attributi modali»[51] (necessità, impossibilità, possibilità, contingenza), che sono poi trasferiti alle opinioni e asserzioni: ad esempio, un’opinione o asserzione affermativa concernente un ente necessario è a sua volta necessaria, come si è visto nel caso di quelle affermazioni che sono sempre vere o sempre false.
In terzo luogo, gli enti svolgono il ruolo di «indicatori di atteggiamenti proposizionali»[52], cioè sono ciò che è creduto o non creduto, desiderato o ripugnato, ecc. Ad esempio la mia credenza che Teeteto è seduto può essere analizzata come il mio porre in relazione il credere con lo stato di cose che Teeteto è seduto.
Infine, la teoria della verità come corrispondenza porta con sé un’ulteriore conseguenza: se ogni nome o verbo significa qualcosa, questo qualcosa deve essere un che di esistente. Cosa dire allora di frasi che riguardano soggetti non (più) esistenti? Si è detto sopra che ogni predicazione implica un’asserzione esistenziale e si è fatto l’esempio della dichiarazione “Teeteto è seduto”, resa falsa dal fatto che Teeteto non è più in vita. Ma vi sono asserzioni cui si attribuisce un valore di verità, pur riguardando esse un soggetto non più esistente al momento della dichiarazione, ad esempio “Omero è un poeta”. In questo caso, dice Aristotele, la predicazione esistenziale sottointesa è del tutto accidentale[53], poiché quel che si vuole porre in evidenza non è tanto l’essere di Omero, quanto il suo essere-poeta.
L’essere-poeta, di per sé, non implica l’essere nel senso di esistere, mentre, nell’esempio precedente, l’essere-seduto implica necessariamente l’essere nel senso di esistere, poiché soltanto chi esiste può essere seduto, mentre anche chi non esiste più può essere poeta.
Ogni opinione o asserzione predicativa, perciò, è sempre relativa ad enti che esistono al tempo presente o che sono esistiti nel tempo passato[54]. Il predicato, essendo un universale, non fa problema, e nemmeno il soggetto, se è universale a sua volta. Ma se il soggetto è individuale, allora la possibilità di essere vero o falso per un asserto dipendono dalla possibilità di attribuire il predicato al soggetto: negli esempi fatti, “Teeteto è seduto” è falso e non può essere vero perché non è possibile attribuire l’essere seduto a Teeteto che non è; “Omero è un poeta” può essere vero ed è vero perché è possibile attribuire l’essere poeta a Omero, anche se egli non è.
Per quanto riguarda, infine, un soggetto che fosse del tutto inesistente (ad es. un unicorno), si dovrebbe semplicemente dire che esso non è significativo e dunque quella dichiarazione o pensiero che lo contiene in realtà non è una reale dichiarazione o pensiero.


[1] Cfr. ad es. Metaph. E4, 1027b 25-28
[2] Cfr. ad es. Metaph. 1051b 1-5
[3] P. Crivelli, Aristotle on truth, Cambridge University Press, Cambridge 2004, pp. 234-237.
[4] Metaph. Λ7 1072b 20.
[5] Cfr. ad es. EN VI, 2, 1139b 12-13.
[6] Cfr. EN X, 8; Metaph. Λ7.
[7] EE VIII, 3, 1248b 10-11.
[8] EN VI, 7, 1141a 19.
[9] Metaph. Z4, 1030a 10-15.
[10] «Sostanza è quella detta nel senso più proprio e in senso primario e principalmente, la quale né si dice di qualche soggetto né è in qualche soggetto: ad esempio, un certo uomo o un certo cavallo» (Cat. I, 5, 2a 11-13).
[11] Cfr. Cat. I, 5, 2b 6.
[12] G. Movia, Introduzione, in Aristotele, L’anima, Bompiani, Milano 2001, p. 26.
[13] EE II, 1, 1219a 4.
[14] EE, Rizzoli, Milano 2012, p. 365.
[15] M. Zanatta, nota 1 a EN, I, 6, Rizzoli, Milano 1986, p. 407.
[16] Metafisica Θ, 8, 1050a 7-9.
[17] Metafisica Θ, 6, 1048a 32.
[18] Metaph. Θ, 10, 1051b 17-30.
[19] Ad esempio, in M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari 2010 (1989), pp. 159-218.
[20] Cfr. M. Zanatta, Introduzione alla filosofia di Aristotele, Rizzoli, Milano 2010, pp. 293 e ss.
[21] Cfr. P. Crivelli, op. cit., p. 4.
[22] Ibidem.
[23] Cfr. P. Crivelli, op. cit., p. 5, dove lo studioso mette in chiaro anche le differenze che intercorrono tra sostanze corporee e stati di cose.
[24] Metaph. Z3, 1029a 5.
[25] Poet., 9, 1451a 36-37.
[26] Poet. 9, 1451b 7.
[27] Poet., 6, 1450b 9-10.
[28] Poet. 6, 1450a 18.
[29] M. Zanatta, Introduzione a Poetica, in Aristotele, Retorica e poetica, UTET, Torino 2006, p. 469.
[30] Ivi, p. 470.
[31] Ibidem.
[32] Per tutte queste considerazioni cfr. Cat. 4-6, 17a 1-30.
[33] P. Crivelli, op. cit., p. 8.
[34] Cfr. P. Crivelli, op. cit., p. 18, p. 103.
[35] Cfr. Metaph. Θ10, 1051b 17-30.
[36] Mi discosto, in ciò, da quanto affermato in P. Crivelli, op. cit., p. 20.
[37] Ivi, 1051b 35.
[38] De int. 4, 16b 28-30.
[39] Cfr. De int. 11, 21a 20-23.
[40] Non ho considerato il caso in cui l’opinione o asserzione esistenziale sia negativa: in tal caso, è chiaro che sarà sempre falsa.
[41] Per il seguente schema, cfr. P. Crivelli, op. cit., p. 11.
[42] Ivi, p. 9.
[43] Sottointendiamo l’aggettivo “semplice” in quanto è sempre di dichiarazioni semplici che Aristotele tratta, essendo che unicamente da esse dipende il valore di verità del discorso composto, come s’è detto.
[44] Cfr. P. Crivelli, op. cit., pp. 13-16.
[45] De int. 9, 19a 7-20.
[46] Per un’analisi di De interpretazione 9, cfr. P. Crivelli, op. cit., pp. 198-233.
[47] Cfr. P. Crivelli, op. cit., pp. 18-20.
[48] ivi, p. 23.
[49] Per tutte queste considerazioni cfr. ivi, pp. 23-25.
[50] Cfr. La logica del Sofista, 259d – 264b.
[51] P. Crivelli, op. cit., p. 20.
[52] Ivi, p. 21.
[53] Cfr. De int. 11, 21a 23-28.
[54] Cfr. P. Crivelli, op. cit., pp. 158-163.


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