giovedì 22 agosto 2013

La dottrina aristotelica della verità

Di seguito una mia tesina per un esame sul tema della verità in Aristotele.


Introduzione

  
Negli scritti di Aristotele non è rintracciabile una trattazione unitaria e sistematica del tema della verità. Non vi si trova la specificazione dei diversi sensi in cui qualcosa può essere detto «vero» o «falso», se non parzialmente. Tuttavia risulta evidente come il filosofo utilizzi questi termini in accezioni non univoche, generando difficoltà che aprono a diverse interpretazioni. Essendo che Aristotele ha dedicato la sua attività di ricerca filosofica e scientifica a pressoché ogni ambito del sapere, sembra quasi pleonastico notare come il significato dei termini da lui impiegati muti spesso a seconda dell’oggetto trattato, e ciò è particolarmente evidente nel caso della verità e della falsità. Tutto ciò rende assai arduo l’approccio al tema, il quale richiede la capacità di adeguarsi ai differenti livelli dell’espressività filosofica dello Stagirita. Consapevole dell’enorme mole di lavoro che uno studio approfondito del tema richiederebbe, ho cercato nondimeno di affrontarlo nei limiti del seguente lavoro, nella speranza di esser riuscito a dare una lettura dell’argomento che, pur risultando di necessità incompleta, possa quanto meno risultare non del tutto fuori strada.
Occorre innanzitutto precisare che per Aristotele il valore di verità non è soltanto una proprietà delle proposizioni e dei pensieri, ma è anche e soprattutto una determinazione ontologica del reale. Ciò che è vero nel senso più profondo, sono infatti gli enti semplici, ingenerati, incorruttibili ed eterni, cioè Dio, i motori celesti e le essenze. Vero è che quest’ultime non sono entità separate al modo delle idee platoniche, bensì inerenti sempre a singoli individui, tuttavia si può attribuire loro un carattere di eternità, in quanto sono coeterne all’universo e coincidono con i generi e le specie ultimi degli individui che vivono in esso.
Secondariamente, sono ontologicamente veri gli enti composti, i quali sono soggetti a generazione e corruzione; il loro essere non ha dunque il carattere della necessità e così nemmeno la loro verità, che può capovolgersi in falsità.
In terzo luogo vi sono gli enti fittizi, quali sono i personaggi dell’epica, della tragedia e della commedia. Essi si situano al grado del verisimile, che non corrisponde ad una degradazione della verità, bensì alla rappresentazione universale di ciò che attiene alla vita umana e che rientra nell’ambito di quelle cose che avvengono non necessariamente, bensì per lo più, cioè con una regolarità che può favorire un certo grado di astrazione dal particolare, pur senza l’elevazione al concetto.
Infine l’attributo di verità e falsità può essere riferito a proposizioni e pensieri apofantici. A questo livello si pone il corrispettivo logico della verità ontologica, ciò che fa della teoria aristotelica una dottrina corrispondentista. Un’affermazione avrà dunque sempre come condizione di verità il darsi effettivo di una verità ontologica.
Nel presente lavoro ho tentato di sviluppare questi quattro modi di intendere la verità, cercando di indicarne le implicazioni filosofiche all’interno del pensiero aristotelico.



1. LA VERITÀ ONTOLOGICA DEGLI ENTI


Se in Aristotele verità e falsità siano attributi unicamente di enunciati e pensieri, oppure abbiano un valore ontologico, è questione discussa tra i commentatori, a causa del fatto che in alcuni passaggi Aristotele afferma esplicitamente che il valore di verità può essere attribuito soltanto a un’operazione della mente[1], mentre in altri sembra attribuire questa qualità anche alle cose[2]. Seguirò qui l’interpretazione fornita da Paolo Crivelli, il quale, sulla base di un’accurata analisi testuale[3], afferma esistere in Aristotele una dottrina ontologica della verità.
Nei passi in cui Aristotele discute dell’essere e del non-essere nel senso del vero e del falso, egli opera una fondamentale distinzione ontologica, ponendo da una parte 1)  gli enti semplici e dall’altra 2) gli enti composti. Fra i primi, la sua metafisica annovera 1.a) le sostanze incorporee (Dio e i cinquantacinque motori dell’universo) e 1.b) le essenze; fra i secondi, 2.a) gli stati di cose composti da enti in relazione tra loro  e 2.b) le sostanze corporee.
A questo schema dell’ontologia aristotelica possiamo infine aggiungere 3) gli enti fittizi, che sono il risultato dell’imitazione poetica.


Le sostanze incorporee
Se è vero, dunque, che la verità è un attributo dell’essere, allora il senso proprio della verità sarà quello in base al significato dell’essere che è ontologicamente primario, ossia a quello che indica la sostanza immobile e incorruttibile, cioè Dio. Egli infatti è inteso come «intelligenza [che] pensa se stessa, cogliendosi come intelligibile»[4], e l’oggetto dell’attività di ogni intelligenza è la verità[5]. Dio è perciò il Vero essere che si contempla quale suprema Verità. Così anche l’uomo, nell’attività in cui si esplica la virtù dianoetica della sapienza, contemplando Dio quale supremo principio e causa di tutti gli esseri, sarà nella verità e in ciò si farà simile a Dio[6]. Come la vita divina, coincidendo con «la somma bellezza ed il sommo bene», è «vita ottima ed eterna», così l’uomo che, nella limitatezza della sua condizione, si avvicinerà il più possibile ad essa, realizzerà la somma di ogni bene e di ogni bellezza (kalokagathia)[7]. In ciò consiste, secondo Aristotele, il fine della vita umana, che procura all’uomo la felicità perfetta.
Accanto alla perfezione del Motore immobile, l’uomo virtuoso contemplerà anche le altre realtà celesti, il cui movimento perfetto deriva dalla loro tensione verso Dio, inteso quale causa finale verso la quale essi tendono come mossi da desiderio e amore. In tal modo, l’uomo può giungere all’intuizione dei supremi principi di tutte le cose e, in base a questi, avrà pure accesso alla scienza «delle realtà che sono più degne di pregio»[8], che è la conoscenza delle conseguenze vere derivanti dai supremi principi stessi.


Le essenze
Le essenze sono le specie ultime dei generi[9], ciò mediante cui si definisce una sostanza prima[10], e che non sono nulla di esistente senza queste ultime[11]. Esse sono quindi ciò che rende possibile l’unità della specie e che ne caratterizza ogni singolo individuo. Se si escludono gli esseri non viventi, si può dire che l’essenza corrisponde in qualche modo alle facoltà dell’anima: per Aristotele infatti tutti gli individui sono dotati di un’anima, la quale è causa delle caratteristiche proprie dei generi o delle specie ai quali essi possono essere ricondotti. La facoltà nutritiva appartiene all’intero genere dei viventi ed è propria della specie delle piante; la facoltà sensitiva è comune al genere animale e propria della specie di animali non intelligenti; la facoltà intellettiva è invece comune al genere umano e propria soltanto di esso (o quantomeno della specie di uomini sani).
L’essenza è quindi definibile a partire dalle capacità che l’individuo possiede grazie alle facoltà dell’anima. Ora, per Aristotele, «il fine dei viventi non è altro che l’esercizio delle attività a loro peculiari»[12], cioè dell’attività perfetta della parte dell’anima che li caratterizza specificamente. Di conseguenza, il fine dei viventi sarà la realizzazione di ciò che esprime la loro essenza peculiare.
Questa considerazione è di fondamentale importanza, in quanto permette di comprendere come l’attività (sia nel senso di energheia che nel senso di praxis) propria di ciascun vivente sia intrinsecamente unita alla verità ontologica della sua essenza. Ciò ha le sue più vaste conseguenze nell’ambito dell’etica, ed è infatti nelle opere dedicate alla scienza pratica che si trova la formulazione di tale principio. Nell’Etica Eudemia ne rinveniamo la più concisa ed eloquente: «τέλος εκάsτου τò έργον»[13], che Marcello Zanatta traduce come «fine di ciascuna cosa è l’opera»[14]. Il medesimo traduttore precisa che érgon è un termine che Aristotele mutua da Platone per denotare l’opera per il compimento della quale la cosa è fatta. «[L’érgon] dunque - essendo il suo fine – ne definisce anche l’essenza»[15].
Aggiungiamo noi che nella filosofia aristotelica alla nozione di telos è associata anche quella di energheia. Secondo la dottrina aristotelica della potenza e dell’atto, la dynamis è capacità, movimento orientato ad un fine; l’energheia (atto) è la causa finale, il telos verso il quale tende qualsiasi dynamis. Per questo, «secondo la sostanza» esso «è anteriore» rispetto alla potenza: «tutto ciò che diviene procede verso un principio, ossia verso il fine: infatti, lo scopo (telos) costituisce un principio e il divenire ha luogo in funzione del fine. E il fine è l’atto (energheia[16].
Possiamo perciò notare una straordinaria convergenza, su questo punto, di un cospicuo numero di termini che possono essere annoverati fra i più importanti di tutta la filosofia aristotelica: telos, ergon, ousia, energheia (e quindi, implicitamente, anche dynamis).
Volendo tentare di esplicitare più chiaramente questa corrispondenza, possiamo affermare che per Aristotele: 1) il fine (telos) di ogni vivente è compiere l’opera che gli è propria (ergon), cioè quell’opera che è espressione della parte dell’anima che lo caratterizza; 2) il compimento di quest’opera coincide con la realizzazione dell’essenza (ousia) del vivente e quindi con 3) la piena attualizzazione (energheia) delle potenzialità (dynamis) che gli sono proprie per natura. Ogni cosa, infatti, realizza pienamente la propria natura soltanto quando perviene all’attualizzazione, in quanto «l’atto è l’esistere della cosa»[17].
Ora, se è l’essenza ad indicare l’opera propria che è fine del vivente, e se, come abbiamo detto, l’essenza è la verità ontologica della specie, ci si apre da questa prospettiva la possibilità di comprendere il nesso tra verità e prassi, che Aristotele non ha mai esplicitato. Infatti la scelta dei fini moralmente belli delle azioni, che costituiscono i principi dell’agire fungendo da premessa maggiore dei sillogismi pratici, dovrà basarsi sulla conoscenza della verità ontologica della specie umana, ossia sulla conoscenza di quale opera è maggiormente adeguata alla sua natura.
La conoscenza delle essenze, peraltro, è oggetto dell’attività dell’intelletto[18], e quindi attiene all’attività teoretica del sapiente, completando il numero di principi da cui deriva la conoscenza scientifica. La verità oggetto della contemplazione, pertanto, non è qualcosa di completamente separato dalla prassi, come sostenuto da alcuni interpreti[19]: al contrario, quest’ultima trae i suoi principi da quella. Come ha messo in chiaro Marcello Zanatta, tra l’attività teoretica e quella pratica sussiste un fondamentale rapporto, sul quale si salda il sillogismo pratico, in quanto il conoscere i principi (che costituiscono la premessa maggiore nei sillogismi), anche nell’ambito della scienza pratica, è di pertinenza dell’intelletto, e quindi della parte «scientifica» della ragione, mentre lo sviluppo del sillogismo (nella sua premessa minore e quindi nella sua conclusione, che coincide con l’azione), basandosi sul particolare delle circostanze che si presentano di volta in volta, è di pertinenza della saggezza, e quindi della parte «calcolativa» della ragione[20].


Gli stati di cose
Naturalmente Aristotele non usa alcuna espressione equivalente a «stati di cose», e tuttavia questa formulazione, che Paolo Crivelli applica diffusamente nel suo studio sulla teoria aristotelica della verità, può essere calzante per descrivere quella condizione di unione e separazione tra «cose», di cui Aristotele parla per esempio nell’ultimo capitolo del IX libro della Metafisica. Uno stato di cose sarebbe quindi un ente composto, la cui unitarietà è data dalla relazione tra due oggetti componenti. Questi due possono essere entrambi degli universali, oppure uno universale e l’altro un individuo.
La verità ontologica di uno stato di cose è data dalla combinazione tra i due componenti, mentre la sua falsità è data dalla loro divisione[21]. Ad esempio, lo stato di cose che Teeteto è seduto è composto dall’universale seduto e dall’individuo Teeteto, ed è vero se e soltanto se si dà il caso che Teeteto è seduto; lo stato di cose che ogni uomo vola è composto dall’universale vola e dall’universale uomo ed è falso, in quanto non si dà il caso che ogni uomo vola.
Seguendo le indicazioni di Crivelli, Aristotele concepisce soltanto stati di cose “affermativi”: non esiste lo stato di cose che Teeteto non è seduto, ma soltanto quello che Teeteto è seduto, che sarà falso se Teeteto non è seduto. Uno stato di cose, inoltre, può esistere anche se è falso (sempre o in un determinato tempo), poiché la falsità dello stato di cose non pregiudica il principio in base al quale esso è composto[22]. Esisteranno dunque stati di cose sempre veri (ad esempio lo stato di cose che la diagonale di un quadrato è incommensurabile rispetto al lato), altri che sono sempre falsi (ad esempio lo stato di cose che Socrate vola); la maggior parte, infine, possono essere sia veri che falsi, a seconda del momento in cui vengono considerati (ad esempio che Teeteto è seduto).


Le sostanze corporee
Aristotele non parla di verità e falsità in relazione alle sostanze corporee (enti composti di materia e forma), ma è possibile arguire la sua posizione in merito, basandosi sull’analogia che intercorre tra la composizione della materia e della forma, da una parte, e la relazione tra enti all’interno di uno stato di cose, dall’altra. Se per uno stato di cose l’esser vero corrisponde all’effettivo darsi della combinazione tra gli enti, così per una sostanza corporea l’essere corrisponde all’unione tra forma e materia; è perciò probabile che a questa unione corrisponda la verità della sostanza[23].
Tanto la materia quanto la forma sono antecedenti al sinolo, ma soltanto la loro unione, che è data dall’inerire di una determinata forma ad una materia indeterminata, costituisce la sostanza corporea quale essere ontologicamente vero. Tuttavia, essendo la forma causa e principio dell’essere del composto, essa è «maggiormente essere»[24] sia rispetto alla materia che al composto. Anche il carattere di verità ontologica spetterà quindi primariamente alla forma, come del resto è evidente dal fatto che la forma è ingenerata e dunque necessariamente vera, mentre il composto, cioè la sostanza fenomenicamente esistente, è soggetta a generazione e corruzione. Si può dire che la forma, di per sé, rientra ancora fra gli enti semplici: del resto, essa corrisponda all’essenza del sinolo, mentre quest’ultimo è il primo fra gli enti composti, che si situano a un gradino inferiore di verità ontologica, una verità non necessaria in senso assoluto, ma condizionale (quando e solo quando la forma inerisce alla materia il composto è ontologicamente vero, cioè esiste).


Gli enti fittizi
La trattazione aristotelica degli enti fittizi è limitata al suo breve trattato sulla Poetica, ed è in un certo senso laterale rispetto al corpo dottrinario vero e proprio, che viene affrontato più esplicitamente nella Metafisica e negli scritti dell’Organon. Tuttavia questo isolamento è comprensibile, per il fatto che la verità concernente gli enti fittizi della narrazione ha delle caratteristiche del tutto peculiari: essa non riguarda, se non in maniera indiretta, la realtà, ma concerne l’ambito dell’ipotetico, del possibile, del verisimile. Il compito del poeta, infatti, non è dire «le cose che sono avvenute», quanto piuttosto le cose «quali sarebbero potute avvenire»[25]. Alle prime si rivolge propriamente lo storico, il cui ruolo è da Aristotele degradato a mera ricerca empirica di fatti particolari, che proprio in quanto particolari non hanno in sé alcuna possibilità di ripetersi, e perciò sono utili alla conoscenza del passato, ma non alla comprensione di ciò che riguarda il mondo umano in senso universale. La poesia, per contro, astrae da qualsiasi contingenza effettiva, e narra di fatti che non sono unici e irripetibili, ma sono modelli universali di ciò che accade «per lo più». Per questo la poesia «è affare più filosofico e più serio della storia»[26].
Gli enti fittizi sono i «caratteri» espressi dai personaggi della narrazione; essi sono ciò che può essere colto dallo spettatore per mezzo dell’attore e che rende manifesto «di che natura sia» «la scelta deliberata»[27] che è movente dell’azione. In altre parole, l’ente fittizio è un’azione di cui è possibile comprendere la causa. Esso non va confuso con l’individuo singolo presente sulla scena, il quale è soltanto il tramite del carattere universale che esprime. Come scrive Aristotele «la tragedia è imitazione non di uomini», cioè di individui, «ma di fatti e di vita»[28], che, come abbiamo testé detto, avvengono «per lo più».
 Come nota Marcello Zanatta, «la ricorrenza dell’evento» che accade nella maggioranza dei casi, «non comporta che esso si verifichi ogni volta in modo rigorosamente e assolutamente identico, ma ammette in ciascuna [ricorrenza] un certo margine di variabilità e di differenziazione»[29]. Ciò significa che l’ente fittizio esprime i caratteri di somiglianza che accomunano ogni possibile ricorrenza di un evento. Per questo esso è un universale, o  meglio, «funziona “come” un universale»[30]; infatti l’universale esprime un’identità degli enti che cadono sotto di esso, mentre il tipo di universale poetico esprime piuttosto una somiglianza.
Zanatta sottolinea ancora che l’universale poetico funziona «come il genere rispetto alla specie» e quindi attribuisce ad esso «una capacità che è simile alla definizione»[31]. In altre parole, è come se l’universale poetico fornisse la definizione di un determinato carattere, e così esso sarà conoscibile anche a coloro che non perseguono l’indagine filosofica e dunque non potrebbero pervenire per altra via alla conoscenza universale di ciò che è propriamente umano.
Come si è detto, gli enti fittizi sono enti possibili, e tuttavia, a differenza di qualsiasi altro ente possibile, il loro carattere di verità ontologica non è intaccabile: essi sono sempre veri. Il racconto può essere costruito con maggiore o minore arte, ma tuttavia non sarà mai falso, in quanto non si darà mai il caso che ciò che esso esprime possa essere, nella maggioranza dei casi, diverso da come è espresso.

  

2. LA VERITÀ LOGICA DI AFFERMAZIONI E PENSIERI


Circa il valore di verità dei costrutti linguistici (siano essi mentali o espliciti) è più semplice rintracciare evidenze testuali per comprendere la dottrina aristotelica. Tuttavia queste sono, ancora una volta, sparse e non univocamente interpretabili. La ricerca di Paolo Crivelli ha l’indiscutibile merito di fornire una lettura coerente e completa della questione: a questa ci atterremo, per lo più, nel seguito dell’esposizione.
Le proposizioni che sono passibili di essere vere o false sono chiamate da Aristotele «discorsi dichiarativi», che sono l’affermazione («il giudizio che attribuisce qualcosa a qualcosa») e la negazione («il giudizio che separa qualcosa da qualcosa»). La congiunzione di più discorsi dichiarativi forma un discorso composto, il cui valore di verità dipenderà tuttavia dai suoi componenti semplici, che perciò sono i soli ad essere presi in considerazione. Vi sono poi dei discorsi, come la preghiera, che, pur essendo significativi, non sono né veri né falsi[32].
È verosimile supporre che Aristotele ritenesse passibili di verità e falsità anche le opinioni, che sono il corrispettivo mentale delle dichiarazioni[33], sicché si può definire l’opinione affermativa come l’opinione che attribuisce qualcosa a qualcosa, e l’opinione negativa come quella che separa qualcosa da qualcosa.
I termini «unire» e «separare» significano qui rispettivamente «predicare affermativamente» e «predicare negativamente», nel senso che un’opinione o una dichiarazione che predichino affermativamente qualcosa di qualcosa ritengono che, nella realtà, il secondo sia unito al primo; mentre un’opinione o una dichiarazione che predicano negativamente, esprimono la credenza che nella realtà qualcosa sia separato da qualcosa. Ad esempio «Teeteto è seduto» asserisce che nella realtà l’essere-seduto è unito a Teeteto, mentre «Teeteto non è seduto» asserisce che nella realtà l’essere-seduto è separato da Teeteto.
Poiché la predicazione implica l’unione o la separazione di enti, è chiaro che i discorsi dichiarativi potranno riferirsi soltanto agli enti composti. Gli enti semplici sono invece oggetto di un’intuizione conoscitiva, compiuta mediante l’intelletto, che si differenzia in ciò dal logos della ragione. Per quanto concerne gli enti semplici, perciò, saranno possibili soltanto affermazioni esistenziali[34], che colgono l’essere dell’ente: tali affermazioni potranno essere esclusivamente vere, poiché gli enti semplici sono eterni; il contrario della verità, in questo caso, non sarà la falsità, bensì l’ignoranza[35]. L’essere di tali sostanze implica la loro esistenza, giacché esse sono sempre in atto: se così non fosse, esse sarebbero soggette alla generazione e alla corruzione.
La conoscenza intuitiva degli enti semplici è poi inscindibile dalla conoscenza delle loro caratteristiche[36], in quanto una sostanza non composta «esiste in un determinato modo, e, se non esiste in questo modo, non esiste in alcun modo»[37]. L’intuizione del loro essere sarà quindi insieme anche intuizione del loro esser-così.
Un’ulteriore precisazione è qui necessaria: per quanto riguarda i discorsi dichiarativi, il loro oggetto proprio saranno gli stati di cose. Le sostanze corporee sono infatti oggetto di enunciati di carattere esistenziale, anche se differenti da quelli relativi agli enti semplici. Esse sono implicate negli stati di cose e perciò nel discorso riguardante uno stato di cose è sempre implicato un sottointeso enunciato esistenziale riguardante le sostanze corporee. In ogni predicazione è presente infatti una copula (ad es. “Teeteto è seduto”, oppure “Teeteto corre”, che è riconducibile a “Teeteto è corrente”), la quale predica l’esistenza del soggetto, che è appunto una sostanza corporea.
Aristotele, infatti, afferma che un singolo nome, da solo, significa sì qualcosa, «ma non che questo qualcosa è o non è» (ad es. il nome “uomo” significa qualcosa, ma non dice nulla circa l’essere o il non-essere dell’uomo); subito dopo lo Stagirita afferma che, per contro, «vi sarà […] affermazione o negazione, una volta aggiunto un altro termine»[38], e si può intendere che l’affermazione e la negazione non soltanto significano qualcosa, ma implicano anche l’essere o il non-essere del soggetto.
Tuttavia, siccome le sostanze corporee non sono eterne come gli enti semplici, l’opinione o l’asserzione esistenziale implicata nel discorso dichiarativo potrà essere sia vera che falsa. Se essa è falsa, tale sarà anche il discorso affermativo in cui è contenuta[39]. Per esempio, l’affermazione “Teeteto è seduto” implica l’asserzione esistenziale “Teeteto è”; ora, siccome Teeteto è morto in battaglia, “Teeteto è” è falsa e di conseguenza sarà falsa anche l’affermazione “Teeteto è seduto”.
Per riassumere, avremo: 1) opinioni e asserzioni predicative, riguardanti stati di cose, passibili di essere vere o false; 2) opinioni e asserzioni esistenziali, riguardanti sostanze corporee, passibili di essere vere o false; 3) opinioni e asserzioni esistenziali, riguardanti enti semplici, le quali saranno sempre vere oppure saranno semplicemente ignorate[40].

  
Opinioni e asserzioni predicative
Ogni credenza o asserzione predicativa può riguardare un individuo oppure un universale; quelle riguardanti un universale possono essere o indeterminate o quantificate e queste ultime, a loro volta, possono essere particolari ovvero universali[41].
Avremo opinioni e dichiarazioni:
a) singolari (riguardanti un individuo; es. Teeteto è seduto);
b) generali (riguardanti un universale): b1) indeterminate (es. Un uomo è seduto); b2) quantificate: particolari (es. qualche uomo è seduto) oppure universali (es. Tutti gli uomini sono seduti).

La teoria aristotelica della verità delle opinioni e asserzioni predicative dipende da una definizione generale di verità e falsità, che Paolo Crivelli sistematizza nei seguenti termini: «Ogni opinione o asserzione  semplice [sia predicativa, sia esistenziale] si riferisce esattamente ad un ente e può essere affermativa ovvero negativa. Ogni opinione o asserzione affermativa semplice asserisce che l’oggetto cui si riferisce è [ontologicamente] vero. Di conseguenza, ogni opinione o asserzione affermativa semplice è vera quando e solo quando l’ente cui si riferisce è vero; un’opinione o asserzione affermativa semplice è falsa quando e solo quando l’ente cui si riferisce è falso. Ogni opinione o asserzione negativa semplice afferma che l’ente cui si riferisce è [ontologicamente] falso. Di conseguenza, un’opinione o asserzione negativa semplice è vera quando e solo quando l’ente cui si riferisce è falso; un’opinione o affermazione negativa semplice è falsa quando e solo quando l’ente cui si riferisce è vero»[42].
Questa definizione, che vale per tutte le opinioni e asserzioni, sia affermative che negative, sia predicative che esistenziali, applicata al caso delle predicazioni assume la seguente forma: ogni opinione o asserzione predicativa[43] affermativa (negativa) è vera quando e solo quando lo stato di cose cui si riferisce è vero (falso), cioè quando e solo quando gli enti che compongono lo stato di cose sono uniti (separati) al modo voluto dall’opinione o asserzione stessa. Ogni opinione o asserzione predicativa affermativa (negativa) è falsa quando e solo quando lo stato di cose cui si riferisce è falso (vero), cioè quando e solo quando gli enti che compongono lo stato di cose sono separati (uniti) al modo voluto dall’opinione o asserzione stessa.
Per brevità, non entriamo nel dettaglio dell’applicazione della definizione generale alle differenze quantitative della predicazione[44] esposte nello schema precedente.
Notiamo piuttosto come la precisazione «quando e solo quando» sia importante in quanto indica che una stessa opinione o asserzione predicativa (affermativa o negativa) può essere vera all’istante t e falsa all’istante t+x, o viceversa. Ad esempio l’opinione per cui Socrate è seduto è vera all’istante t, in quanto all’istante t si dà il caso che Socrate è seduto, ma è falsa all’istante t+x, in quanto all’istante t+x non si dà il caso che Socrate è seduto, bensì che è in piedi.
Vi sono poi opinioni e asserzioni predicative (affermative o negative) che possono essere sempre vere o sempre false: rispettivamente in quanto lo stato di cose cui si riferiscono è sempre sussistente (ad es. il sole è luminoso) ovvero impossibile (ad es. Socrate vola).
Quanto fin qui detto, ad esser più precisi, è valido soltanto per quelle opinioni e asserzioni predicative il cui verbo è al tempo passato o al tempo presente: esse hanno sempre un valore di verità; non è così per le opinioni e asserzioni riguardanti un tempo futuro, che pongono un rilevante problema alla teoria della verità aristotelica. Il filosofo ne discute nel nono capitolo del De interpretazione: se un’opinione o asserzione riguardante uno stato di cose futuro fosse necessariamente vero (falso) all’istante presente t, allora lo stato di cose dovrà necessariamente darsi (non darsi) all’istante t+x. Se così fosse, tutto ciò che accade sarebbe deterministicamente necessitato ad accadere. Ma si dà il caso che vi siano eventi futuri «che prendono principio dalle deliberazioni e dalle azioni» e perciò «non tutti gli eventi futuri sono o divengono per necessità; si deve dire piuttosto, che alcuni oggetti possono accadere indifferentemente in due modi, caso in cui l’affermazione [pronunciata all’istante t] non risulta affatto più vera della negazione»[45].
L’esempio che Aristotele porta è quello dell’asserzione: domani avrà luogo una battaglia navale. Se quest’asserzione fosse vera, allora sarebbe necessario fin dal momento in cui viene proferita che il giorno seguente ci sia una battaglia navale, la quale risulterebbe perciò già determinata ad avvenire. In realtà, precisa il filosofo, è sì vero che ogni affermazione predicativa ha un valore di verità, ma se essa riguarda il futuro, lo assumerà soltanto nell’istante in cui lo stato di cose da essa asserito si verificherà oppure non si verificherà. In altre parole, e seguendo l’esempio, l’asserzione “all’istante t+x ci sarà una battaglia navale” equivale all’asserzione “in questo momento è in corso una battaglia navale”, che assumerà il suo carattere di verità o falsità soltanto all’istante t+x, e sarà vera se in quell’istante si darà il caso che è in corso una battaglia navale, falsa altrimenti[46].
Le opinioni e asserzioni predicative, quindi, hanno un valore di verità soltanto quando si riferiscono ad un tempo passato o presente, mentre nel caso del futuro esso è momentaneamente indeterminato.


Opinioni e asserzioni esistenziali[47]
Nel caso delle opinioni e delle asserzioni esistenziali concernenti le sostanze corporee, la definizione generale sopra riportata si scandisce nei seguenti termini: un’opinione o asserzione esistenziale affermativa (negativa) è vera quando e solo quando la sostanza corporea cui si riferisce è vera (falsa), ossia quando la sua forma inerisce (non inerisce) alla sua materia, ossia quando essa esiste (non esiste); un’opinione o asserzione esistenziale affermativa (negativa) è falsa quando e solo quando la sostanza corporea cui si riferisce è falsa (vera), ossia quando la sua forma non inerisce (inerisce) alla sua materia, ossia quando essa non esiste (esiste).
Nel caso delle opinioni e delle asserzioni esistenziali concernenti gli enti semplici, la medesima assume il seguente carattere: un’opinione o asserzione esistenziale affermativa (negativa) è vera quando e solo quando l’ente semplice cui si riferisce è vero (falso), ossia quando esso esiste; un’opinione o un’asserzione esistenziale affermativa (negativa) è falsa quando e solo quando l’ente semplice cui si riferisce è falso (vero), ossia quando esso esiste.
Ora, siccome ogni ente semplice è eterno, cioè sempre vero, allora ogni opinione o asserzione esistenziale affermativa concernente un ente semplice è sempre vera, e ogni opinione o asserzione esistenziale negativa concernente un ente semplice è sempre falsa.


Verità come corrispondenza
È chiaro, da quanto detto, che nell’ottica aristotelica la verità logica di un’opinione o di un’asserzione dipende dalla verità ontologica dell’ente cui si riferisce. Emerge perciò come la teoria aristotelica sia di tipo corrispondentista. Essa si specifica nella convinzione che «la verità di un’opinione o asserzione consiste nel suo essere isomorfa rispetto alla realtà»[48].
Una siffatta teoria dapprima procede a una classificazione delle opinioni e asserzioni; dopo di che mette in relazione ciascuna classe con una determinata caratteristica che può appartenere ad uno o più oggetti dell’opinione (asserzione); infine asserisce che un’opinione (asserzione) è vera quando e solo quando tale caratteristica appartiene effettivamente all’oggetto o agli oggetti significati.
Nella fattispecie, la teoria aristotelica distingue soltanto due classi di opinioni/asserzioni: affermazioni e negazioni. Queste due classi sono messe in relazione rispettivamente con la verità e la falsità, che sono caratteristiche che possono appartenere agli oggetti significati. Il risultato di questa relazione è che un’affermazione è vera quando e solo quando la verità appartiene all’oggetto che essa significa; una negazione è vera quando e solo quando la falsità appartiene all’oggetto che essa significa.
Ma la teoria aristotelica è corrispondentista anche in un senso più specifico, in quanto, cioè, ogni affermazione o negazione rispecchia le caratteristiche di verità e falsità della realtà. Infatti, asserendo che l’oggetto è vero, un’affermazione “rispecchia” la verità; e asserendo che l’oggetto è falso, una negazione “rispecchia” la falsità[49].
Se Platone aveva identificato la realtà ontologicamente vera con le Idee separate, attribuendo al mondo degli enti transeunti la caratteristica di «non autenticità», l’ontologia aristotelica attribuisce dignità di vero a tutti gli enti del cosmo, eliminando qualsiasi Idea separata. Così facendo Aristotele dispone le condizioni per la verità logica, senza dover ricorrere ad un rapporto tra problematici enti astratti e all’altrettanto problematico rapporto di «partecipazione»[50].
L’attribuzione di una verità ontologica agli enti, oltre ad assumere un autonomo significato metafisico, svolge infatti tre funzioni al servizio della formulazione della logica. In primo luogo, la verità degli enti permette di spiegare che cosa significa l’essere vero o falso per un pensiero e una proposizione.
In secondo luogo, gli enti sono «portatori di attributi modali»[51] (necessità, impossibilità, possibilità, contingenza), che sono poi trasferiti alle opinioni e asserzioni: ad esempio, un’opinione o asserzione affermativa concernente un ente necessario è a sua volta necessaria, come si è visto nel caso di quelle affermazioni che sono sempre vere o sempre false.
In terzo luogo, gli enti svolgono il ruolo di «indicatori di atteggiamenti proposizionali»[52], cioè sono ciò che è creduto o non creduto, desiderato o ripugnato, ecc. Ad esempio la mia credenza che Teeteto è seduto può essere analizzata come il mio porre in relazione il credere con lo stato di cose che Teeteto è seduto.
Infine, la teoria della verità come corrispondenza porta con sé un’ulteriore conseguenza: se ogni nome o verbo significa qualcosa, questo qualcosa deve essere un che di esistente. Cosa dire allora di frasi che riguardano soggetti non (più) esistenti? Si è detto sopra che ogni predicazione implica un’asserzione esistenziale e si è fatto l’esempio della dichiarazione “Teeteto è seduto”, resa falsa dal fatto che Teeteto non è più in vita. Ma vi sono asserzioni cui si attribuisce un valore di verità, pur riguardando esse un soggetto non più esistente al momento della dichiarazione, ad esempio “Omero è un poeta”. In questo caso, dice Aristotele, la predicazione esistenziale sottointesa è del tutto accidentale[53], poiché quel che si vuole porre in evidenza non è tanto l’essere di Omero, quanto il suo essere-poeta.
L’essere-poeta, di per sé, non implica l’essere nel senso di esistere, mentre, nell’esempio precedente, l’essere-seduto implica necessariamente l’essere nel senso di esistere, poiché soltanto chi esiste può essere seduto, mentre anche chi non esiste più può essere poeta.
Ogni opinione o asserzione predicativa, perciò, è sempre relativa ad enti che esistono al tempo presente o che sono esistiti nel tempo passato[54]. Il predicato, essendo un universale, non fa problema, e nemmeno il soggetto, se è universale a sua volta. Ma se il soggetto è individuale, allora la possibilità di essere vero o falso per un asserto dipendono dalla possibilità di attribuire il predicato al soggetto: negli esempi fatti, “Teeteto è seduto” è falso e non può essere vero perché non è possibile attribuire l’essere seduto a Teeteto che non è; “Omero è un poeta” può essere vero ed è vero perché è possibile attribuire l’essere poeta a Omero, anche se egli non è.
Per quanto riguarda, infine, un soggetto che fosse del tutto inesistente (ad es. un unicorno), si dovrebbe semplicemente dire che esso non è significativo e dunque quella dichiarazione o pensiero che lo contiene in realtà non è una reale dichiarazione o pensiero.


[1] Cfr. ad es. Metaph. E4, 1027b 25-28
[2] Cfr. ad es. Metaph. 1051b 1-5
[3] P. Crivelli, Aristotle on truth, Cambridge University Press, Cambridge 2004, pp. 234-237.
[4] Metaph. Λ7 1072b 20.
[5] Cfr. ad es. EN VI, 2, 1139b 12-13.
[6] Cfr. EN X, 8; Metaph. Λ7.
[7] EE VIII, 3, 1248b 10-11.
[8] EN VI, 7, 1141a 19.
[9] Metaph. Z4, 1030a 10-15.
[10] «Sostanza è quella detta nel senso più proprio e in senso primario e principalmente, la quale né si dice di qualche soggetto né è in qualche soggetto: ad esempio, un certo uomo o un certo cavallo» (Cat. I, 5, 2a 11-13).
[11] Cfr. Cat. I, 5, 2b 6.
[12] G. Movia, Introduzione, in Aristotele, L’anima, Bompiani, Milano 2001, p. 26.
[13] EE II, 1, 1219a 4.
[14] EE, Rizzoli, Milano 2012, p. 365.
[15] M. Zanatta, nota 1 a EN, I, 6, Rizzoli, Milano 1986, p. 407.
[16] Metafisica Θ, 8, 1050a 7-9.
[17] Metafisica Θ, 6, 1048a 32.
[18] Metaph. Θ, 10, 1051b 17-30.
[19] Ad esempio, in M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari 2010 (1989), pp. 159-218.
[20] Cfr. M. Zanatta, Introduzione alla filosofia di Aristotele, Rizzoli, Milano 2010, pp. 293 e ss.
[21] Cfr. P. Crivelli, op. cit., p. 4.
[22] Ibidem.
[23] Cfr. P. Crivelli, op. cit., p. 5, dove lo studioso mette in chiaro anche le differenze che intercorrono tra sostanze corporee e stati di cose.
[24] Metaph. Z3, 1029a 5.
[25] Poet., 9, 1451a 36-37.
[26] Poet. 9, 1451b 7.
[27] Poet., 6, 1450b 9-10.
[28] Poet. 6, 1450a 18.
[29] M. Zanatta, Introduzione a Poetica, in Aristotele, Retorica e poetica, UTET, Torino 2006, p. 469.
[30] Ivi, p. 470.
[31] Ibidem.
[32] Per tutte queste considerazioni cfr. Cat. 4-6, 17a 1-30.
[33] P. Crivelli, op. cit., p. 8.
[34] Cfr. P. Crivelli, op. cit., p. 18, p. 103.
[35] Cfr. Metaph. Θ10, 1051b 17-30.
[36] Mi discosto, in ciò, da quanto affermato in P. Crivelli, op. cit., p. 20.
[37] Ivi, 1051b 35.
[38] De int. 4, 16b 28-30.
[39] Cfr. De int. 11, 21a 20-23.
[40] Non ho considerato il caso in cui l’opinione o asserzione esistenziale sia negativa: in tal caso, è chiaro che sarà sempre falsa.
[41] Per il seguente schema, cfr. P. Crivelli, op. cit., p. 11.
[42] Ivi, p. 9.
[43] Sottointendiamo l’aggettivo “semplice” in quanto è sempre di dichiarazioni semplici che Aristotele tratta, essendo che unicamente da esse dipende il valore di verità del discorso composto, come s’è detto.
[44] Cfr. P. Crivelli, op. cit., pp. 13-16.
[45] De int. 9, 19a 7-20.
[46] Per un’analisi di De interpretazione 9, cfr. P. Crivelli, op. cit., pp. 198-233.
[47] Cfr. P. Crivelli, op. cit., pp. 18-20.
[48] ivi, p. 23.
[49] Per tutte queste considerazioni cfr. ivi, pp. 23-25.
[50] Cfr. La logica del Sofista, 259d – 264b.
[51] P. Crivelli, op. cit., p. 20.
[52] Ivi, p. 21.
[53] Cfr. De int. 11, 21a 23-28.
[54] Cfr. P. Crivelli, op. cit., pp. 158-163.


Ragione, tecnica, dominio. Heidegger, Adorno, Lukács

Di seguito la mia tesina per un esame sul tema della Tecnica.

Introduzione
Là dove la riflessione filosofica del Novecento si è rivolta alla considerazione della realtà sociale dell'uomo contemporaneo si possono notare motivi di convergenza tra pensatori per altro diversissimi: Heidegger, Horkeimer, Adorno e Lukács sono forse tra i più significativi in questa prospettiva. Le loro rispettive esperienze biografiche motivano tangibilmente le loro divergenze: Heidegger visse nella Germania hitleriana e visse sotto il regime del Führer tutte le contraddizioni della sua politica spregiudicata, subendone in diverse occasioni l'ingiusto arbitrio. Pur avendo inizialmente riposto le sue speranze nel nazionalsocialismo, fu infine costretto dall'evidenza dei fatti a riconoscere che la «rottura» da esso compiuta nei confronti del passato non era portatrice di un migliore avvenire.
Horkeimer e Adorno, marxisti di formazione, lasciarono la Germania nello stesso periodo ed emigrarono negli Stati Uniti, dove continuarono le loro ricerche. Fuggendo l'orrore fascista, tuttavia, essi approdarono in un Paese che si avviava ad estendere il suo dominio sui paesi Europei che usciranno stremati dalla guerra. Con la sua politica liberale ma severamente anticomunista, gli Stati Uniti erano il luogo dove il volto nuovo del capitalismo era già pienamente riconoscibile: l'estetizzazione stava ormai prendendo il posto del feticismo delle merci, mutandone la forma ed aggravandone la sostanza. Il capitalismo si avviava così a mostrare il suo carattere totalitario, abilmente nascosto dall'ideologia che proclama tutti uguali e tutti parimenti dotati delle medesime opportunità. Ma l'altra metà del mondo, cioè l'area sovietica, non costituiva per Adorno e Horkeimer il polo verso il quale tendere, bensì un'ennesima forma di dominio brutale dell'uomo sull'uomo, mediato dalla tecnica e servito dalla violenza.
Lukács, infine, visse e in gran parte condivise la politica sovietica, nonostante questa l'avesse in diversi casi osteggiato. Egli si avvicinò gradualmente alla dogmatica filosofica del regime, finendo con l'abbracciare la versione ufficiale del materialismo dialettico marxista-leninista. La sua convinzione politica permise al suo pensiero di rimanere sempre segnato dalla fiducia nel movimento progressivo della storia, in direzione dell'avvento del socialismo.
Nonostante queste differenze, si diceva, fra questi pensatori è possibile rintracciare dei motivi comuni, che illuminano da diverse prospettive la realtà sociale dell'uomo contemporaneo, che ha perso la sua libertà nel dominio del Ge-stell, della falsità universale, della feticizzazione capitalistica, ecc.
Nelle considerazioni che seguono cerchiamo di illustrare brevemente questi tratti comuni e le relative (non-) soluzioni avanzate dagli autori.



Heidegger e il dominio della tecnica
Heidegger rileva che uno dei caratteri peculiari della modernità è la scienza della natura. Essa si caratterizza come un'indagine quantitativa della natura, considerata come oggetto della rappresentazione del soggetto. Il rappresentare ha la forma di un porre-innanzi (vor-stellen) l'ente, che si concretizza nello stabilire a priori un progetto della natura. Questo significa che a partire da categorie fisico-matematiche si stabilisce a priori la modalità in base alla quale la natura dovrà presentarsi, rendersi visibile, allo scienziato. Il rappresentare, quindi, «mira a presentare ogni ente in modo tale che l'uomo calcolatore possa esser sicuro, cioè certo dell'ente»1. La verità è perciò ricondotta all'esattezza, garantita dalla certezza del rappresentare. Questo trova la sua originaria formulazione in Cartesio, la cui metafisica stabilisce quell'interpretazione dell'ente che verrà mantenuta sino a Nietzsche e che per Heidegger avrà come conseguenza e culmine il dominio della tecnica.
Ma perché questa interpretazione sia possibile, è necessario che l'uomo, colui che indaga, si ponga di fronte alla natura come subjectum, cioè come ciò che sta-prima, che costituisce il fondamento dell'essere. Con l'età moderna, l'uomo eleva se stesso (la sua facoltà conoscitiva) a principio fondante dell'essere degli enti e della loro verità. In tal modo il mondo viene ridotto a immagine: «l'ente nel suo insieme è assunto come ciò in cui l'uomo si orienta, e quindi come ciò che egli vuol portare innanzi a sé e avere innanzi a sé; e quindi, in un senso decisivo, come ciò che vuol porre innanzi a sé [vor-stellen], rappresentarsi»2.
L'ente viene considerato, nella sua semplice presenza, come disponibile per l'uomo, per la sua indagine conoscitiva e per l'applicazione di questa nella forma del potere e del dominio sul mondo, secondo l'assunto baconiano per cui il sapere equivale al potere. Con le parole di Heidegger, «l'uomo pone in giuoco la potenza illimitata dei suoi calcoli, della pianificazione e del controllo di tutte le cose»3.
Il dominio dell'uomo sulla natura si attua mediante la tecnica, che non va però confusa come la semplice applicazione dei principi della scienza, come se fosse il medio attraverso il quale la scienza signoreggia il mondo. La tecnica stessa, infatti, è a sua volta una trasformazione della prassi che, anziché presupporlo, richiede l'uso della conoscenza matematica e scientifica. Dipende anch'essa dalla trasformazione del mondo in immagine, ciò che equivale, filosoficamente, alla confusione e quindi alla identificazione di essere ed ente, inteso come ciò che si dà alla rappresentazione nella sua semplice presenza4.
Per comprendere che cosa sia la tecnica occorre domandare circa la sua essenza. Nell'indagarla, si scopre, appunto, l'insufficienza di considerare la tecnica come instrumentum. Si tratta di una risposta inadeguata, antropologica, che si illude di poter sottomettere la tecnica al dominio dell'uomo, risolvendo i problemi da essa posti semplicemente con un impiego migliore delle sue potenzialità. In realtà la tecnica è sfuggita al controllo dell'uomo, che è ormai ad essa soggetto. In maniera simile a ciò che sarà descritta da Horkeimer e Adorno come dialettica dell'illuminismo, il tentativo dell'uomo di dominare la natura mediante la tecnica si capovolge nel dominio della tecnica sull'uomo. Non si può allora ritenere che la tecnica sia un semplice mezzo: occorre domandare più radicalmente.
Secondo il metodo consueto dello Heidegger successivo alla cosiddetta «svolta», il filosofo riscopre i significati inespressi della terminologia originaria greca. Nel campo semantico di τέχνη sono compresi tutti i modi della produzione, sia artigianale che artistica: essa è perciò immediatamente legata alla ποίησις. Quest'ultima è la pro-duzione di qualcosa che per esistere ha bisogno dell'intervento umano, il quale conduce un nascosto all'apparire nella dis-velatezza. La τέχνη è infatti legata, in greco, anche all'επιστήμη, che è il sapere, l'intendersi di qualcosa, che, in quanto tale, è una modalità del dis-velamento, cioè dell'αλήθεια (il non-velato, la verità)5.
Questo è significativo in quanto per Heidegger ogni autentico rapporto dell'esserci con l'ente riguarda il suo carattere di s-velatezza. Nel comprendere l'ente come ciò che è dis-velato, infatti, si dà la possibilità di comprendere la differenza ontologica tra ente ed essere. Soltanto in base a questa comprensione l'uomo può rapportarsi all'ente nella dimensione fondamentale della cura, che è la forma della libertà con cui l'esserci si vincola pro-gettualmente all'essere. «Divenire-liberi significa comprendere l'essere in quanto tale e soltanto questa comprensione fa essere l'ente in quanto ente»6.
Se la tecnica – tanto quella antica quanto quella moderna – è dis-velatezza, significa che nell'adeguata comprensione di essa si dà anche la possibilità di un diverso rapporto con essa. Già da questa chiarificazione sull'essenza della tecnica si comprende perché Heidegger potrà citare, nel seguito del suo saggio su La questione della tecnica, un verso di Hölderlin per il quale «là dove c'è il pericolo, cresce / anche ciò che salva»7.
Ma perché la tecnica è il luogo del pericolo? Un pericolo dinnanzi al quale la salvezza può essere soltanto una speranza e mai una certezza? Per comprenderlo occorre seguire Heidegger nell'ulteriore caratterizzazione dell'essenza della tecnica moderna.
Essa, a differenza della tecnica antica, non appartiene all'ambito della ποίησις. Il dis-velamento che la caratterizza si dà nella forma della pro-vocazione (Herausfordern), nel senso che la natura viene vista come una riserva infinita di risorse a disposizione dell'uomo, le quali vengono sottoposte ad un calcolo utilitario per poter essere sfruttate al massimo con il minimo costo. L'oggetto che viene dis-velato in questa pro-vocazione è inteso meramente come «fondo», come ciò che è «impiegabile». La natura è solo il punto di partenza dell'intero processo di pro-vocazione e impiego, in quanto ciò che fornisce l'energia e le materie prime. Ma lo stesso avviene ai livelli più avanzati, dove le stesse macchine, cioè gli stessi mezzi della tecnica, vengono intesi come «fondo» e quindi non più in base alla reale essenza della tecnica come dis-velamento.
Chi compie questa pro-vocazione mediante la quale il reale si dis-vela come fondo è l'uomo, ma egli lo può fare «solo nella misura in cui... è già, da parte sua, pro-vocato a mettere allo scoperto le energie della natura»8. L'uomo è perciò esso stesso impiegato come «fondo», anche se mai completamente riducibile ad esso, in quanto resta sempre aperta per lui la possibilità della salvezza. Si capisce tuttavia da questa ambigua posizione dell'uomo, che è al contempo il soggetto e l'oggetto della pro-vocazione, che la tecnica non può in nessun modo essere intesa come mezzo per gli scopi umani. L'essenza della tecnica si rivela piuttosto come qualcosa che eccede l'operare umano: è ciò che Heideggerr chiama Ge-stell, im-posizione, inteso come «la riunione di quel ri-chiedere che richiede, cioè pro-voca, l'uomo a disvelare il reale, nel modo dell'impiego, come “fondo”. Im-posizione si chiama il modo di disvelamento che vige nell'essenza della tecnica senza essere esso stesso qualcosa di tecnico»9.
La tecnica moderna si dà perciò come apparato sistemico, anonimo ed impersonale; come una forza oggettiva che sovrasta il potere dell'uomo e che si realizza nel dominio di quel mondo che la scienza moderna ha ridotto ad immagine e del quale fa parte l'uomo stesso.
L'uomo, perciò, si trova «sradicato» dalla terra che voleva dominare: «tutto ciò che resta è una situazione puramente tecnica. Non è più la Terra quella su cui oggi l'uomo vive»10. Laddove l'uomo «è solo più colui che impiega il “fondo” - allora l'uomo cammina sull'orlo del precipizio, cioè là dove egli stesso può essere preso solo più come “fondo”»11.
Ma, come ricorda il verso citato sopra, nello stesso pericolo si radica anche la possibilità della salvezza, che risiede per Heidegger nel rapporto autentico dell'esserci all'essere degli enti. Nel riconoscere l'essenza della tecnica si apre la possibilità per l'uomo di «custodire la disvelatezza e con essa sempre anzitutto l'esser nascosto di ogni essenza su questa terra»12. Questo può avvenire soltanto nell'ambito dell'arte e in particolar modo nella poesia, che ha il compito di mantenere aperta la possibilità del disvelamento essenziale.
Si vede bene, tuttavia, come questa sia l'ultima speranza nella disperazione: dinnanzi alla potenza della tecnica non c'è più nulla da fare, secondo Heidegger; la prassi è completamente impotente e paralizzata. Da ciò consegue coerentemente l'ultimo appello del filosofo, che invita a «preparare nel pensare e nel poetare, una disponibilità all'apparizione del Dio o all'assenza del Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo)», perché «ormai solo un Dio ci può salvare»13.



Adorno e lo scandalo della contraddizione
La tecnica come strumento del dominio si è risolta nel dominio della tecnica; l'uomo come subjectum è divenuto esso stesso oggetto del Ge-stell. Questi termini heideggeriani esprimono ciò che Horkeimer e Adorno hanno definito dialettica dell'illuminismo. L'illuminismo è da essi inteso in senso lato come il movimento dialettico della razionalità che nella sua evoluzione considera ogni sua precedente oggettivazione al pari di un mito, e che al contempo essa stessa si trasforma sempre inconsapevolmente in un ulteriore mito. Non soltanto, ma la ragione che deve servire l'uomo nel suo processo di emancipazione e dominio della realtà, si rivela come ciò che distanzia l'uomo dal suo oggetto, lo aliena e lo sottomette al dominio anonimo della realtà esistente.
Se l'illuminismo in questo senso lato è rintracciabile già nel tessuto narrativo dell'epica classica, ed è dunque caratteristico di tutta la storia dell'Occidente, esso assume una peculiare forma con l'illuminismo propriamente detto o, più in generale, con la modernità.
Horkeimer e Adorno rilevano le medesime caratteristiche esposte da Heidegger: il carattere quantitativo della conoscenza come ciò che viene assunto a modello gnoseologico della modernità, il carattere utilitaristico del sapere-potere nel progetto dell'uomo di assoggettare a sé la natura. Ma al contempo Horkeimer e Adorno vanno più in profondità nell'analisi filosofica delle conseguenze della modernità.
La ragione, anticamente intesa in senso oggettivo, come ordine dell'intero, viene degradata a mezzo soggettivo della conoscenza, che non è più in grado di stabilire fini validi per la prassi umana, né di conoscere ontologicamente e valutare assiologicamente il mondo dell'uomo. La ragione viene piuttosto intesa come ciò che fa corrispondere ad un fine arbitrario il mezzo più adeguato: diviene ragione strumentale, che è il riflesso ideologico dell'accettazione del mondo dato. L'illuminismo, con la sua critica distruttiva, dopo aver eliminato i residui metafisici della Scolastica, si è gradualmente volto contro se stesso, finendo col considerare privi di significato i concetti stessi di “ragione”, “libertà”, “giustizia”, ecc., in base ai quali aveva condotto la sua lotta originaria14.
Formalizzandosi e riducendosi ad «apparato matematico» per la conoscenza del mondo, la ragione finisce con l'esserne il mero rispecchiamento, sicché «ciò che appare come un trionfo della razionalità soggettiva, la sottomissione di tutto ciò che è al formalismo logico, è pagato con la docile sottomissione della ragione a ciò che è dato senz'altro»15. Ogni conoscenza effettiva, che consisterebbe nell'andare oltre il dato, per scoprire la mediazione con la negazione dell'immediatezza, è resa per principio impossibile16. Così come la mitologia era l'espressione simbolica dell'esistente, così anche l'illuminismo finisce per essere mitologico.
In questa critica all'illuminismo, che è molto simile alla hegeliana critica alle categorie astratte dell'intelletto ripresa e sviluppata da Lukács, si deve vedere anche una polemica condotta dai francofortesi nei confronti delle più diffuse tendenze della filosofia contemporanea (che oggi, a distanza di più di sessanta anni dal loro saggio, si sono forse ulteriormente accentuate): il neopositivismo logico, il neokantismo, il pragmatismo americano e la filosofia analitica del linguaggio. Questi modi di intendere la filosofia sono integralmente aderenti all'unica «dimensione» del pensiero (come sostiene anche Marcuse) che costituisce l'ideologia dominante e che, in quanto tale, deve neutralizzare ogni discorso rivoluzionario ed ogni conoscenza concreta per eternizzare il mondo esistente.
In questo modo l'individuo si sottomette al dominio reificante dell'esistente, dal quale non sfugge né chi si trova in posizione privilegiata, né chi è palesemente sfruttato. Horkerimer e Adorno richiamano l'episodio di Odisseo che si fa incatenare all'albero della nave per non essere tentato dal canto ammaliatore delle sirene, mentre ai suoi compagni egli ha tappato le orecchie e impartito il compito di non smettere di remare. Così, nella società odierna, ciascuno è legato al proprio ruolo sociale senza la possibilità di trascenderlo: la classe dei proprietari si tiene a forzata distanza dal godimento anche quando avrebbe la possibilità di approfittarne, mentre i proletari sono costretti a lavorare, inconsapevoli dell'esistenza della liberazione possibile. Citando la dialettica del rapporto tra il servo e il signore della Fenomenologia hegeliana, gli autori affermano così che «lo schiavo resta soggiogato nel corpo e nell'anima, il signore regredisce»17.
Ma il lavoratore della società tardo-capitalista non è soggiogato soltanto dall'apparato della produzione materiale: egli è legato al dominio del sistema anche «al cinema e nel collettivo»18. Il miglioramento del tenore di vita, la riduzione dell'orario di lavoro rispetto ai primi decenni dell'industrializzazione capitalistica, lungi dall'essere mezzi di reale emancipazione del proletariato, non sono altro che subdoli mezzi di manipolazione. Come scriverà più tardi Guy Debord, l'operaio, «improvvisamente ripulito del disprezzo totale chiaramente espressogli da tutte le modalità di organizzazione e di sorveglianza della produzione, si ritrova ogni giorno, al di fuori di questa, sotto il travestimento del consumatore, trattato apparentemente come una persona di riguardo, con una premurosa cortesia. Allora l’umanismo della merce si prende cura del “tempo libero e dell’umanità” del lavoratore»19.
Quest'egemonia del sistema che sussume sotto le sue regole razionali (nel senso weberiano del termine) tutta l'esistenza degli individui massificati, è resa possibile dall'industria culturale. Quest'ultima non è solo l'insieme dei produttori di merci culturali, come film, programmi radio, pubblicità, ma è qualcosa di molto simile al Ge-stell heideggeriano, anche se inteso in senso ancora più pervasivo: esso corrisponde in un certo senso all'intero mondo sociale in cui vive l'uomo, che è divenuto falso20 e all'interno del quale non è più possibile un'esistenza autentica: «non si dà vera vita nella falsa»21. L'industria culturale riduce ogni individualità a elemento intercambiabile della massa, ogni elemento che sembra caratterizzare la particolarità è già programmato e spacciato falsamente come naturale22. Così anche l'idea illuministica di soggetto come fondamento perde di ogni significato.
La standardizzazione non caratterizza soltanto i fruitori delle merci spettacolari, ma i prodotti stessi dell'industria culturale, che nella loro apparente diversità sono tramite semiotico sempre dello stesso messaggio, il quale è volto ad esaltare le condizioni di vita. Esso agisce in base a quella tecnica che Lukács chiama «apologetica indiretta», che non occulta le contraddizioni della società capitalistica, ma afferma l'impossibilità di superarle e ne dà un'interpretazione che funge da sostegno ideologico al sistema stesso23. L'industria culturale, infatti, mostra la riproduzione fedele della realtà, che viene ripetuta all'infinito e di fronte alla quale cade il dubbio che possa esistere un'alternativa. Così facendo, essa è costretta a mostrare anche il dolore, il tragico dell'esistenza, che «assume così l'aspetto del destino»24.
Con l'esperienza estetica quotidiana, l'uomo della massa viene distratto mediante il divertimento (amusement), che, come già sapeva Pascal, non è altro che un pretesto per impedire all'uomo di pensare, di comprendere la propria condizione e le cause che la pongono in essere25. Nell'industria culturale e nella pubblicità, che ne è espressione, «la tecnica diventa psicotecnica, tecnica della manipolazione degli esseri umani»26, che trasforma la libertà individuale, su cui dovrebbe fondarsi la società contemporanea laddove essa si dichiara democratica, in un'illusione: «la libertà del sempre uguale»27.
Nel mondo falso ogni cosa che appare cela il suo contrario, la verità soppressa: compito della teoria critica è individuare quest'ultimo, nella sua relazione dialettica con l'esistente, ma con l'amara consapevolezza che tale dialettica è destinata a fermarsi allo stadio della contraddizione (Dialettica negativa), poiché la realtà è pietrificata dal potere capitalistico ed è ormai troppo difficile individuare una strada che porti al superamento della contraddizione e ad uno stadio di realtà più elevato.
L'industria culturale infatti registra nel suo catalogo la voce che oppone resistenza e la riassorbe entro le sue logiche: il destino dei libri di Horkeimer e Adorno, oggi, è infatti quello di trovare spazio negli scaffali delle grandi catene librarie, che magari lo mettono anche in sconto promuovendolo come il più bel testo di critica sociale. D'altra parte, chi si estraniasse completamente e non accettasse alcun compromesso, sarebbe costretto al silenzio, che è sintomo forse ancora più forte di impotenza28.
L'intellettuale è perciò uguale a ogni altro individuo e la sua resistenza nei confronti dell'esistente resta meramente simbolica. Ciò che lo differenzia dall'uomo medio è soltanto la consapevolezza di vivere lo scandalo della contraddizione secondo la quale «ogni sforzo di sottrarsi reca i tratti di ciò che è negato»29.
Ciò che resta della vita vera non è che apparenza, sospetto, come un che di rimosso, che giace nell'inconscio ed informa di sé alcuni momenti della vita in cui può riaffiorare. L'ultima speranza è perciò data da questi frammenti di realtà, che portano con sé la concretezza dell'utopia, rivelando la possibilità di un mondo più umano30.
Quest'utopia può trovare espressione nell'opera d'arte. Anche questa è intessuta di contraddizioni: da un lato, l'arte seria è ed è sempre state elitaria e borghese, potendo esprimersi in indipendenza proprio grazie a quel sistema che essa negava; dall'altro essa è ridotta a merce dell'industria culturale, resa accessibile a tutti e perciò stesso degradata31.
La perdita dell'«aura» descritta da Benjamin32 è per Adorno la perdita dell'ultimo baluardo di salvezza. Adorno non crede al potenziale emancipativo della diffusione dell'arte. Se per Benjamin la fotografia e soprattutto il cinema possono mostrare la realtà quotidiana in dettagli che nella vita abitudinaria non vengono colti e può perciò far emergere elementi inconsci sui quali le masse sono chiamate ad esprimersi, e può perciò avere una funzione critica fondamentale33, per Adorno il cinema non è altro che la riproduzione ideologica della vita sociale. Benjamin non è estraneo alla critica adorniana e ritiene anch'egli che nel mondo occidentale il cinema sia al servizio del potere capitalistico, ma pone come esempio alternativo il cinema dell'Unione sovietica, dove ciascuno può esprime se stesso e riprodurre il proprio lavoro dinanzi alla macchina da presa34. Adorno rifiuta invece questo principio di possibile democratizzazione dell'arte, in quanto essa richiede specifiche competenze tecniche che la massa non può acquisire.
L'opera d'arte autentica esprime per Adorno un contenuto di verità sotto la forma di un «enigma», di un «crittogramma» da interpretare mediante la riflessione filosofica. L'arte trae la sua origine dalla realtà concreta, di cui è l'immagine trasformata e, in quanto tale, rimanda ad un contenuto che è altro da sé, che essa non può esprimere: la verità dell'arte è l'utopia. È chiaro dunque che per Adorno il contenuto emancipativo dell'arte resta prerogativa del filosofo, dell'intellettuale che si rapporta ad essa e non può essere accessibile alle masse.
L'opera d'arte, sorgendo all'interno di uno specifico contesto storico-sociale, non può trascenderlo: si identifica con esso e solo mediante la negazione, la mediazione dell'interprete, essa giunge oltre se stessa. L'arte è così una «promessa di felicità», che tuttavia «non viene mantenuta»35.
Si vede dunque come per Adorno la possibilità di resistenza al sistema risieda unicamente nella coscienza dell'individuo che coglie il negativo, che vive la contraddizione, senza possibilità di una traduzione di questa consapevolezza in una prassi rovesciante.
Così Horkeimer, che nella sua ultima fase imprime alla teoria critica un indirizzo di resistenza, di contro all'iniziale spirito di rivolta, giunge ad affermare: «Dobbiamo preservare quel che un tempo si chiamava liberalismo, l'autonomia del singolo … ciò che conta per noi è assicurare l'autonomia personale al maggior numero possibile di soggetti, rafforzare una situazione sociale dove il singolo possa dispiegare le proprie forze»36.
La riflessione di questo pensatore culmina così, similmente a quella heideggeriana, in una speranza rivolta al «totalmente altro»: nonostante sia per lui impossibile credere nell'esistenza di un essere sommamente buono, poiché sarebbe contraddetta dalle storture del mondo reale, si appella a un principio trascendente, nei confronti del quale la coscienza sperimenta il sentimento della Sensucht, che possa fondare «la speranza che, nonostante questa ingiustizia, che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l'ingiustizia possa essere l'ultima parola»37.



Lukács e la ragione dialettica
Lukács si è espresso criticamente nei confronti sia di Hiedegger che di Adorno. Egli riconduce la filosofia heideggeriana nell'ambito della storia dell'irrazionalismo tedesco, la cui origine rintraccia nell'intuizione intellettuale di Schelling e la cui conclusione trova nella barbarie nazista. Più precisamente, la filosofia di Heidegger, intesa come filosofia dell'esistenza (il riferimento è soprattutto a Essere e tempo), viene vista da Lukács come una variante della filosofia della vita, che si differenzia da questa pone il soggetto di fronte ad un mondo che, in seguito alla guerra mondiale, «è diventato un cumulo di rovine»38. Il soggetto individuale è l'unico elemento del mondo che ancora «si cerca di salvare da questa generale e incombente rovina»39.
La filosofia heideggeriana, che pone la possibilità più in alto della realtà, cerca secondo Lukács di compiere un salto nel vuoto, di negare la realtà senza poterla superare realmente, e unicamente in vista della salvezza dell'individuo. Con ciò Heidegger capovolge la filosofia hegelo-marxiana di cui Lukács è originale interprete, secondo la quale la possibilità si dà soltanto come concretezza del movimento dialettico del reale, che si tratta di comprendere per fondare una prassi collettiva che possa superare il modo di produzione capitalistico.
Ciò che Lukács critica costantemente in tutti gli autori che compaiono nella sua storia dell'irrazionalismo è soprattutto la mancata comprensione della storia intesa come processo unitario e progressivo. Questa tematica è centrale in tutta l'opera del filosofo marxista, già a partire da Storia e coscienza di classe (1923), testo che sarà poi da lui rinnegato come «idealista», in seguito alla condanna da parte dei gerarchi sovietici.
Lukács vede nella descrizione heideggeriana dell'esistenza inautentica del «Si» (che peraltro ha notevoli somiglianze con alcuni passaggi di Horkeimer e Adorno sull'industria culturale) un «quadro vero e fedele»40 della realtà sociale del dopoguerra e tuttavia rimprovera al filosofo tedesco di non essere stato in grado (per ragioni ideologiche) di mostrare quali fossero le cause «sociali e storiche di quelle esperienze»41. In tal modo, rileva Lukács, il «Si» viene inteso da Heidegger come un male necessario dell'esistenza sociale dell'uomo e conseguenza di questo non può che essere il catalogare la storia reale e universale degli uomini come «storia impropria», in quanto la «storia propria» viene ad essere intesa sulla base soggettivista dell'Esserci, sulla sua esistenza come «nesso della vita fra la nascita e la morte»42.
L'esistenza autentica, che si stacca dell'impersonalità del quotidiano e che conosce la verità dell'essere, non può essere accessibile a tutti, «l'irresolutezza del si impersonale – dice Heidegger – rimane ugualmente al potere». Il soggettivismo heideggeriano si risolve quindi, nella lettura di Lukács, da un lato nell'accettazione dell'esistente, dall'altro in un sostegno filosofico alle tendenze antidemocratiche43.
Ma si è visto come anche la filosofia di Horkeimer e Adorno finisca col porre nell'individuo l'unica possibilità di salvezza. Lukács riconosce in gran parte la correttezza delle analisi di questi autori, ma critica aspramente il loro rifiuto di qualsiasi prassi, che diviene anche nei loro scritti una supina e ideologica accettazione della società capitalistica. Così, nella prefazione ad una riedizione del 1962 della sua Teoria del romanzo, Lukács scriverà che «una parte considerevole della migliore intellighenzia tedesca, fra cui lo stesso Adorno, ha preso alloggio – come scrissi in una mia critica a Schopenhauer – presso il “Grand Hotel dell’Abisso”»44. Questo Hotel, «fornito di ogni comodità», è costruito «sull'orlo dell'abisso, del nulla e dell'assurdità»45. Fuor di metafora, la critica che Lukács aveva volto a Schopenhauer e che ora rivolge ad Adorno è di aver perfettamente compresso l'assurdità del mondo capitalistico, ma di mantenersi da essa a debita distanza, come uno spettatore che guarda di lontano un triste spettacolo, con la certezza di essere al sicuro e di poter godere di «ogni comodità»46. In tal modo anche la filosofia critica si trasforma in una «apologetica indiretta» del sistema capitalistico.
Questa accusa coglie sicuramente un elemento di verità, ma del resto Adorno stesso, come si è visto, era pienamente consapevole di questa contraddizione. Ciò che Lukács non può tollerare, tuttavia, è proprio la dialettica negativa, l'«irretimento» (il termine è adorniano47) nella contraddizione e la perdita di ogni speranza. Lukács considera questo un atteggiamento di disperazione irrazionalistica che, privandosi della possibilità di comprensione e azione (stante il nesso strettissimo tra teoria e prassi istituito da Lukács già nella sua opera del 1923), non fa che favorire l'avversario, con il rischio concreto di permettere il sopravanzare del fascismo sulle masse impotenti.
Con Heidegger, Horkeimer e Adorno, Lukács condivide invece la critica alla ragione soggettivo-strumentale, trattando il problema in termine molto simili48. Ma aggiunge a questa critica, come si è accennato, una disamina attenta e dettagliata dell'irrazionalismo inteso come distruzione filosofica della ragione. In questa forma di degradazione della coscienza egli rintraccia una delle principali forme di «filosofia reazionaria» che, se con Schelling è ancora rivolta al passato pre-borghese, con Schopenhauer diviene ideologia propria della borghesia decadente, fino a fondare filosoficamente l'aggressione imperialistica del capitale e infine il dominio irrazionale del fascismo hitleriano.
Fedele all'assunto marxiano per cui la coscienza è determinata dall'essere sociale Lukács ritiene che prendere parte a favore o contro le possibilità conoscitive dell'intero da parte della ragione significhi al contempo prendere parte a favore o contro il progresso sociale. Ora, essendo il metodo dialettico prima hegeliano e poi – materialisticamente corretto – marxiano e marxista quella forma di filosofia propensa a rintracciare nella storia un movimento progressivo, ogni filosofia borghese reazionaria non può che nascere «in continua lotta» con la dialettica49, sia questo un processo genetico consapevole oppure no.
Caratteristiche fondamentali del pensiero reazionario sono quindi «la svalutazione dell'intelletto e della ragione, l'esaltazione acritica dell'intuizione, l'aristocratica gnoseologia, il ripudio del progresso storico-sociale, la creazione di miti ecc.»50.
Non avrebbe senso qui dilungarsi nell'esporre la critica lukacciana a ogni singolo pensatore (filosofo o sociologo) che egli prende in considerazione ne La distruzione della ragione. Ciò che qui importa è constatare come Lukács abbia avuto il merito di fornire un'accurata critica di una tendenza filosofica che solo apparentemente è opposta al razionalismo illuministico, mentre ne è in realtà il semplice risvolto. Più precisamente, la filosofia razionalistica di stampo kantiano è intesa nella sua origine come espressione del pensiero della borghesia quale classe rivoluzionaria. Le categorie filosofiche che compaiono nel periodo della sua ascesa sono al servizio della liquidazione di ogni residuo feudale della società, come del resto aveva già notato Marx.
L'irrazionalismo è l'espressione ideologica della medesima classe sociale, ma nel suo periodo di decadenza, ossia nella fase della sua esistenza in cui si inasprisce la lotta di classe in seguito all'acuirsi delle contraddizioni tra lo sviluppo delle forze produttive e la staticità dei rapporti di produzione, alle crescenti vittorie del proletariato (la Comune di Parigi, la Rivoluzione d'Ottobre), ai problemi legati alla necessità di espandere i propri mercati a causa della sovrapproduzione, ecc.
La filosofia razionalistica borghese, del resto, contiene già in nuce un elemento irrazionalistico che diverrà predominante, in quanto fin dall'inizio (con Kant) essa riconduce la conoscenza alle categorie del soggetto, che suddividono il reale in regioni ontologicamente autonome, che vengono contrapposte al soggetto e sottomesse ad un'indagine quantitativa come unica conoscenza possibile. In tal modo la filosofia escludeva dal proprio campo la conoscenza dell'intero storico-sociale, che Lukács vede affermata soltanto in Hegel (ultimo pensatore della fase ascendente della borghesia) e infine in Marx, che supera e risolve i limiti idealistico-borghesi propri ancora di Hegel stesso.
Nei suoi saggi giovanili, poi rinnegati, raccolti sotto il titolo di Storia e coscienza di classe, Lukács prospetta un genere di conoscenza razionale e dialettico che si opponga efficacemente tanto al razionalismo formale quanto all'irrazionalismo.
In base ad un'interpretazione fortemente hegeliana del pensiero di Marx Lukács individua nel proletariato la classe che, a causa delle condizioni oggettive della sua esistenza, può pervenire ad una sorta di «sapere assoluto». La coscienza di classe del proletariato corrisponderebbe infatti all'autocoscienza dello spirito hegeliano, che coglie se stesso nell'unità di soggetto e oggetto. Quest'ultima significa qui che il proletariato è in grado di accedere alla conoscenza della realtà al di là di ogni barriera ideologica, in quanto esso non ha nessun interesse particolare da difendere e perciò la sua coscienza non diviene «falsa», ossia ideologica, bensì esprime una conoscenza razionale e oggettiva che porta con sé l'universale verità del divenire storico.
Lukács descrive il mondo contemporaneo a partire dalla categoria della merce, sviluppando gli argomenti ad essa relativi del Capitale marxiano e finendo col fornire un'analisi dell'alienazione dell'operaio nel processo produttivo che coincide in larga misura con quella dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 che non erano ancora stati ritrovati e che quindi Lukács non conosceva.
La società capitalistica appare affetta dal fenomeno della «reificazione», ossia dalla mercificazione di tutti i rapporti sociali. L'organizzazione sistemica, che è determinata da precisi rapporti tra persone e classi, viene occultata da «veli cosali» e sembra così essere un rapporto del tutto naturale tra cose, che nascondono la loro genesi reale, ossia il lavoro che sta alla base della loro produzione. Il prodotto dell'attività lavorativa dell'operaio si erge così di fronte ad esso come una forza estranea, impersonale e autonoma, regolata da proprie leggi che l'ideologia esprime nell'economia politica occultandone anche in questa forma la genesi oggettiva.
In questo sistema, le cui caratteristiche spersonalizzanti ricordano tanto il Ge-stell quanto l'industria culturale, l'operaio trova se stesso «come uno strumento accessorio meccanizzato e razionalizzato» di un «processo parziale» del sistema di produzione, quindi si riconosce come merce intercambiabile e perde l'«illusione» di essere un autonomo «soggetto della propria vita»51. Citando Max Weber e il suo studio sull'«ascesi intramondana» quale cifra dello spirito originario del capitalismo, egli riconosce come questa alienazione sia propria anche del capitalista (come abbiamo visto anche nella figura di Odisseo ripresa da Horkeimer e Adorno). Ma per il capitalista, che trae profitto dalla sua condizione di classe, questa condizione appare come «un attivo dispiegarsi del suo soggetto»52. Il proletario riconosce invece la sua condizione di brutale asservimento53, che trova la sua espressione manifesta nel problema del tempo di lavoro, dove appare evidente che l'operaio non è altro che la sua stessa forza-lavoro considerata come merce.
In questa scissione la coscienza del proletario, che sa di essere soggetto ma al contempo si riconosce unicamente come oggetto, può giungere a comprendere la realtà del mondo in cui si trova. Scoprendosi nella sua immediatezza come merce, il proletario può comprendere come questa immediatezza non sia altro che «conseguenza di molteplici mediazioni». Così, «nella merce, l'operaio riconosce se stesso ed i suoi rapporti con il capitale. (…) la sua autocoscienza è l'autocoscienza della merce; o, in altri termini: l'autocoscienza, l'autodisvelamento della società capitalistica fondata sulla produzione e sullo scambio di merci»54.
La coscienza così risvegliata arriva quindi alla comprensione di ciò che si cela dietro l'apparente legalità di questi rapporti: una contingente organizzazione del sistema produttivo. Il mutamento di questa condizione, naturalmente, non può essere puramente teorico, ma implica di necessità un rovesciamento di questi rapporti e l'instaurazione di una società senza classi. Su questo si fonda il nesso tra teoria e prassi: l'autocoscienza del proletariato si trasforma necessariamente in azione rivoluzionaria.
La società reificata viene riportata alla sua genesi oggettiva, che è costituita dal modo di produzione capitalistico e dai rapporti di produzione che vedono una contrapposizione tra proprietari e lavoratori. In questo contesto, la coscienza proletaria diviene conoscenza della contraddizione reale del processo storico ed in essa viene individuato anche l'unico passo che può essere compiuto in direzione di un superamento della stessa: la rivoluzione.
Insistendo sul carattere di coscienza del proletariato, Lukács rompe qui con la dogmatica di stampo positivistico che ha investito buona parte del marxismo successivo a Marx, secondo la quale il progresso storico verso il comunismo era una necessità che sarebbe giunta a compimento a prescindere dalla volontà dei singoli o delle classi. Per Lukács, invece, «una necessità dialettica non è affatto identica ad una necessità meccanico-causale»55 (si capisce quindi perché in quest'opera il filosofo rifiuta di applicare il medesimo metodo dialettico sia alla storia che alla natura). Affinché si compia il superamento della contraddizione è indispensabile «l'attività cosciente degli uomini»56.
Tale coscienza, tuttavia, può essere soltanto «coscienza di classe», non soltanto perché la prassi può avere efficacia solo se collettivamente organizzata, ma anche e soprattutto perché tale coscienza, per essere autentica, deve giungere a comprensione del fatto che la situazione del singolo proletario coincide con quella di tutti i proletari ed è determinata ad essere tale da cause storico-sociali ben precise, che come forniscono un'univoca spiegazione genetica della reificazione capitalistica, così anche indicano un'univoca strada per l'azione rivoluzionaria.
La storia non procede autonomamente, ma ad ogni stadio pone le condizioni oggettive per la possibilità dell'oltrepassamento, il quale può essere compiuto solo con l'azione cosciente degli uomini. Così le contraddizioni della società capitalistica, insieme con lo sviluppo delle forze produttive, generano la possibilità oggettiva della realizzazione del socialismo, che tuttavia non verrà se la coscienza di classe del proletariato sarà impedita a formarsi dalla forza dell'ideologia antagonista, o da altre contingenze storiche imprevedibili.

L'alternativa che ci si deve porre oggi credo sia tra il riconoscere con Heidegger che «la filosofia è alla fine»57 e rassegnarsi con essa alla fine (capitalistica) della storia, oppure tentare la ricostruzione di un'utopia concreta, a partire dalla convinzione ancor valida di Lukács seconda la quale
soltanto se l'uomo è in grado di afferrare il presente, in quanto riconosce in esso quelle tendenze dal cui contrasto dialettico egli è capace di creare il futuro, il presente, il presente come divenire diventa il suo presente. Solo chi ha la vocazione e la volontà di approssimare il futuro, può vedere la verità concreta del presente58.


1M. Heidegger, L'epoca dell'immagine del mondo, in Id., Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 19993, pp. 83-84.
2Ivi, p. 87.
3Ivi, p. 99.
4Cfr. Ivi, p. 72.
5Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 9-10.
6Id., L'essenza della verità, a cura di F. Volpi, Adelphi 1997, p. 86.
7Id., La questione della tecnica cit., p. 22.
8Ivi, p. 13.
9Ivi, p. 15.
10Id., Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo Spiegel, a cura di A. Marini, Ugo Guanda, Parma 1987, p. 134.
11Id., La questione della tecnica cit., pp. 20-21.
12Ivi, p. 24.
13Id., Ormai solo un Dio ci può salvare cit., p. 136.
14Cfr. M. Horkeimer, Sul concetto di ragione, in E. Donaggio (a cura di), La scuola di Francoforte. La storia e i testi, Einaudi, Torino 2005, pp. 195 e ss.
15M. Horkeimer, T. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, tr. it di R. Solmi, Einaudi, Torino 20105, p. 34.
16Ibidem.
17Ivi, p. 43.
18Ivi, p. 44.
19G. Debord, La società dello spettacolo, tesi 43, http://www.marxists.org/italiano/sezione/filosofia/debord/societa-spettacolo.htm#6 (url visitato in data 01/07/'13)
20 «Il tutto è il falso» secondo T. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, tr. it. R. Solmi, Einaudi, Torino 2005, p. 48.
21Ivi, p. 35.
22M. Horkeimer, T. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo cit., p. 166.
23Cfr. G. Lukács, La distruzione della ragione, tr. it. E. Arnaud, Einaudi, Torino 19743, p. 206.
24M. Horkeimer, T. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo cit., p. 163.
25Ivi, p. 154.
26Ivi, p. 177.
27Ivi, p. 181.
28Cfr. Ivi, pp. 139-141.
29T. W. Adorno, Minima moralia cit., p. 18.
30Cfr. Ivi, pp. 58-61; ma questo è un motivo che percorre tutto il libro.
31M. Horkeimer, T. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo cit., p. 143, 173.
32W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, tr. it. E. Filippini, Einaudi, Torino 20003, p. 23.
33Cfr. Ivi, pp. 40-42.
34Ivi, p. 36.
35T. W. Adorno, Teoria estetica, a cura di F. Desideri e G. Matteucci, Einaudi, Torino 2009, p. 182. Per quanto detto sopra, cfr. anche le pp. 45, 172-182.
36M. Horkeimer, La teoria critica ieri e oggi, in E. Donaggio (a cura di), La Scuola di Francoforte cit., p. 381.
37M. Horkeimer, La nostalgia del totalmente altro, Queriniana, Brescia 20015, pp. 74-75.
38G. Lukács, La distruzione della ragione cit., p. 496.
39Ivi, p. 499-500.
40Ivi, p. 507.
41Ibidem.
42Ivi, pp. 518 e ss.
43Ivi, p. 515, 509.
44Il testo di questa prefazione è disponibile all'indirizzo http://gyorgyLukács.wordpress.com/i-testi/teoria-del-romanzo/premessa-1962/ (url visitato in data 02/07/2013)
45G. Lukács, La distruzione della ragione cit., p. 248.
46La tematica del rapporto tra il filosofo e la realtà nella metafora dello spettatore è stata illustrata in senso storico in H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, Il Mulino, Milano 2001.
47T. W. Adorno, Minima moralia cit., pp. 18-19.
48Cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, tr. it. G. Piena, SugarCo, Milano 1991, pp. 1-34, 59-106, 144-196.
49G. Lukács, La distruzione della ragione cit., p. 6
50Ivi, p. 10.
51G. Lukács, Storia e coscienza di classe cit., pp. 218-219.
52Ivi, p. 219.
53Ibidem.
54Ivi, p. 222.
55Ivi, p. 234.
56Ivi, p. 235
57M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare cit., p. 137.
58G. Lukács, Storia e coscienza di classe cit., p. 269.