lunedì 9 maggio 2011

Lukacs sull'ideologia della storia

Riporto un passo dal saggio Coscienza di classe di Lukacs (in Storia e coscienza di classe), in cui egli critica la falsa coscienza, l’ideologia della storia. Mi pare molto interessante perché è qui contenuta una critica di ciò che a posteriori possiamo definire un atteggiamento postmoderno nei confronti, appunto, della storia, che in queste righe viene ricondotto all’ideologia borghese, che, per assicurare la sopravvivenza della classe, deve necessariamente operare una rimozione circa il senso della storia, il suo telos, che io non considero da ripristinare nel senso propriamente metanarattivo di una filosofia della storia onnicomprensiva e onniesplicativa, ma ritengo che occorra ridare vita al materialismo storico, inteso come studio della storia e delle sovrastrutture sociali (in senso molto ampio) a partire dalle basi materiali, reali, strutturali, cioè economiche, nella convinzione che sempre la struttura determina la sovrastruttura e che ignorare questo processo significa espropriare il pensiero da ogni potenzialità emancipativa, privare ogni cosa del suo fondamento, implicitamente portando all’accettazione dello stato presente di cose, annullando ogni tentativo non solo di cambiamento, ma anche di semplice comprensione e critica.

«Al pensiero borghese la storia stessa si presenta come un compito che esso tuttavia non è in grado di svolgere. Infatti esso deve sopprimere interamente il processo storico ed intendere le forme organizzative del presente come leggi naturali eterne, le quali – per motivi “enigmatici”, ed in modo incompatibile con gli stessi principi della scienza razionale che cerca le leggi – si sono imposte solo imperfettamente o non si sono imposte affatto nel passato (sociologia borghese). Oppure esso deve espungere dal processo storico tutto ciò che ha un senso, che tende ad un fine; ci si deve attenere alla semplice “individualità” delle epoche storiche ed ai loro agenti sociali e umani; la scienza della storia deve insistere sul fatto che ogni epoca storica è “ugualmente vicina a dio”, cioè, ha raggiunto lo stesso grado di perfezione, e che quindi – ancora una volta – non c’è sviluppo storico, per motivi opposti. Nel primo caso va perduta qualsiasi possibilità di concepire il sorgere delle formazioni sociali (ciò vale anche per il “pessimismo” che eternizza proprio come l’ “ottimismo”, lo stato presente, rappresentandolo come limite invalicabile dello sviluppo umano. Da questo punto di vista Hegel e Schopenhauer si trovano sullo stesso piano). Gli oggetti della storia appaiono come oggetti di leggi naturali immodificabili ed eterne. La storia si irrigidisce in un formalismo che è incapace di comprendere le formazioni storico-sociali nel loro senso come rapporti tra uomini; esse anzi vengono sospinte ad un’incolmabile distanza da questa genuina fonte dell’intelligibilità della storia. “Non si comprende – dice Marx – che questi rapporti sociali determinati sono prodotti degli uomini esattamente come la tela, il lino, ecc.”. Nel secondo caso, la storia si trasforma – in ultima analisi – nell’operare irrazionale di forza cieche che si incarna al massimo nello “spirito del popolo” o nei “grandi uomini”, un operare che può essere perciò descritto solo pragmaticamente, ma non compreso nella sua razionalità. Lo si potrà soltanto organizzare esteticamente come una sorta di opera d’arte. Oppure, come accade nella filosofia della storia dei kantiani, lo si intenderà come un materiale in se stesso privo di senso, nel quale si realizzano dei principi etici atemporali e sovrastorici». (Storia e coscienza di classe, Tasco, pp. 62-63)

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