lunedì 21 marzo 2011

Le piccole cose

Oggi è la giornata mondiale della poesia... Pubblico qui un testo di Alberto Bevilacqua


le piccole cose

-come il primo giorno di primavera
sfuggito
alla disattenta prima pianta fiorita
...succede nelle piccole cose
che il mondo si svaghi attonito di sé
o di sé smemorato per un attimo

allora è quel me
nel mio né ora né mai
- un fondo di riso o di piangere
rimasto nel cuore,
d'altri: chissà di quale
persa felicità o disgrazia

L'unità d'Italia

Editoriale del numero odierno di Liberazione
di Alberto Burgio

Non capita spesso che gli avvenimenti si incastrino tra loro in modo così perfetto. Non si era ancora spenta l'eco delle celebrazioni del 150° dell'unità nazionale (e delle relative polemiche) che già le agenzie battevano il testo della risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che impone il blocco aereo alle forze fedeli a Gheddafi. Eventi diversi, certo, e distanti tra loro. Ma anche legati da fili invisibili e ricchi di senso. Non diremo che i drammatici sviluppi della crisi libica, destinati a coinvolgere pesantemente il nostro Paese, contengono l'interpretazione autentica dei festeggiamenti dell'unificazione italiana. Di certo però offrono un'interessante chiave di lettura.
Cerchiamo di mettere ordine in una matassa di problemi complicati. Come vediamo la questione dell'unità nazionale? Non c'è dubbio: patria, nazione e identità sono concetti controversi, che negli ultimi centocinquant'anni hanno conosciuto declinazioni prevalentemente regressive. Da ciò discende forse che hanno ragione quanti istituiscono un'equazione immediata tra nazionalità e nazionalismo? È condivisibile la posizione di chi considera l'idea di nazione patrimonio esclusivo della destra, ritenendola estranea ai processi di autorappresentazione senza i quali difficilmente una comunità civile potrebbe costituirsi e conservarsi nel tempo?
Non lo crediamo - e del resto non è privo di significato il fatto che simili giudizi liquidatori siano condivisi anche da una parte della destra, non la meno retriva e minacciosa. È vero, da un secolo e mezzo (a valle dell'unificazione italiana e tedesca) ha prevalso la dimensione aggressiva e guerresca del nazionalismo, che ha trionfato nelle due guerre mondiali. A ragione questo periodo storico è definito «età degli imperialismi». Gli Stati capitalistici hanno nazionalizzato le masse (spesso su base plebiscitaria e razzista) per competere tra loro nelle guerre coloniali e per contendersi materie prime e mercati. L'Italia - con buona pace di una tenace vulgata autoassolutoria - non è stata, in questa corsa alle armi, da meno delle altre nazioni occidentali. Anzi, proprio perché giunta in ritardo all'unificazione, vi ha preso parte con maggiore aggressività. Derivarono da qui il connotato marcatamente autoritario dello Stato liberale, la ricorrente propensione alle avventure coloniali e finalmente la barbarie fascista, coi corollari di un brutale colonialismo «imperiale» e del razzismo di Stato contro «negri» e «giudei».
A questi turpi risvolti dell'unificazione nazionale nelle celebrazioni di questi giorni non si è fatto cenno, e questa è stata un grave lacuna, che toglie credibilità al rifiuto preventivo della retorica patriottarda. Si fa retorica anche attraverso le omissioni, pur se ci si astiene da formule roboanti.
Ma avanzare tale critica non deve spingerci all'eccesso opposto. Il rigetto del nazionalismo non comporta la negazione del proprio vissuto individuale e collettivo, né l'indifferenza nei suoi confronti. Crediamo possibile assumere una posizione corretta nella relazione con la vicenda storica della comunità civile di cui si è parte: una posizione di riconoscimento memore e critico, in virtù del quale il sentimento dell'appartenenza - fondamentale nella costruzione della soggettività - si definisce senza assumere toni aggressivi ed escludenti. Nulla impedisce di collocarsi in modo responsabile nella storia collettiva del proprio Paese, senza che a ciò si accompagnino presunzione di superiorità e pratiche di esclusione. C'è un esempio altissimo a questo proposito: quello dei condannati a morte della Resistenza italiana ed europea, che nell'estremo saluto ai propri cari si definiscono «patrioti» e che nella liberazione della «patria» dalla tirannide nazifascista pongono il fine ultimo del proprio sacrificio.
Ma proprio perché non condividiamo la sommaria liquidazione del tema nazionale non ci allineiamo al coro delle celebrazioni di questi giorni. Di riferimenti all'unità d'Italia trabocca da sempre anche la retorica fascista, quindi occorre distinguere, chiarire, scegliere. L'unità d'Italia non è stata un evento puntuale, concentrato in un anno né nel solo Risorgimento. Fu - ed è - un lungo processo. Complicato, travagliato, contraddittorio. Sul quale in questi giorni si è sorvolato, ignorando che un Savoia fu anche quel Vittorio Emanuele III che consegnò l'Italia a Mussolini e sottoscrisse le infami leggi del '38; che l'Italia è anche quel Mezzogiorno prima annesso, poi abbandonato alle mafie e sistematicamente discriminato; e che Italia sono anche le minoranze francofone, germanofone e slave, nazionalizzate con una violenza che oggi ritorna contro i migranti, nuovi italiani misconosciuti.
Perché questo imbarazzato silenzio? Perché rifugiarsi nel mito e nell'oleografia? C'è, secondo noi, una sola possibile risposta: la persistente fragilità dell'unità italiana. La quale - si badi - non è debole soltanto perché esplicitamente avversata dai fautori della secessione e tacitamente minata dai mille egoismi e particolarismi di sempre. C'è una ragione se possibile ancora più grave e seria, che ci riporta alla Libia e ai drammatici sviluppi di queste ore. L'unità italiana è debole perché debole è il suo principale fondamento, quella Costituzione repubblicana che del Risorgimento costituisce il frutto più alto e progressivo. Fuor di retorica, per taluni la Costituzione è un simulacro, per altri soltanto un ingombro. Pensiamo allo scempio della scuola e dell'università pubblica, o al quotidiano insulto al principio di uguaglianza tra uomini e donne e nei confronti dei migranti. Pensiamo alla guerra contro i diritti del lavoro, posto a fondamento della Repubblica democratica. E pensiamo infine proprio alla guerra guerreggiata, che i Costituenti vollero bandire dalla storia italiana. L'articolo 11 è stato calpestato in questi vent'anni di guerre «democratiche» e «umanitarie», e ora la guerra sembra battere nuovamente alle porte. Per ciò quanto accade in queste ore in Africa somiglia molto a un ironico e tragico gioco del destino. Intoniamo pure l'inno di Mameli, inchiniamoci commossi dinanzi al tricolore repubblicano e raccontiamoci storie toccanti di patrioti e di eroi. Ma la realtà è dura e non accetta finzioni né menzogne.

mercoledì 9 marzo 2011

Etichette


Ho dato una risistemata alle etichette dei post.
Musica contiene ovviamente post in cui si tratta di musica. In alcuni casi si tratta di cose scritte da me, per lo più di cose copiaincollate e una discreta dose di video da youtube.
Letteratura contiene prosa e poesia non mia, più alcuni saggi o articoli sulla letteratura, soltanto in minima parte miei.
Politica contiene i post di argomento politico fra cui diversi sono miei.
Altro è un'etichetta piuttosto vaga, contiene un pò di tutto, ma spesso è abbinata a un'altra etichetta.
Mi_presento contiene post scritti da me, su vari argomenti, ma non sono tutti i post miei: alcuni stanno sotto altre etichette, come politica.
Filosofia contiene brani da opere filosofiche o riflessioni mie su argomenti di filosofia.
Le altre etichette sono piuttosto eloquenti e sono applicate a pochi post.

Postmodernismo e metafisica


Il postmodernismo rifiuta ogni universalismo e con ciò, necessariamente, l’idea di una essenza umana. Da questa prospettiva, allora, l’idea che in una società più o meno ideale l’uomo possa realizzare la propria essenza, è da ritenere conseguenza di una impostazione metafisica e, come tale, da respingere.
Inoltre risulta impossibile definire le condizioni di felicità per l’uomo, poiché, se non esiste nulla di universalmente valido, queste condizioni possono variare anche fra un individuo e un altro. Si torna, ancora una volta, al relativismo. Partendo da questo presupposto, però, si può affermare che anche uno schiavo sfruttato può essere felice, anche un carcerato, una persona privata della propria libertà, uno sfollato ecc. Risulta però chiaramente difficile sostenere questa ipotesi. E, del resto, se si ammette che uno schiavo sfruttato può essere felice, si porrà la questione del come lo possa essere, così da dover presupporre, di contro al principio anti-universalistico, delle condizioni in cui anche uno schiavo, in quanto uomo, può essere felice. E’ veramente arduo fare a meno di una certa metafisica.
La critica postmodernista, tuttavia, utilmente pone la questione portando a riconsiderare con più attenzione il problema di un’eventuale essenza umana, certo di ardua definizione…

venerdì 4 marzo 2011

Relativismo e valori


Chi ritiene la tolleranza un valore, può tollerare l’intollerante? Se sì, allora ritiene che l’intolleranza possa essere un valore tanto quanto la tolleranza; se no, allora è intollerante.
Un democratico può accettare la libertà di espressione dell’antidemocratico (per esempio, del fascista)? Se sì, ritiene che la sua libera espressione sia troppo debole per minare la democrazia, ma se diventasse forte da farlo, allora l’accettazione di questa libertà significherebbe non credere davvero nella democrazia, ma ritenerla una valore tanto quanto la non-democrazia. Se no, allora non è democratico.
In generale, allora, si può affermare di ritenere un valore una certa cosa, a meno del suo contrario. Sono tollerante proprio perché rifiuto l’intolleranza. Occorre fare attenzione a professarsi relativisti: si possono benissimo accettare come valori alcuni principî che non sono contraddittori rispetto ai nostri, ma quando si accetta un principio contraddittorio, allora il nostro valore non è più un valore, e niente ha più valore davvero, né per me, né per nessun altro. Un nichilismo radicale. Mi sembra tuttavia, che sia insostenibile: tutti riteniamo che qualcosa sia meglio (più buono, più giusto, più bello, più utile) di qualcos’altro. Possiamo, a parole, non ammetterlo, ma il nostro comportamento di fatto è sempre indirizzato da alcune credenze.
Posso affermare a parole che per me non esiste nessun valore, eppure ritengo sbagliato lo sterminio nazista degli ebrei. Se non è così, rischio di essere nazista. Un qualche valore ci deve pur essere.
(Queste ultime riflessioni derivano in buona parte della lettura di Diego Marconi, Per la verità, Torino, Einaudi, 2007)