Se è vero che l’appartenenza ad una classe sociale era strettamente legata al senso di appartenenza ad uno stato nazionale (cfr. Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano, 2006, pp. 189-190), si capisce come il declino degli stati nazionali nel mondo contemporaneo abbia favorito l’ulteriore atomizzazione degli individui e la totale rimozione di qualsiasi senso di appartenenza politico. Tale condizione “postmoderna” o “postindustriale” determinata dallo sviluppo del capitalismo pone la sfida di una nuova mappatura cognitiva della posizione dell’individuo in società, come propone Jameson. Solo in questo modo sarà possibile riguadagnare la capacità critica, e perciò l’azione e la lotta, “che al presente è neutralizzata dalla nostra confusione spaziale e sociale” (Jameson, Postmodernismo, o la logica culturale del tardo capitalismoo, Fazi, 2007, cap. I).
Ciò non significa recuperare l’ormai anacronistica distinzione marxiana tra borghesia e proletariato, e il concetto di lotta fra queste. Occorre rendersi conto che se è svanito il senso di appartenenza ad una classe, è svanita la classe stessa. Che cos’è, infatti, una classe sociale se non la condivisione di problemi, soluzioni e scopi tra uno strato di popolazione, in avversità ad un altro? Marx insegna che non può esistere una classe unica (una società con una classe unica è una società senza classi), ma soltanto diverse classi in conflitto. Ebbene, oggi questo elemento viene a mancare, proprio perché il conflitto di classe può avvenire solo all’interno di uno stato nazionale. Non per nulla la “rivoluzione permanente” teorizzata da Trotzkij non era intesa come rivoluzione immediata e contemporanea di tutti i proletari di tutti i paesi, ma come una sorta di rivoluzioni a catena, dilazionate nel tempo, e rese possibili da una solidarietà internazionale operaia.
Al giorno d’oggi la borghesia non può essere identificata con la classe dei detentori dei mezzi di produzione, contro la quale il proletariato industriale aveva da far valere le proprie ragioni. Questo per due ragioni: 1) oggi i mezzi della produzione non sono più i mezzi materiali della produzione industriale, ma sono i mezzi immateriali della produzione di denaro da denaro (se intendiamo con “mezzi di produzione”, in ultima analisi, i mezzi di accumulazione) e 2) chi li detiene è la cosiddetta “classe capitalistica transnazionale” (cfr. Luciano Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, Torino, 2009), i cui membri non necessariamente si identificano con grandi industriali (i quali soltanto detengono ancora dei mezzi di produzione materiali). In conflitto con gli interessi di questa classe transnazionale (che è però una contraddizione in termini, essendo ogni classe nazionale) vi sono i residui di quella che era la borghesia e tutto il corpo dei lavoratori e degli operai, fusi ormai insieme in un nuovo corpo sociale – l’unico a livello nazionale – il quale è ancora incapace di individuare sia i suoi reali interessi, sia chi ad essi si oppone, nonché di mettere in atto una strategia di resistenza e lotta (queste tre incapacità sono, del resto, una la conseguenza dell’altra). Alla radice del problema si pone il fatto che i componenti di questo corpo sociale non hanno coscienza di farne parte.
Mi pare dunque di poter individuare nella società contemporanea, da una parte un corpo sociale nazionale, estremamente variegato al suo interno, espropriato di qualsiasi potere in conseguenza dell'espropriazione del potere degli stati nazionali e dell'asservimento di questi ai tecnocrati della finanza internazionale; dall'altra l'esiguo numero di capitalisti detentori dei mezzi della produzione immateriale, che hanno una base sovranazionale e globale.
Possiamo dire, allora, che il capitalismo è giunto a determinare una “società senza classi”, purtroppo ben diversa da quella immaginata da Marx, in quanto, lungi dall’essere il regno della realizzazione delle libere individualità, è l’alienazione delle individualità reificate ed atomizzate, estesa all’intero tessuto sociale.