«E' indubbio che l’uomo conosca spesso il proprio sentimento più profondo solo nella forma della passione particolare, nella forma della ‘cattiva inclinazione’ che vuole sviarlo. Conformemente alla sua natura, il desiderio più ardente di un essere umano, tra le diverse cose che incontra, si focalizza innanzitutto su quelle che promettono di colmarlo. L’essenziale è che l’uomo diriga la forza di quello stesso sentimento, di quello stesso impulso, dall’occasionale al necessario, dal relativo all’assoluto: così troverà il proprio cammino»(2).
Se è vero che l'uomo non ha la libertà di volere, è pur vero che «innata v’è la virtù che consiglia,\ e de l’assenso de’ tener la soglia»(3). Questa virtù non ce la si costruisce liberamente, secondo quanto credo, ma deriva da una miriade di fattori di cui molti inconoscibili, ma di cui il più importante è l'educazione che si è ricevuta e il modo con cui la si è appresa (anche questo non libero, ma determinato da moltissimi fattori, ma lascio perdere se no non finisco più). Posta dunque l'importanza dell'educazione, io ritengo che questo messaggio di necessità di rivolgere il proprio sforzo al miglioramento dell' Uomo, cioè dell'umanità, vada fatto proprio e diffuso. Così, d'altra parte, chiunque abbia convinzioni così forti cercherà di convincere gli altri, ma io penso che questa cosa che vi propongo (che non è per nulla di mia invenzione o scoperta) sia la cosa più ragionevole, a meno che si ritenga maggiormente buono portare l'umanità verso l'autodistruzione e separarla sempre più tra ricchi e poveri, potenti ed impotenti ecc.
La virtù consiste nell'esercizio della caritas, l'amore, il retto desiderio, contrapposto da S. Agostino all' amor rerum transeuntium. Rileggendo oggi il concetto espresso da questo padre della Chiesa, ci accorgiamo che il suo messaggio può essere laicamente inteso, non come una vita caritatevole per meritarsi la grazia divina, ma più praticamente per permettere la stessa sopravvivenza dell'uomo. L'amore per l'avere (cfr. Fromm, cit.) e lo sfrenato consumismo distruggono l'uomo innanzitutto, che è alienato da se stesso e si isola in un individualismo che si traduce poi in comportamenti anti-solidaristici, dall'indifferenza al razzismo, e, in secondo luogo, distrugge l'umanità intera, poiché l'uomo attento soltanto al proprio avere e alla propria ricchezza non è interessato dal fatto che con il suo agire privo di vincoli e limiti stia distruggendo il pianeta e stia calpestando le persone (e popolazioni) povere, che, sempre più oppresse, costituiscono sempre più una vergogna per tutti quanti appertengono al mondo "civilizzato"....
Così come il consumismo individualista (derivato dal capitalismo) elimina i rapporti tra le persone, che si riducone anch'esse a possesso. La paura di perdere ciò che si ha investe anche i rapporti affettivi che diventano perciò morbosi e patetici e spesso finiscono in liti perché ciascuno vuole affermare la propria libertà rispetto all'altro.
Anche il lavoro, spesso, finalizzato soltanto all'acquisizione dello stipendio mensile, è qualcosa che non coinvolge né riguarda il lavoratore, che si trova a svolgere la sua mansione per puro calcolo utilitaristico (di necessità, inevitabile), mentre se ci fosse maggiore giustizia sociale e più redistribuzione dei redditi, si potrebbe lavorare di meno e dedicarsi maggiormente alle altre persone, alla cultura, allo svago. Basti pensare alla disoccupazione: se questi venissero impiegati mentre quelli che attualmente lavorano lavorassero di meno, tutti avrebbero il lavoro assicurato e, per permettere a tutti uno stipendio equo (uguale più o meno per tutti), sarebbe sufficiente tagliare i guadagni dei grandi imprenditori, dei politici, dei calciatori; tagliare le spese per le guerre, per inutili infrastrutture (maschere di finta modernità, ma a cosa ci serve la modernità se l'uomo fugge da se stesso e si autodistrugge?) ecc.
Ci vuole più equità, più senso della giustizia e dell'uguaglianza tra uomini e tra donne di tutto il mondo. Per ottenere questo, l'uomo deve cessare di dirigere i suoi sforzi verso l'avere, il possesso sfrenato indice di prestigio, fonte di soddisfazione e rispetto sociale, e dedicarsi all'essere, indirizzando rettamente i propri desideri, «dall’occasionale al necessario, dal relativo all’assoluto» (cit.).
(1) Erich Fromm, Avere o essere?, Mondadori, Milano, 1979, p. 17
(2) Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Qiqajon, Magnano, 1990, p. 30
(3) Dante Alighieri, Purg. XVIII, 64-65
4 commenti:
Vero, ma perché mai dovremmo sentirci in dovere di "salvare il mondo", e di non fare qualcosa per amor nostro, facendolo invece per amor del pianeta?
Qual è la ragione per cui dovremmo ritenere di una qualche importanza la perpetuazione della specie e della sua vita su questo pianeta?
Se il discorso è il solito "per lasciare ai nostri figli un mondo migliore", potrei essere d'accordo in qualche misura; ma se uno dovesse reputare questa ragione insufficiente...?
Certo, il problema che poni non è di facile risoluzione.
Proprio per questo io ho parlato dell'importanza dell'educazione, perché ritengo che solo tramite questa l'individuo possa fare propri dei "valori" che non contrastino con l'esistenza altrui (e nella fattispecie dei posteri).
L'uomo che senta la necessità di agire tenendo conto degli altri, lo fa perché la sua educazione lo porta a questo.
In ogni caso, io sono convinto che tutte le azioni siano compiute "per amor nostro". Se l'uomo si indirizzasse verso l'essere piuttosto che verso l'avere, ponendo quindi come scopo centrale della propria esistenza non la quantità della sua ricchezza, ma la qualità essenziale del sé, considererebbe tra i suoi beni anche azioni che non siano finalizzate al mero interesse materiale. Nel suo personale interesse essenziale (cioè relativo alla sua essenza), egli compierebbe l'azione altruistica senza nemmeno pensarci: sarebbe naturale, e sarebbe un modo di dare senso alla propria esistenza, posto che essa acquisisce un senso soltanto nell'azione e nella relazione.
E' semplicemente un mutamento di prospettiva, "dall'occasionale al necessario".
Inoltre l'uomo che procrea naturalmente ama il proprio figlio (se non nasce "incidentalmente") ed in relazione a questo amore egli non può volere che il figlio cresca in un mondo invivibile.
Non credo che l'egoismo (materiale o essenziale) sia compatibile con il vivere civile, almeno per come lo intendiamo oggi.
Un cultore dell'essenza cos'è?
Inoltre, secondo me, se mai esiste una ragione per la quale avere come fine la perpetuazione della specie va cercata nell'evoluzionismo. Quella che potremmo chiamare fine causale, o causa finale. Contraddizione? Forse. Però le nostre cause endogene-esogene ci impongono un fine, tra gli altri: la riproduzione. Un fine dovuto alla causalità.
Ma se questo fine è dovuto alla causalità, e causa a sua volta il nostro agire, non è puramente un condizionamento? Di certo non è libertà.
Inoltre la cultura che tu poni come condizionamento funziona, ma solo se vista come causa. O, se visto come l'ennesimo gene egoista (in quanto qualcuno tende a considerare perfino le idee alla stregua dei geni) non fosse comunque una forma di, appunto, egoismo?
La mia domanda (non sono stato chiarissimo, scusami) verteva più sull'esistenza di una ragione (un fine) per il quale dovremmo lasciare ai nostri figli un mondo migliore.
Io invece credo che un comportamento egoistico sia compatibile con il vivere civile. Intendo per egoista unicamente "finalizzato al proprio interesse personale". Laddove, grazie all'educazione, il mio interesse personale è incentrato sull'essenza invece che sull'avere, la questione è più facilmente risolvibile e il fine dell'azione "egoistica" può rivelarsi "altruistico".
La riproduzione non è impedita dalla distruzione del pianeta: questa impedisce la sopravvivenza della prole. L'evoluzionismo qui non mi pare che possa c'entrare, semmai c'entra l'amore che uno nutre per i figli.
Certo che la cultura "funziona se vista come causa": qual è il problema?
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