giovedì 25 settembre 2008

Clandestini per forza


Il permesso di soggiorno, che permette agli immigrati di vivere regolarmente nel nostro Paese, è soggetto a scadenza e va perciò rinnovato. C’è però un problema: il rinnovo del permesso occupa tempi inspiegabilmente lunghissimi ed accade che quando il Poligrafo dello Stato restituisce il permesso al cittadino, è già scaduto. Le domande di rinnovo presentate dal 2006 ad oggi, secondo il dipartimento immigrazione della Cgil, sono un milione e seicento mila, ma soltanto trecento mila per ora sono stati rinnovati. E si noti che, per legge, il Poligrafo non può stampare permessi scaduti, per cui non vengono proprio prodotti, in attesa di “determinazioni ministeriali”. La situazione era nota al governo già dalla primavera, eppure nel maggio scorso è stato approvato un pacchetto sicurezza che costituisce un ulteriore mazzata sulla testa degli immigrati. Infatti tale legge prevede ammende affatto consistenti per chi, ad esempio, affitta un appartamento ad un immigrato senza regolare permesso di soggiorno, e tende di conseguenza ad aumentare spropositatamente il prezzo o a fargli perdere la casa se questi, dopo mesi che ci abitava, diventa clandestino; oppure per l’imprenditore che, con la scusa dei rischi che, effettivamente, corre (denuncia per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, anche se in realtà si sta solo aspettando il rinnovo richiesto), finisce facilmente per assumere lavoratori in nero, con stipendi più bassi, con scarse o assenti misure di sicurezza. E spesso il lavoro nero equivale allo sfruttamento. Questo, grazie al sindacato, non avviene ancora ai lavoratori precedentemente assunti, ma nei casi di rinnovo del contratto o ricerca di un nuovo lavoro, l’assunzione è impossibile. L’immigrato in una situazione del genere, non può nemmeno ottenere un mutuo da una banca. Nel frattempo, Bossi e Fini, hanno ridotto la validità dei permessi da quattro anni a uno, massimo due. Così si può essere quasi certi che le domande di rinnovo presentate nel 2008, usciranno già scadute. Nonostante questa inefficienza, nelle casse delle poste e dello Stato sono arrivati, complessivamente, dal 2006, 115 milioni 392 mila euro, considerando che ogni persona che richiede il rinnovo, tra una cosa e l’altra spende circa 72 euro. La Cgil stima che di permessi ne scadano 22 mila ogni settimana e, prima o poi, tutti gli immigrati attualmente regolari dovranno farselo rinnovare. La difficoltà conseguente di lavorare e di vivere, non facilita certo l’integrazione, ma l’emarginazione e tutto ciò che ne consegue; è mancanza di rispetto di basilari diritti dell’uomo e contrario al principio di uguaglianza tra tutti i cittadini. Il sindacato ha da tre mesi chiesto un incontro al ministro Maroni, ma senza ricevere risposta. Per farci sentire al sicuro mettono i militari lungo le strade delle città, ma quei poveri cittadini impossibilitati a lavorare da uno stato di obbligata clandestinità, difficile che possano diventare cittadini esattamente onesti. Del resto, anche loro devono vivere; lo Stato non dovrebbe ostacolarli, ma favorirli, anche perché il lavoro degli immigrati è necessario. Intanto l’indifferenza o, peggio, la discriminazione e l’ostilità nei confronti dei “diversi” viene fomentata da cretini che gridano agli immigrati che «vadano a pregare e a pisciare nel deserto». Forse non è proprio il miglior indice di civiltà.

domenica 21 settembre 2008

a S.

a S.

....

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma,
e che il tuo aspetto s'insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d'una giovinetta palma...

martedì 16 settembre 2008

Goodbye, Richard....

E' morto ieri Richard Wright, storico tastierista dei Pink Floyd. Ora il gruppo non esiste più, entrano nella storia, di cui costituiranno sempre un pezzo fondamentale e imprescindibile per il rock.

Summer Elegy (by Richard Wright)



sabato 13 settembre 2008

L'isola

L’isola

di Cesare Pavese

da “Dialoghi con Leucò”

Tutti sanno che Odisseo naufrago, sulla via del ritorno, restò nove anni sull’isola Ogigia, dove non c’era che Calipso, antica dea.

(parlano Calipso e Odisseo)

C. Odisseo, non c’è nulla di molto diverso. Anche tu come me vuoi fermarti su un’isola. Hai veduto e patito ogni cosa. Io forse un giorno ti dirò quel che ho patito. Tutti e due siamo stanchi di un grosso destino. Perché continuare? Che t’importa che l’isola non sia quella che cercavi? Qui mai nulla succede. C’è un po’ di terra e un orizzonte. Qui puoi vivere sempre.

O. Una vita immortale.

C. Immortale è chi accetta l’istante. Chi non conosce più un domani. Ma se ti piace la parola, dilla. Tu sei davvero a questo punto.

O. Io credevo immortale chi non teme la morte.

C. Chi non spera di vivere. Certo, quasi lo sei. Hai patito molto anche tu. Ma perché questa smania di tornartene a casa? Sei ancora inquieto. Perché i discorsi che da solo vai facendo tra gli scogli?

O. Se domani io partissi tu saresti infelice?

C. Vuoi saper troppo, caro. Diciamo che sono immortale. Ma se tu non rinunci ai tuoi ricordi e ai sogni, se non deponi la smania e non accetti l’orizzonte, non uscirai dal destino che conosci.

O. Si tratta sempre di accettare un orizzonte. E ottenere che cosa?

C. Ma posare la testa e tacere, Odisseo. Ti sei mai chiesto perché anche noi cerchiamo il sonno? Ti sei mai chiesto dove vanno i vecchi dèi che il mondo ignora? Perché sprofondano nel tempo, come le pietre nella terra, loro che pure sono eterni? E chi son io, chi è Calipso?

O. Ti ho chiesto se sei felice.

C. Non è questo, Odisseo. L’aria, anche l’aria di quest’isola deserta, che adesso vibra solamente dei rimbombi del mare e di stridi d’uccelli, è troppo vuota. In questo vuoto non c’è nulla da rimpiangere, bada. Ma non senti anche tu certi giorni un silenzio, un arresto, che è come la traccia di un’antica tensione e presenza scomparse?

O. Dunque anche tu parli agli scogli?

C. È un silenzio, ti dico. Una cosa remota e quasi morta. Quello che è stato e non sarà mai più. Nel vecchio mondo degli dèi quando un mio gesto era destino. Ebbi nomi paurosi, Odisseo. La terra e il mare mi obbedivano. Poi mi stancai; passò del tempo, non mi volli più muovere. Qualcuna di noi resisté ai nuovi dèi; lasciai che i nomi sprofondassero nel tempo; tutto mutò e rimase uguale; non valeva la pena di contendere ai nuovi il destino. Ormai sapevo il mio orizzonte e perché i vecchi non avevano conteso con noialtri.

O. Ma non eri immortale?

C. E lo sono, Odisseo. Di morire non spero. E non spero di vivere. Accetto l’istante. Voi mortali vi attende qualcosa di simile, la vecchiezza e il rimpianto. Perché non vuoi posare il capo con me, su quest’isola?

O. Lo farei, se credessi che sei rassegnata. Ma anche tu che sei stata signora di tutte le cose, hai bisogno di me, di un mortale, per aiutarti a sopportare.

C. È un reciproco bene, Odisseo. Non c’è vero silenzio se non condiviso.

O. Non ti basta che sono con te quest’oggi?

C. Non sei con me, Odisseo. Tu non accetti l’orizzonte di quest’isola. E non sfuggi al rimpianto.

O. Quel che rimpiango è parte viva di me stesso come di te il tuo silenzio. Che cosa è mutato per te da quel giorno che terra e mare ti obbedivano? Hai sentito ch’eri sola e ch’eri stanca e scordato i tuoi nomi. Nulla ti è stato tolto. Quel che sei l’hai voluto.

C. Quello che sono è quasi nulla, caro. Quasi mortale, quasi un’ombra come te. È un lungo sonno cominciato chi sa quando e tu sei giunto in questo sonno come un sogno. Temo l’alba, il risveglio; se tu vai via, è il risveglio.

O. Sei tu, la signora, che parli?

C. Temo il risveglio, come tu temi la morte. Ecco, prima ero morta, ora lo so. Non restava di me su quest’isola che la voce del mare e del vento. Oh non era un patire. Dormivo. Ma da quando sei giunto ha portato un’altr’isola in te.

O. Da troppo tempo la cerco. Tu non sai quel che sia avvistare una terra e socchiudere gli occhi ogni volta per illudersi. Io non posso accettare e tacere.

C. Eppure, Odisseo, voi uomini dite che ritrovare quel che si è perduto è sempre un male. Il passato non torna. Nulla regge all’andare del tempo. Tu che hai visto l’Oceano, i mostri e l’Eliso, potrai ancora riconoscere le case, le tue case?

O. Tu stessa hai detto che porto l’isola in me.

C. Oh mutata, perduta, un silenzio. L’eco di un mare tra gli scogli e un po’ di fumo. Con te nessuno potrà condividerla. Le case saranno come il viso di un vecchio. Le tue parole avranno un senso altro dal loro. Sarai più solo che nel mare.

O. Saprò almeno che devo fermarmi.

C. Non vale la pena, Odisseo. Chi non si ferma adesso, subito, non si ferma mai più. Quello che fai, lo farai sempre. Devi rompere una volta il destino, devi uscire di strada, e lasciarti affondare nel tempo…

O. Non sono immortale.

C. Lo sarai, se mi ascolti. Che cos’è vita eterna se non questo accettare l’istante che viene e l’istante che va? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Cos’è stato finora il tuo errare inquieto?

O. Se lo sapessi avrei già smesso. Ma tu dimentichi qualcosa.

C. Dimmi.

O. Quello che cerco l’ho nel cuore, come te.

mercoledì 10 settembre 2008

Buttiamo Ungaretti e Montale corriamo a rileggere Pavese


di Flavio Santi, da Liberazione del 09/09/2008

Una poesia non aristocratica: così la definì il maestro dei critici, Gianfranco Contini. Con questo appellativo intendeva dire che Pavese non seguiva i dettami (e gli orpelli) della dominante poesia francese (di cui fu gran ruminatore da noi Ungaretti), e dunque per capirci Mallarmé e Valéry su tutti, poesia preziosa e altera, lontana dagli accidenti del mondo, iperuranica e iperbarica. Pavese amava gli americani e a loro guardava. Laureatosi su Walt Whitman, non poteva che battere quella strada, fatta di concretezza e sangue, di terra e umori. Pagò questa scelta con un sostanziale isolamento nell'esclusivo club dei poeti italiani, e lui stesso ne fu consapevole fin da subito, se per la nuova edizione accresciuta di Lavorare stanca del 1943 scrisse di suo pugno per la fascetta queste implacabili parole: «Una delle voci più isolate della poesia contemporanea».
La poesia italiana di quegli anni veleggiava placida tra le parole enigmistiche dell'ermetismo, per usare una celebre definizione di Umberto Saba (non a caso altro grande isolato), e se non fu poesia complice del regime fascista poco ci mancò: fu comunque arte per l'arte, non denunciò, non stigmatizzò, si limitò a cantare di più o meno lancinanti mondi interiori, di casi più o meno clinici. Tutto l'ermetismo andrebbe ripensato, e gli stessi mostri sacri (tali per diktat scolastico, a ben pensarci) Ungaretti e Montale meriterebbero un profondo ripensamento. Quali tra questi versi hanno resistito meglio all'usura del tempo e delle parole, e dunque della storia? «Fanfan ritorna vincitore; Molly / si vende all'asta: frigge un riflettore» (Montale), oppure «Stupefatto del mondo mi giunse un'età / che tiravo gran pugni nell'aria e piangevo da solo» (Pavese)? Mi pare che non ci siano dubbi. I primi sono puro vocio privo di adesione e storia, rimandano ad altri piani, ad altri sensi. Semplicemente un bel gioco. Gli altri sono storia di parole e sentimenti, sangue e nervi. Necessità. Proprio come tra questi versi: «Tu non altro che il canto avrai del figlio, / o materna mia terra» (Foscolo) e «e il tuo buon rege, il re più grande, in atto / d'agno innocente fra digiuni lupi / sul letto de' ladron a morir tratto» (Monti), non ci dovrebbero essere esitazioni. Ugo Foscolo, il reietto, l'esule, i cui Sepolcri vennero definiti «un fumoso enigma», ci parla ancora oggi, mentre Vincenzo Monti, il potentissimo cantore della convenienza, al massimo ci stuzzica con le sue carinerie verbali. A questa punto della storia letteraria italiana niente ci vieta di considerare Ungaretti e Montale una sorta di moderna versione di Vincenzo Monti. Altri i veri, grandi poeti del Novecento italiano: Umberto Saba, Attilio Bertolucci, Pier Paolo Pasolini. E Cesare Pavese. Poeti del dire cose, qui e ora, di un particolare che è sempre universale. Il particolare di Montale è troppo selettivo ed esclusivo, riflette solo se stesso, non crea continuità e aderenza. Non crea storia. Se non storia accademica. Ma basta? Basta a un popolo, a una nazione, alle persone?
Le poesie di Pavese hanno la limpida necessità del classico: chiarezza ed evidenza di lingua e storia. «Non è più coltivata quassù la collina. Ci sono le felci / e la roccia scoperta e la sterilità. / Qui il lavoro non serve più a niente. La vetta è bruciata / e la sola freschezza è il respiro»: ecco, un attacco come questo è destinato a durare per sempre. Ancora: «Quest'è il giorno che salgono le nebbie dal fiume / nella bella città, in mezzo a prati e colline, / e la sfumano come un ricordo. I vapori confondono / ogni verde, ma ancora le donne dai vivi colori / vi camminano». Se invece si è più sensibili alle pieghe esistenziali, ci sono anche quelle, eccone un assaggio: «Ma quando gli dico / ch'egli è tra i fortunati che han visto l'aurora / sulle isole più belle della terra, / al ricordo sorride e risponde che il sole / si levava che il giorno era vecchio per loro». Il grande merito di Pavese è quello più banale ma imperituro (e difficilissimo): parlare a tutti. Ci riesce perché risolve il problema dei problemi della poesia moderna, sollevato in una famosa lettera da Rimbaud: trovare una lingua. Quella lingua è la lingua di tutti, la più vibrante ma anche la più ardua da usare. I risultati sono di un nitore abbagliante: «Non importa la notte. Il quadrato del cielo / mi susurra di tutti i fragori, e una stella minuta / si dibatte nel vuoto, lontano dai cibi, / dalle case, diversa. Non basta a se stessa, / e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo, / il mio corpo è tranquillo e si sente padrone».

Spreco di tempo

Può darsi che sia ora di tirare
i remi in barca per il noioso evento.
Ma perché fu sprecato tanto tempo
quando era prevedibile il risultato?

(sempre Montale)

Doppio Montale

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida
scorta per avventura tra le petraie d'un greto,
esiguo specchio in cui guardi un'ellera i suoi corimbi;
e su tutto l'abbraccio d'un bianco cielo quieto.

Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto s'esprime libera un'anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma,
e che il tuo aspetto s'insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d'una giovinetta palma...

***

Ciò che di me sapeste
non fu che la scialbatura,
la tonaca che riveste
la nostra umana ventura.

Ed era forse oltre il telo
l'azzurro tranquillo;
vietava il limpido cielo
solo un sigillo.

O vero c'era il falòtico
mutarsi della mia vita,
lo schiudersi d'un'ignita
zolla che mai vedrò.

Restò così questa scorza
la vera mia sostanza;
il fuoco che non si smorza
per me si chiamò: l'ignoranza.

Se un'ombra scorgete, non è
un'ombra - ma quella io sono.
Potessi spiccarla da me,
offrirvela in dono.


(Montale, da Ossi di seppia)

lunedì 8 settembre 2008

Odisseo

(...)
Preferisti l'infinità del mare
e opporti a venti e maree.
Vivere sballottato da onde casuali.

giovedì 4 settembre 2008

Meriggiare pallido e assorto

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d' orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch' ora si rompono ed ora s' intrecciano
a sommo di minuscole biche.

osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

e andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Eugenio Montale

Pacchetto sicurezza

E’ recente, purtroppo, l’ennesima notizia di attacchi violenti da parte di gruppi neofascisti ai danni di gente senza alcuna colpa, se non quella di essere diversa da loro. L’ultimo triste avvenimento riguarda un giovane colpito nell’anniversario dell’uccisione, sempre per giovane mano fascista, di un ragazzo. Che si tratti di una coincidenza, non sembra proprio. Ciò che è sicuro, invece, è che queste aggressioni gratuite sono sempre più frequenti e nessuno ha ancora preso provvedimenti serî per scongiurarle. Il governo, sfruttando i mezzi di informazione, convince la maggioranza degli italiani che il problema siano gli immigrati, sempre pronti ad atti di violenza e a rapine. Così si pensa di inasprire le leggi, di ricacciare tutti gli irregolari o di metterli in galera. Per maggiore sicurezza si fa addirittura intervenire l’esercito nelle strade delle grandi città. I fenomeni dilaganti di razzismo e di fascismo, invece, non preoccupano nessuno, non meritano quasi attenzione. E tutto questo avviene sotto la promessa, da parte del PdL, fatta prima ancora delle elezioni, di revisionare i testi scolastici di storia, perché «ancor oggi caratterizzati dalla retorica della Resistenza»*. Come se la Resistenza fosse un valore passato, decaduto e per di più antidemocratico e comunista. Si dimenticano forse che dalla Resistenza, di ogni colore, è nata la Costituzione Italiana , la quale recita all’articolo XII delle Disposizioni transitorie e finali, che «è` vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Questo a me suggerisce che anche forme violente dichiaratamente neofasciste andrebbero arginate. Invece no. E si riscrive la storia: questo sta davvero avvenendo con la realizzazione di un’enciclopedia in videoclip che raggiungerà web e tv. Alla realizzazione dell’enorme lavoro partecipano, guarda a caso, «dipendenti e collaboratori dell’Ovo, una srl partecipata al 47 per cento da Trefinance, una società lussemburghese che fa capo alla Fininvest»* (*L’espresso, n. 35, anno LIV, p. 46) . Questo è il pacchetto sicurezza.