domenica 31 marzo 2013
Liberazione dell'uomo (Heidegger)
"L'affrancamento dalle catene non è quindi una liberazione effettiva dell'uomo, ma rimane esteriore e non coglie l'uomo nel suo proprio sé. Cambiano solo le circostanze, ma il suo stato interiore, il suo volere non subiscono alcuna trasformazione. Certo, il prigioniero vuole, ma quello che vuole è il ritornare in catene. Volendo questo, egli vuole il non volere: vuole non essere coinvolto in prima persona. Si sottrae e rifugge dalla pretesa di abbandonare del tuto la sua situazione precedente. Inoltre è ben lontano dal capire che l'uomo è di volta in volta unicamente quello che ha la forza di predetendere da sé." (M. Heidegger)
sabato 30 marzo 2013
Dall'Europa delle diseguaglianze alla comunità di nazioni
1. Il 12 Ottobre 2012 è stata
annunciata la decisione, da parte del Comitato Nobel Norvegese, di assegnare un
premio per la pace all’Unione Europea. La notizia, com’era prevedibile, ha
provocato le più disparate reazioni sui giornali, sui siti internet, sulle
piazze virtuali dei social networks.
Ma non c’è da stupirsi se il
premio Nobel per la pace, che dovrebbe essere un altissimo riconoscimento per
azioni esemplari, viene assegnato a personaggi o istituzioni politiche di
rilievo che, in quanto tali (purtroppo), che cosa sia la pace davvero non
l’hanno mai sperimentato: basti pensare a Barack Obama, il quale, pur con tutti
i meriti che gli si possono attribuire, non può essere indicato come esempio di
“portatore di pace” nel mondo.
Non c’è da stupirsi, dunque, ma
non solo perché siamo abituati ad assegnazioni improprie. Il motivo principale
per cui esse non sono una novità è che sono perfettamente in linea con il
messaggio palesemente falso trasmesso da tutte le istituzioni e gran parte
degli strumenti informativi circa il tema della guerra. Innanzitutto, il
conflitto armato che da sempre ha portato questo nome, è stato da tempo
ribattezzato con i vari sinonimi di “missione di pace”, “esportazione della
democrazia”, e via dicendo. Perciò, se l’Unione Europea conta numerosi suoi
paesi membri all’interno di un’organizzazione come la NATO, il fatto che gli
sforzi bellici siano presenti e massicci, non fa problema: essi non sono
guerra, ma missioni umanitarie.
In secondo luogo, sembra essersi
affermata l’idea che il termine “pace” sia il contrario di “guerra” e perciò,
se il secondo non viene più usato, è naturale che al suo posto si debba usare
il primo. Ma questo porta con sé un secondo grave errore: non soltanto si
riconducono alla semantica della pace dei conflitti armati, ma anche si ignora che
il vero contrario di “pace” è piuttosto “violenza”. Quest’ultima si esplica in
infiniti modi, ed è qualcosa che verosimilmente non sarà mai estinto dal mondo.
E tuttavia vi sono forme di violenza, al di là delle “missioni umanitarie”,
verso le quali le istituzioni europee, insieme a quelle dei paesi membri,
devono essere considerate responsabili al massimo grado.
Sarebbe bastato considerare
alcune di queste per comprendere come l’assegnazione di un premio per la pace
sia inadeguato, persino sottoforma di auspicio. Ma d’altra parte, com’è si è
detto, la ristretta rosa di significati attribuiti dai media politicamente
corretti ai termini in questione, è una condizione evidente per una necessaria cattiva attribuzione di
simili premi (che del resto sono “politicamente corretti” per loro stessa
natura).
2. Il testo delle motivazioni per
l’attribuzione del Nobel all’UE[1]
non fa riferimento all’esistenza o meno di confitti al di fuori dei confini
dell’Unione stessa. Fatto piuttosto grave, ma dato che si pone attenzione
soltanto alle relazioni tra gli stati membri, ritengo sia giusto, in questa
sede, limitarsi a discutere di queste.
È certamente vero che tra i paesi
che hanno dato vita al processo di integrazione europea dalla fine della
seconda guerra mondiale non si sono più verificate guerre; ed è certamente vero
che questa è una novità storica rilevante, dal momento che per secoli questi
Paesi (o i loro antenati) hanno avuto sanguinosi ed interminabili scontri; è
vero, infine, che oggi una guerra (anche mondiale) difficilmente – ma non è da
escludere – vedrebbe i paesi europei rivaleggiare come antichi avversari.
Ma a tutto questo possono essere
mosse tre obiezioni: in primo luogo, se ci si riferisce all’immediato periodo
successivo alla guerra (che è compreso nei “sessant’anni” cui le motivazioni
del premio fanno riferimento), è probabilmente corretto sostenere, come ha
fatto il prof. Massimo de Leonardis, che allora l’integrazione europea è nata
al riparo della NATO e che, almeno per quanto riguarda il primo periodo, «il
processo di integrazione europea non è […] la causa della pace in Europa, ma
semmai il frutto di una pace che era garantita da altri fattori». Questi
fattori furono da una parte l’esistenza della NATO e dall’altra l’emergere
della tensione tra Unione Sovietica e Stati Uniti, che garantirono un periodo
di non belligeranza, poiché qualunque attacco sarebbe stato distruttivo per
tutti[2].
In secondo luogo, un’unione
politica non esisteva ancora, e l’instaurazione di rapporti pacifici tra i
paesi membri non fu dovuta a un particolare senso di rispetto nei confronti di
«democrazia e diritti umani», quanto piuttosto da interessi economici relativi
alla produzione e al commercio del carbone e dell’acciaio. Questi interessi,
peraltro, non erano neppure genuinamente europei, ma provenivano piuttosto
dagli Stati Uniti. Al termine del conflitto mondiale l’Europa era infatti
devastata e gli Stati Uniti ritennero di intervenire per aiutare la ripresa
delle economie nazionali europee, varando l’European
Recovery Program nel 1948 (noto come Piano
Marshall). Dopo la sua definitiva approvazione venne costituita, tra
l’altro, l’Organization for European
Economic Cooperation, un’istituzione per la cooperazione economica dei paesi
europei che si sforzò da subito di favorire la realizzazione di quegli
obiettivi di integrazione che saranno poi fatti propri dalla CECA, costituita nel 1951. Non solo gli
americani avevano facoltà di intervenire nell’economia dei paesi interessati al
programma, ma soprattutto era interesse degli Stati Uniti che si creasse un
corpo economico unitario in Europa, con il quale istituire rapporti facilitati
di commercio.
Secondo quanto Churchill sostenne
in un discorso a Zurigo nel 1951, inoltre, i paesi Europei occidentali non
erano pronti a fronteggiare la minaccia sovietica, al cui blocco aderivano
anche paesi dell’Europa orientale. Era perciò immediatamente necessario,
nell’interesse dell’Europa (ma visto dagli Stati Uniti e dai filoatlantici),
favorire un’integrazione economica e quindi una collaborazione militare
difensiva (con la NATO). In questo modo si incoraggiavano gli Stati Uniti a
venire in contro a quei paesi dell’Europa che volevano restare lontani
dall’oscura minaccia comunista. Va da sé che questo processo iniziale di
integrazione europea portò all’esclusione politica dei partiti comunisti e alla
disattesa delle rivendicazioni dei sindacati più radicali.
È su questa scia che nasce il
primo vero e proprio organismo europeo, la CECA, che rifletteva gli obiettivi
della politica di Washington[3].
In terzo luogo, l’integrazione
europea è giunta oggi ad assumere configurazioni paradossali, generando una
spirale di conflitti civili in corrispondenza dell’aumento spropositato delle
diseguaglianze sociali, tanto all’interno di singoli paesi, quanto, e
soprattutto, tra paese e paese. Valga come esempio il dato che ci riferisce
come i cittadini più poveri del Lussemburgo abbiano un reddito superiore a quello
dei cittadini più ricchi della Romania[4].
Si allarga sempre di più la discrepanza tra paesi creditori e paesi debitori e
si assiste ad uno spregiudicato dominio della Germania, con l’appoggio francese,
sul resto dell’Europa. Ancora un dato dev’essere ricordato: mentre la
disoccupazione cresce in maniera preoccupante in tutta Eurolandia, la Germania
registra i suoi minimi storici ed è, quindi, il paese europeo a più alto tasso
di occupazione[5].
Cerchiamo di sviluppare un po’
più articolatamente questo terzo punto.
3. La crisi della società
europea, che ha determinato la riduzione in povertà di migliaia di famiglie e
la crescita vertiginosa della disoccupazione, ha generato una serie di risposte
di protesta civile che si sono estese pressoché in tutti i paesi. La più
eclatante e organizzata è quella del movimento degli indignati, che in Italia non ha mai preso piede e si è piuttosto
canalizzata nella volontà di cambiamento espressa dal Movimento 5 stelle. Quello che mi sembra evidente di questi
conflitti civili è che essi non sono in grado di indirizzarsi verso un
obiettivo preciso, poiché coloro che ne formano il numero spesso sono coscienti
della loro specifica pessima situazione economica, lavorativa e anche
esistenziale, ma non riescono a scorgerne le cause, che si annidano nei
complessi anfratti istituzionali di un’Europa burocratica e lontana dai suoi
cittadini, nonché nell’oscurità dei processi finanziari, i quali vengono alla
luce soltanto nei loro risultati finali: i disastri o il “giudizio” dei mercati.
Il cittadino percepisce che c’è qualcosa che non va, che non può essere che
queste astratte entità decidano al posto loro e giudichino sull’opportunità
delle loro scelte, eppure non riescono a comprendere del tutto come ciò sia
possibile, e soprattutto non sono dotati degli strumenti democratici per
incidere sul funzionamento del cosmo globale che sembra ormai funzionare da sé.
Accanto a questi movimenti di
protesta, purtroppo spesso inefficaci, sorgono nei paesi europei sentimenti di
xenofobia e intolleranza verso il diverso, una tendenza a rinchiudersi nella
propria comunità etnica nella convinzione che gli stranieri siano causa dei
propri mali, o comunque che essi non abbiano il diritto di spartire una torta
resa piccola dalla crisi e che non appartiene loro. Come conseguenza viziosa,
ciò genera un’aggravarsi delle condizioni dei migranti, spesso costretti ad una
condizione di clandestinità, alla quale è immediatamente collegata quella di
sfruttato, di lavoratore in nero con il timore costante di essere rispedito nel
paese che si è lasciato.
Ma l’odio verso
l’extracomunitario (cioè l’extraeuropeo) non è il solo. In quella che dovrebbe
essere una comunità di nazioni si riscontra anche il sentimento di ostilità nei
confronti degli stessi popoli europei, favorendo la nascita di un nuovo
nazionalismo egoistico, che anziché favorire una reale integrazione europea (la
quale presupporrebbe la solidarietà tra i membri), determina invece disparità
inconciliabili di ricchezze. Ad esempio, come ha dichiarato in un’intervista la
giornalista tedesca Ulrike Hermann[6],
i cittadini della Germania sono per lo più convinti che le cause delle
disastrose condizioni economiche in cui versano i paesi come l’Italia siano
dovute unicamente alla negligenza di quei paesi stessi e che perciò unicamente
ad essi spetti il dovere di pagare. Una rinuncia dalla parte della Germania in
favore dei paesi mediterranei (i cosiddetti Pigs,
secondo lo spregiativo acronimo che assomma Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia
e Spagna) sarebbe secondo loro del tutto ingiusto. È ovvio che i tedeschi non
sono antieuropeisti, perché sono tra i pochi ad aver avuto sino ad oggi solo
vantaggi, ma hanno tuttavia sviluppato un’ostilità mista a superbia nei
confronti degli altri paesi.
Per converso, molti cittadini
europei, specialmente nei paesi citati, ritengono che la causa dei loro mali
sia unicamente dovuta all’Europa, alla perdita di sovranità nazionale da parte
degli Stati membri, all’esautoramento dei meccanismi rappresentativi, e sono
quindi convinti che la soluzione sia uscire dall’Europa. Questo tipo di
nazionalismo, pur essendo opposto al primo, ne è in realtà il complementare.
Essi sono due aspetti di quell’integrazione europea che prima ho definito
paradossale.
4. È vero che la dimensione
sempre più internazionale della politica ha in buona parte privato le
tradizionali istituzioni della democrazia rappresentativa dei loro poteri, e
che gran parte delle decisioni che riguardano il nostro ordine mondiale
derivano dalle scelte di una ristretta «oligarchia capitalistica
transnazionale» (Luciano Gallino). Ma intanto bisogna rilevare come le
istituzioni abbiano il dovere di uniformarsi al mutare delle circostanze
storiche, pena la loro esclusione da qualsiasi potere decisionale; inoltre va
rilevato come anche le istituzioni attualmente esistenti non siano in realtà
prive di qualsiasi potere, ma siano andate volontariamente incontro alla loro
stessa dissoluzione.
Un difetto connaturato alla
democrazia rappresentativa, che già Jean-Jacques Rousseau evidenziava, è dato
dal fatto che, una volta eletti i propri delegati, ci si disinteressa del loro
operato[7],
il quale spesso diventa anche difficile da monitorare. Questo problema dunque
non è nuovo e non è quindi una conseguenza della globalizzazione, anche se
forse questa l’ha reso ancora più grave.
Ora, appurato che esiste questo
problema, non si può incolpare l’Europa se i politici degli Stati europei hanno
determinato «con il proprio agire la propria presunta impossibilità d’azione»[8].
La colpa sarà dei politici stessi, quindi dei loro distratti elettori che si
disinteressano del loro operato. Un esempio su tutti è l’approvazione del Patto di bilancio europeo, passata
(almeno in Italia) sotto silenzio, e che è un caso eclatante delle politiche di
austerità. Esso costringe i paesi firmatari a ridurre il debito pubblico di un
ventesimo all’anno e a introdurre nella loro carta costituzionale l’obbligo del
pareggio di bilancio, e avrà come conseguenza il taglio di miliardi di risorse
pubbliche nei prossimi venti anni. Si può dire che questo patto sia stato
imposto agli stati europei? Direi di no, dal momento che il Regno Unito e la
Repubblica Ceca non l’hanno accolto e che l’approvazione negli altri paesi è passata
per i parlamenti nazionali[9].
Bisogna allora fare attenzione a
non farsi ingannare da quello che Ulrich Beck ha chiamato «il falso mito del
“mondo globalizzato”», in base al quale, «i politici [e soprattutto gli
elettori] si considera[no] le pedine di un gioco di potere governato dal
capitale che agisce sul piano globale»[10].
Infatti «affinché il capitale globale riesca a conseguire un potere
“inviolabile”, occorre che la politica persegua in maniera attiva la propria
autodistruzione»[11].
5. Tutte queste contraddizioni
tra la realtà e il percepito, e la già notata inefficacia della gran parte dei
movimenti di protesta, non deve comunque oscurare il punto principale di cui
stiamo discutendo: l’Europa è un tessuto di disparità e diseguaglianze, che
possono essere considerate forme di violenza a pieno titolo, in quanto portano
con sé povertà, sfruttamento, ecc.
La realtà dell’Unione europea di
oggi può essere considerata, inoltre, in contraddizione con i suoi stessi
principi giuridici. Il Trattato di
Lisbona del 2007, per esempio, ha stabilito che l’Unione «si adopera per lo
sviluppo sostenibile dell’Europa» e che si essa si base su «un’economia sociale di mercato»[12].
Com’è noto, il concetto di sostenibilità non riguarda soltanto il rapporto tra
la produzione e l’ambiente (e anche sotto questo aspetto l’Unione Europea
disattente ampiamente i suoi principi), ma anche quello tra economia e società:
secondo la Commissione mondiale
sull’ambiente e lo sviluppo dell’ONU «lo sviluppo sostenibile impone di
soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e di estendere a tutti la
possibilità di attuare le proprie aspirazioni ad una vita migliore»[13].
Analogamente, il concetto di «economia sociale di mercato» non è sinonimo di
neoliberismo ed austerity, bensì
riguarda, mi sembra, l’assicurazione a tutti i cittadini dei loro diritti al
benessere (welfare), anche contro il
«giudizio dei mercati». Ma non sembra proprio che l’Unione Europea stia andando
in questa direzione.
6. Il problema più grande
dell’Unione Europea non è tanto il fatto che essa privi del loro potere
tradizionale le istituzioni nazionali. Ciò che è grave è che l’Europa non ha
ancora un solido governo centrale in grado di mediare le istanze dei diversi
paesi. Per citare ancora una volta Beck, oggi «a decidere delle misure non è la
Commissione europea, né il presidente dell’Unione, né il presidente del
Consiglio europeo; in questo caso d’emergenza [legato alla crisi dell’euro] ad
agire è la cancelliera Angela Merkel, spalleggiata dal presidente francese,
Nicolas Sarkozy [Hollande]»[14].
Se questa è la situazione, è chiaro come l’unione monetaria non sia sufficiente
e come le istituzioni attualmente esistenti non siano in grado di costruire
un’efficace unione politica tra le nazioni.
Legato a questo problema è anche
il ruolo della Banca Centrale Europea,
che, non essendo sotto il diretto controllo pubblico, non funziona da
acquirente in ultima istanza dei titoli di Stato, costringendo così i governi a
vendere sul mercato, dove la concorrenza determina un innalzamento spropositato
dei tassi di interesse. Questo, da un lato determina un incremento del debito
pubblico a favore dei banchieri privati, e dall’altra favorisce i meccanismi
della speculazione finanziaria[15].
Sono proprio questi fattori, in ultima analisi, quelli che hanno determinato i
peggiori disastri dei paesi mediterranei, al contrario di quanto sostiene la
convinzione più diffusa, che li attribuisce all’ignoranza dei politici nella
gestione del bilancio pubblico.
Nonostante le misure possibili
per ogni governo nazionale di aggirare i dettami della finanza, è chiaro che
essi sono pur sempre limitati e che finché non esisterà un organismo politico
centrale e forte in Europa, non sarà possibile un governo politico
dell’economia, ma si dovrà sottostare ancora all’iniquo governo dell’economia
sulla politica, con tutte le conseguenze cui abbiamo fatto cenno, insieme a
molte altre.
Fortunatamente l’Europa non è un
processo concluso, ma è «un’avventura»[16]:
si tratta perciò non tanto di criminalizzarla, quanto piuttosto di tentare di
comprenderne la complessità e di ripensarla radicalmente, nei termini di
un’Europa sociale, attenta alle istanze della democrazia e alla costruzione di
un welfare universalistico e
sostenibile; un’Europa non soltanto economica, ma anche e soprattutto politica,
una comunità di nazioni che sappia superare l’angustia etnocentrica e xenofoba,
nel rispetto delle identità nazionali e dei diritti sociali di tutti i Paesi
membri.
Sarà forse allora che l’Unione
Europea sarà la giusta candidata al Nobel per la pace.
[1]
http://nobelpeaceprize.org/en_GB/laureates/laureates-2012/announce-2012/
(visitato il 28 marzo 2013).
[2]
M. De Leonardis, Chi ha garantito
veramente la pace in Europa negli ultimi 60 anni?, in «Radici cristiane»,
LXXX, Dicembre 2012, pp. 22-24.
[3]
Per i riferimenti storici cfr. G. Mammarella, Storia d’Europa dal 1945 a oggi, Laterza, Roma-Bari 20064,
pp. 143 e ss.
[4]
U. Beck, La crisi dell’Europa, Il
Mulino, Bologna 2012, p. 97.
[5]
Cfr. S. Natoli, Disoccupazione ai massimi
dal 2004 in Italia, ai minimi storici in Germania, «Il Sole 24 ore»,
31/01/2012: http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2012-01-31/istat-disoccupazione-dicembre-record-101355.shtml?uuid=Aa1hEwkE
(url visitato il 28 marzo 2013). La discrepanza è stata riconfermata anche
recentemente da un articolo su La stampa,
che non sono riuscito a rintracciare.
[6]
http://www.youtube.com/watch?v=X-0CcPXOpGE (url visitato il 28 marzo 2013).
[7]
Cfr. la celebre espressione roussoviana: «Il popolo inglese si crede libero, ma
è in grave errore; è libero solo durante l’elezione dei membri del parlamento;
appena avvenuta l’elezione, è schiavo; è niente»; J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, III, 15.
[8]
U. Beck, cit., p. 65. Su questo
argomento si veda anche il capitolo che discute il luogo comune secondo il
quale Non è possibile far cambiare linea
alla Merkel, in P. Ferrero, Pigs! La
crisi spiegata a tutti, DeriveApprodi, Roma 2012.
[9]
In Italia è stato promulgato da Giorgio Napolitano il 23 luglio 2012, dopo
l’approvazione di entrambe le camere. http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2012;114
(url visitato il 28 marzo 2013).
[10]
Ibidem.
[11]
Ivi, p. 66.
[12]
Enfasi mia; vedi il comma 3 dell’Articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea, così com’è stato modificato dal Trattato di Lisbona. http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2007:306:0010:0041:IT:PDF
(url visitato il 28 marzo 2013)
[13]
Così il documento Our common future,
1987, cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Sviluppo_sostenibile#Definizione_condivisa_di_sviluppo_sostenibile
(url visitato il 28 marzo 2013)
[14]
U. Beck, cit., p. 55.
[15]
Cfr. P. Ferrero, cit.
[16]
Z. Bauman, L’Europa è un’avventura,
Laterza, Roma-Bari 2006.
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