giovedì 5 agosto 2010

Il tempo spettacolare

Il tempo spettacolare*

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Il tempo della produzione, il tempo-merce, è una accumula­zione infinita di intervalli equivalenti. È l’astrazione del tempo irreversibile, di cui tutti i segmenti devono provare sul cronometro la loro sola uguaglianza quantitativa. Que­sto tempo è, in tutta la sua realtà effettiva, ciò che esso è nel suo carattere scambiabile. È in questo dominio sociale del tempo-merce che «il tempo è tutto, l’uomo non è niente; egli è tutt’al più l’incarnazione del tempo» (Miseria della filosofia). È il tempo svalorizzato, la completa inversione del tempo come «campo di sviluppo umano».


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Il tempo generale del non-sviluppo umano esiste anche sotto l’aspetto complementare di un tempo consumabile che ritorna verso la vita quotidiana della società, a partire da questa produ­zione determinata, come un tempo pseudo-ciclico.


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Il tempo pseudo-ciclico non è in realtà che il travestimento consumabile del tempo-merce della produzione. Esso ne contiene i caratteri essenziali di unità omogenee scambiabili e di soppressione della dimensione qualitativa. Ma poiché il sottoprodotto di questo tempo è destinato all’arretratezza della vita quotidiana concreta – e al mantenimento di questa arretratezza – deve essere caricato di pseudo-valorizzazioni e apparire in una successione di momenti falsamente indi­vidualizzati.


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Il tempo pseudo-ciclico è quello del consumo della soprav­vivenza economica moderna, la sopravvivenza aumentata, dove il vissuto quotidiano resta privato di decisione e sot­tomesso, non più all’ordine naturale, ma alla pseudo-natura sviluppata nel lavoro alienato; e così questo tempo ritrova del tutto naturalmente il vecchio ritmo ciclico che rego­lava la sopravvivenza delle società pre-industriali. Il tempo pseudo-ciclico poggia sulle tracce naturali del tempo ci­clico, e contemporaneamente ne compone nuove combina­zioni omologhe: il giorno e la notte, il lavoro e il riposo settimanale, il ritorno dei periodi di vacanze.


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Il tempo pseudo-ciclico è un tempo che è stato trasformato dall’industria. Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile, che rac­coglie tutto ciò che precedentemente si era differenziato, all’epoca della fase di dissoluzione della vecchia società unitaria, in vita privata, vita economica, vita politica. Tutto il tempo consumabile della società moderna viene a essere trattato come materia prima di nuovi prodotti diversificati che si impongono sul mercato come impieghi del tempo so­cialmente organizzati. «Un prodotto che esista in forma fi­nita e pronta per il consumo può tornare a divenire materia prima di un altro prodotto.» (Il Capitale)


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Nel suo settore più avanzato, il capitalismo concentrato si orienta verso la vendita di blocchi di tempo “tutto organiz­zato”, ognuno dei quali costituisce una sola merce unificata, che ha incorporato un certo numero di merci diverse. È così che può comparire, nell’economia in espansione dei “ser­vizi” e del tempo libero, la formula di pagamento “tutto compreso”, per l’insediamento spettacolare, gli pseudo-spo­stamenti collettivi delle vacanze, l’abbonamento al con­sumo culturale, e la vendita della sociabilità stessa in “con­versazioni appassionanti” e “incontri con personalità”. Que­sto genere di merce spettacolare, che evidentemente non può aver corso se non in funzione della penuria accresciuta delle realtà corrispondenti, figura altrettanto evidentemente tra gli articoli-pilota della modernizzazione delle vendite, essendo pagabile a credito.


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Il tempo pseudo-ciclico consumabile è il tempo spettaco­lare, contemporaneamente come tempo del consumo delle immagini, nel senso stretto del termine, e come immagine del consumo del tempo, in tutta la sua estensione. Il tempo del consumo delle immagini, medium di tutte le merci, è in­separabilmente il campo dove si esercitano appieno gli strumenti dello spettacolo, e il fine che questi presentano globalmente, come luogo e come figura centrale di tutti i consumi particolari: si sa che i risparmi di tempo costante­mente ricercati dalla società moderna – che si tratti della velocità dei trasporti o dell’uso delle minestre in polvere – si traducono positivamente per la popolazione degli Stati Uniti nel fatto che la contemplazione della televisione le occupa da sola da tre a sei ore al giorno di media. L’imma-gine sociale del consumo del tempo, da parte sua, è domi­nata esclusivamente dai momenti di tempo libero e di va­canze, momenti rappresentati a distanza e desiderabili per postulato, come ogni merce spettacolare. Questa merce viene qui esplicitamente data come il momento della vita reale, di cui si tratta di attendere il ritorno ciclico. Ma in questi stessi momenti assegnati alla vita, è ancora lo spetta­colo che si dà da vedere e da riprodurre, raggiungendo un grado più intenso. Ciò che è stato rappresentato come la vita reale si rivela semplicemente come la vita più real­mente spettacolare.


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Quest’epoca che mostra a sé stessa il suo tempo come un tempo che è essenzialmente il ritorno precipitoso di un gran numero di festività, è lo stesso un’epoca senza festa. Ciò che, nel tempo ciclico, era il momento della partecipazione di una comunità alla spesa lussuosa della vita, è impossibile per la società senza comunità e senza lusso. Quando le sue pseudo-feste volgarizzate, parodie del dialogo e del dono, spingono a un supplemento di spesa economica, non ricon­ducono che la delusione sempre compensata dalla promessa di una delusione nuova. Nello spettacolo, il tempo della so­pravvivenza moderna deve lodarsi tanto più apertamente quanto più si è ridotto il suo valore d’uso. La realtà del tempo è stata sostituita dalla pubblicità del tempo.


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Mentre il consumo del tempo ciclico delle società antiche era in accordo con il lavoro reale di quelle società, il con­sumo pseudo-ciclico dell’economia sviluppata si trova in contraddizione con il tempo irreversibile astratto della sua produzione. Mentre il tempo ciclico era il tempo dell’illu-sione immobile, vissuto realmente, il tempo spettacolare è il tempo della realtà che si trasforma, vissuto illusoriamente.


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Ciò che è sempre nuovo nel processo della produzione delle cose non si ritrova nel consumo, che rimane il ritorno allar­gato dello stesso. Poiché il lavoro morto continua a domi­nare il lavoro vivente, nel tempo spettacolare il passato do­mina il presente.


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Come altro lato della deficienza della vita storica generale, la vita individuale non ha ancora storia. Gli pseudo-avve­nimenti che si affollano nella drammatizzazione spettaco­lare non sono stati vissuti da coloro che ne sono informati; e inoltre si perdono nell’inflazione della loro sostituzione precipitosa, a ogni pulsione del macchinario spettacolare. D’altra parte, ciò che è stato realmente vissuto è senza rela­zione con il tempo irreversibile ufficiale della società, e in opposizione diretta col ritmo pseudo-ciclico del sottopro­dotto consumabile di questo tempo. Questo vissuto indivi­duale della vita quotidiana separata resta senza linguaggio, senza concetto, senza accesso critico al proprio passato che non è registrato da nessuna parte. Esso non si comunica. È incompreso e dimenticato a vantaggio della falsa memoria spettacolare del non-memorabile.


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Lo spettacolo, come organizzazione sociale presente della paralisi della storia e della memoria, dell’abbandono della storia che si erige sulla base del tempo storico, è la falsa coscienza del tempo.


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La condizione preliminare per portare i lavoratori alle con­dizioni di produttori e consumatori “liberi” del tempo-merce è stata l’espropriazione violenta del loro tempo. Il ritorno spettacolare del tempo è divenuto possibile solo a partire da questo primo spossessamento del produttore.


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Le parti irriducibilmente biologiche che restano presenti nel lavoro, sia nella dipendenza dal ciclo naturale della veglia e del sonno che nell’evidenza del tempo irreversibile indivi­duale dell’usura di una vita, non sono che accessorie ri­spetto alla produzione moderna; e come tali questi elementi vengono trascurati nelle proclamazioni ufficiali del movi­mento della produzione, e dei trofei consumabili che sono la traduzione accessibile di questa incessante vittoria. Im­mobilizzata nel centro falsificato del movimento del suo mondo, la coscienza spettatrice non conosce più nella sua vita un passaggio verso la sua realizzazione e verso la sua morte. Chi ha rinunciato a spendere la propria vita non deve più ammettere la propria morte. La pubblicità delle assicu­razioni sulla vita insinua soltanto che è colpevole morire senza aver assicurato la regolazione del sistema dopo que­sta perdita economica; e quella dell’american way of death insiste sulla propria capacità di conservare in questo fran­gente la maggior parte delle parvenze della vita. Su tutto il resto del fronte dei bombardamenti pubblicitari, è categori­camente proibito invecchiare. Si tratterebbe di ammini­strare, in ciascuno, un “capitale-gioventù” che tuttavia, per non essere stato impiegato che mediocremente, non può pretendere di acquistare la realtà durevole e cumulativa del capitale finanziario. Questa assenza sociale della morte è identica all’assenza sociale della vita.


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Il tempo è l’alienazione necessaria, come Hegel dimostrava, il terreno dove il soggetto si realizza perdendosi, diviene altro per divenire la verità di sé stesso. Ma il suo contrario è preci­samente l’alienazione dominante, che è subita dal produttore di un presente estraneo. In questa alienazione spaziale, la società che separa alla radice il soggetto e l’attività che gli sottrae, lo separa innanzi tutto dal suo tempo. L’alienazione sociale superabile è proprio quella che ha interdetto e pietrifi­cato le possibilità e i rischi dell’alienazione vivente nel tempo.


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Sotto le mode apparenti che si annullano e si ricostitui­scono alla futile superficie del tempo pseudo-ciclico contemplato, il grande stile dell’epoca è sempre in ciò che è orientato dalla necessità evidente e segreta della rivoluzione.


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La base naturale del tempo, il dato sensibile dello scorrere del tempo, diviene umano e sociale esistendo per l’uomo. È lo stato limitato della pratica umana, il lavoro a stadi diversi, che ha fino a oggi umanizzato, e quindi disumanizzato, il tempo, come tempo ciclico e tempo separato irreversibile della produzione economica. Il progetto rivoluzionario di una società senza classi, di una vita storica generalizzata, è il progetto di un deperimento della misura sociale del tempo, a favore di un modello ludico di tempo irreversibile degli individui e dei gruppi, modello del quale sono simultaneamente presenti dei tempi indipendenti federati. È il programma di una realizzazione totale, sul terreno del tempo, del comunismo che sopprime «tutto ciò che esiste indipendentemente dagli individui».


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Il mondo possiede già il sogno di un tempo di cui deve ora possedere la coscienza per viverlo realmente.

*cap. 6 de La società dello spettacolo di Guy Debord. Il testo completo lo si trova su http://www.marxists.org/italiano/sezione/filosofia/debord/societa-spettacolo.htm#6

lunedì 2 agosto 2010

Libertà condizionata

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Pubblico la mia tesina di maturità. Ci sono degli errori di battitura.
Libertà condizionata
Una possibile sintesi tra i condizionamenti biologici e sociali del comportamento e la libertà dell'individuo
I
Le determinanti endogene dell'Io


I geni influenzano il nostro essere e il nostro comportamento. E' questa una tesi che ormai è stata ampiamente dimostrata e che nessuno ormai può più permettersi, razionalmente, di mettere in discussione. Il DNA è ciò che rende ciascun individuo diverso da un altro: è ciò che stabilisce la nostra identità. Nella nostra libertà, noi siamo limitati da ciò che i nostri geni ci hanno, in un certo senso, prescritto e ci determinano ad essere. Ciononostante non è esatto ritenere che tutto ciò che noi siamo sia già scritto nel nostro genoma, cioè sia implicito nel materiale biologico che ereditiamo dai nostri genitori. E' questa una questione assai complessa, sulla quale è tuttora acceso un vivo dibattito tra scienziati e filosofi, e non posso certo supporre di essere esaustivo nella mia breve trattazione, ma vediamo i punti salienti della questione.
Nel XIX secolo alcuni scienziati positivisti tentarono di dimostrare come supposte differenze biologiche fossero delle barriere immutabili che impedivano lo sviluppo di una società più egualitaria. Il darwinismo ben presto si trasformò in «darwinismo sociale», utilizzato come metodo pseudoscientifico per giustificare le differenze economiche tra gli strati della società e tra le popolazioni e il colonialismo. Nel XX secolo questa pseudobiologia è stata utilizzata per servire la causa della supremazia dell'uomo bianco o della razza ariana. Più recentemente, la psicologia evolutiva è diventata, nelle mani di qualcuno, una fonte di per ammettere il patriarcato1.
Queste teorie purtroppo non sono mai state abbandonate, hanno semmai cambiato faccia, e sono alla base delle presunte spiegazioni di qualsiasi tipo di comportamento umano, dall'omosessualità alla depressione, alla violenza, alla criminalità. Addirittura c'è chi millanta di aver individuato un gene per la condizione di senza tetto. Si potrebbe pensare che questi estremi non vengano nemmeno tenuti in considerazione dalla comunità scientifica che, si crede, insegue con razionalità la ricerca della «verità». Eppure, coloro che propugnano queste grottesche teorie sono scienziati ricercatori ai quali è tributato il massimo rispetto ed il diritto di pubblicare i risultati delle loro ricerche su «Science», una delle più autorevoli riviste specialistiche in ambito scientifico.
Esattamente come proposto dall'ambiziosa utopia positivista espressa da Zola ne Il romanzo sperimentale (secondo la quale la scienza avrebbe portato alla completa conoscenza ed al completo dominio della natura, risolvendo ogni problema, soprattutto sociale2), le politiche della Rockefeller Foundation, in seno alla quale nacque negli anni Trenta quella disciplina che ha preso il nome di biologia molecolare, erano orientate – come ebbe a sostenere uno dei direttori della fondazione - «verso il problema generale del comportamento umano, con lo scopo di comprenderlo e quindi controllarlo. (…) La Scienza medica e le Scienze naturali propongono uno studio strettamente coordinato delle scienze che si occupano della comprensione della persona e del suo controllo»3. Ancora, nel 1968, l'eroe dei movimenti contro la guerra e per una sanità alternativa, vincitore di due premi Nobel, uno per la chimica e uno per la pace, Linus Pauling, ebbe a proporre: «...si dovrebbe tatuare sulla fronte di tutti i giovani un simbolo che denunci il possesso del gene per l'anemia falciforme o di qualsiasi altro gene simile... E' mia opinione che dovrebbero essere adottati una legislazione in questo senso, l'obbligo di sottoporsi a un test per l'individuazione dei geni difettosi prima del matrimonio e qualche modo per rendere pubblico o semipubblico il possesso di tali geni»4. Il direttore di «Science», alla domanda «perché dovremmo spendere soldi per il Progetto Genoma quando ci sono tante persone senza casa e senza lavoro?» rispose: «Il Progetto Genoma è più importante per quelle persone che per chiunque altro perché l'essere senza casa e senza lavoro sono una forma di handicap che sarà possibile curare una volta che si conosceranno a fondo i geni»5.
Queste dichiarazioni eugenetiche di sapore nazista sembrano affermare – o di fatto affermano – che la scienza sarà ben presto in grado di fornirci tutte le spiegazioni per ogni particolare dell'esistenza umana e del comportamento e quindi di curare ogni male sociale. E allora si potrà giungere, seguendo questa visione delle cose, alla creazione di una società perfetta che potrà essere come quella auspicata da Zola o come quella immaginata da Aldous Huxley nel suo Brave new world, pubblicato nel 1932, in cui è descritto uno stato la cui stabilità sociale è assicurata da processi di condizionamento nei confronti di feti in fase si incubazione; tramite questi condizionamenti essi sono determinati ad assumere un certo ruolo nella società e a comportarsi in un certo modo, senza che, grazie al loro modello mentale derivato dai condizionamenti, abbiano di che lamentarsi o ragioni per usare violenza.
La neurogenetica, una nuova scienza nata dalla sintesi fra gli studi genetici e quelli neurologici, offre la prospettiva di identificare i geni che influiscono sulle funzioni cerebrali e quindi sul comportamento, ascrivendo loro un potere causale e alla fine modificandoli. La neurogenetica afferma di essere in grado di rispondere a questa domanda: in un mondo pieno di sofferenza individuale e di disordine sociale, dove dovremmo guardare non soltanto per spiegare, ma, ancor di più, per cambiare la nostra condizione?
La più naturale risposta ad una simile domanda, se priva delle premesse strettamente deterministiche che i neurogenetisti avanzano, sarebbe che la soluzione va ricercata in un affinamento delle leggi che regolano la vita sociale. Nel corso dei secoli il compito di risolvere questi problemi è stato affidato alla politica e alle scienze sociali, sempre più sofisticate e complesse. Oggi sembra che questa speranza non sia più sensata, tant'è che non si è mai venuti, in nessuna epoca storica e in nessun contesto sociale, a capo di queste problematiche. La soluzione è dietro l'angolo. Ed è solo questione di scienza. Del resto, se sono i geni a stabilire che cosa noi siamo e saremo, perché non dovrebbe darsi la possibilità di comprendere tutto solo in base ad essi? E se non sono i geni a comandare tutto quanto, che cos'altro potrebbe essere?
«Noi siamo macchine per la sopravvivenza, veicoli robotici ciecamente programmati per conservare molecole egoiste note come geni». Questa lapidaria affermazione6 è opera dell'autore dell'ormai celebre Il gene egoista, Richard Dawkins, le cui teorie non cessano di fomentare accese discussioni tra scienziati e filosofi. Secondo Dawkins, essendo il genoma l'unica parte molecolare dell'individuo che si replica e trasmette di generazione in generazione, la selezione naturale darwiniana (che, com'è noto, è alla base dell'evoluzione degli organismi) non può che agire su esso e in base ad esso. Da ciò segue che tutto ciò che permette ad un essere della biosfera di essere competitivo, di vincere nella lotta per la sopravvivenza e di non essere impedito ad esistere dalla sua stessa costituzione biologica, è il genoma. Dawkins afferma che i geni compiono due differenti funzioni: condizionano lo sviluppo embrionale di ciascun individuo (si intenda individuo nell'ampio senso di «essere vivente») e si auto-replicano lungo la discendenza di differenti individui. I geni hanno evolutivamente successo, oppure falliscono, a seconda degli effetti che essi hanno sullo sviluppo embrionale. Ciascuna creatura esistente discende da un'ininterrotta serie di antenati che hanno avuto successo, ed ereditano ciò che ha permesso loro di avere questo successo. Per poter essere trasmessi, fra tutte le insidie dovute a mutazioni e/o malattie, i geni hanno determinato l'evoluzione di sempre più complessi meccanismi che restino in vita e si riproducano: macchine per la sopravvivenza. Dawkins ammette che, come vedremo in seguito, non esiste una diretta corrispondenza tra genotipo (ossia l'insieme dei geni) e fenotipo (ossia l'insieme delle caratteristiche esteriori dell'organismo) ed ammette che sia perfettamente possibile che i geni abbiano solo un'influenza statistica sul comportamento umano e che questa influenza possa essere modificata del tutto o in parte da altre influenze; tuttavia, egli continua a vedere il mondo «con l'occhio del gene», per utilizzare un'espressione di Steven Rose, che risulta essere, per lui, l'unica «entità» in grado di stabilire quali saranno le caratteristiche immutabili dell'organismo (per fare qualche semplice esempio: il colore degli occhi, o la predisposizione a certe malattie genetiche, come l'anemia falciforme, o, infine, la possibilità di sopravvivere) e l'unico livello, come dicevo, a cui agisce la selezione naturale.
A questa sua visione si oppongono in molti, primo fra tutti, forse, in campo scientifico, Brian Goodwin, che, anche a causa della sua formazione di embriologo, propone una visione diversa7. Egli riprende la distinzione tra meccanismo e organismo proposta nel XVIII secolo da Immanuel Kant. Un meccanismo, per il filosofo settecentesco, è un'unità funzionale le cui parti esistono indipendentemente dalle altre; un organismo, invece, è un'unità funzionale e strutturale, in cui le parti esistono in reciproca relazione. Ciò significa che le parti di un organismo, come gli occhi, il cervello, le labbra o i fiori, le foglie e le radici, non sono sono pre-esistenti e successivamente assemblate in un'unità funzionale, come in una macchina. Essi sono prodotti dall'attività dell'organismo stesso, che è auto-generante (self-generating). Questa attività è il processo chiamato sviluppo, ossia la trasformazione delle uova fertilizzate in un tutto funzionante con una specifica struttura che può essere descritta in termini di particolari disposizioni di parti distinte.
Conoscendo la struttura genomica di un organismo – afferma Goodwin - non possiamo comprenderne la complessità strutturale, così come conoscendo la composizione dei pianeti certamente non possiamo spiegarne il moto ellittico intorno al sole: la sostanza raramente spiega la forma.
Come esempio di sviluppo di un organismo Goodwin porta quello di Acetabularia acetabulum, un'alga che durante il proprio ciclo di vita sviluppa delle strutture (verticilli) che sono poi eliminate e non svolgono alcuna funzione vitale. Alcuni studi hanno mostrato che Acetabularia può crescere perfettamente e anche riprodursi senza produrre questi verticilli. Perché dunque si sviluppano? La risposta, afferma Goodwin, può essere molto semplice: essi sono prodotti perché l'organizzazione dinamica del sistema tipicamente li produce. I geni giocano un ruolo importante nell'organizzazione dinamica, ma poi l'organizzazione del sistema va oltre e porta alla produzione di verticilli senza ulteriori cambiamenti nei parametri, e la morfogenesi guida l'organismo verso una forma generica nel morfospazio, ossia lo spazio delle forme potenziali. La comparsa di verticilli è la robusta conseguenza della tipica morfogenesi di un particolare tipo di organismo, dovuta alla sua organizzazione di base. Quindi, Acetabularia ha i verticilli non perché sono utili (adattati), ma perché essi sono tipici dell'organizzazione dell'ordine dal quale essi derivano. Differenze genetiche possono risultare come variazioni su questo tema; ma oltre una certo raggio di cambiamenti genetici l'intera sequenza morfogenetica cambia e si sviluppa una differente forma generica. Questo è ciò che definisce un altro gruppo tassonomico. L'evoluzione a questo livello è la trasformazione di forme generiche.
Perciò, secondo il punto di vista di Goodwin, gli organismi non sono «macchine per la sopravvivenza» costruita da «geni egoisti», macchine il cui comportamento è dettato dalla selezione naturale; bensì, essi sono unità auto-generanti (self-generating wholes). Le proprietà e le funzioni del DNA, così come la selezione naturale, vanno studiati – secondo questo scienziato – nel contesto di una teoria dell'organismo e del suo ciclo di vita, irriducibile ai geni ed ai loro prodotti, con proprietà che non sono spiegabili unicamente in base alla selezione naturale.
Come sottolinea Steven Rose, dato che ogni organismo vive in quattro dimensioni, esso «deve al contempo essere e divenire», perciò occorre «sostituire la concezione dei sistemi biologici statica, riduzionistica, incentrata sul DNA, con un'enfasi sulle dinamiche della vita»8.
Non vi è, infatti, un percorso lineare tra gene e organismo. L'espressione di gran parte dei geni può essere modificata a parecchi livelli. Essa dipende dalle altre parti del genoma di quel particolare organismo, dall'ambiente cellulare, dall'ambiente extracellulare e, nel caso di organismi pluricellulari, dall'ambiente esterno all'organismo. I geni non sono stabili bits di informazioni che possono essere inseriti ed esprimere se stessi indipendentemente dal contesto. Se cambi il contesto, cambi il gene. Ci sono particolari casi in cui sembra che questo non accada: se metti un gene umano in un virus puoi ottenere insulina, ma ci sono casi negli Stati Uniti in cui si è verificato che l'insulina così ottenuta non funziona come dovrebbe9.
Inoltre, potrebbero esservi molte vie alternative che la cellula e l'organismo possono adottare nel corso dello sviluppo giungendo a un punto di arrivo essenzialmente identico10. Ad esempio i batteri che normalmente non possiedono gli enzimi necessari per metabolizzare il lattosio li sintetizzano quando la loro fonte di nutrimento viene limitata a questo solo zucchero, in sede di sperimentazione. I batteri, naturalmente, contengono già le sequenze di DNA necessarie per produrre l'enzima lattasi, ma in circostanze normali esse sono disattivate, e vengono attivate solo da segnali emessi dall'interno della cellula la quale, attraverso la membrana cellulare, percepisce che l'ambiente è ricco di lattosio e povero di glucosio. E' dunque l'organismo in interazione con il proprio ambiente a determinare quali dei suoi geni disponibili dovranno essere attivati in ciascun momento. I geni da soli non hanno nessun potere.
Richard Lewontin ha fatto osservare che in Drosophila (il famoso moscerino della frutta, modello sperimentale dei genetisti), ritenuta bilateralmente simmetrica, come risultato di eventi di sviluppo casuali il numero di setole di una zampa da un lato del corpo può non corrispondere a quello della zampa opposta. E ciò che è vero per il ruolo della contingenza nello sviluppo di Drosophila è certamente vero per l'essere umano. Per esempio, i gemelli identici hanno DNA identico, tuttavia dal momento del concepimento e della divisione cellulare la collocazione di due embrioni rispetto alla placenta e all'ambiente uterino influisce sul loro sviluppo in modo casuale. La divergenza di sviluppo aumenta sia a ogni divisione cellulare, sia dopo la nascita con tutte le esperienze avute casualmente da ciascun gemello. Se la contingenza fa parte dei fattori che danno forma allo sviluppo di qualsiasi singolo organismo, ciò vale ancora di più quando consideriamo il ruolo del caso e degli eventi casuali nei processi dell'evoluzione. E' appunto questa combinazione di prevedibilità e imprevedibilità che contraddistingue i sistemi biologici e i processi vitali11.
Quanto il riduzionismo genetico sia però prevalente nell'opinione pubblica non solo scientifica si può evincere anche dalle reazioni che il recente esperimento del J. Craig Venter Institute ha suscitato: il gruppo di studiosi di questo istituto il 20 maggio 2010 ha pubblicato su «Science» un articolo dal titolo «Creation of a Bacterial Cell Controlled by a Chemically Synthesized Genome» (Creazione di una cellula batterica controllata da un genoma sintetizzato chimicamente)12, annunciante la sintesi e l'assemblamento di un genoma quasi del tutto identico a quello di un batterio chiamato Mycoplasma mycoides a partire dall'informazione digitalizzata di una sequenza genomica. Questo DNA sintetico è stato immesso in un batterio Mycoplasma capriolum privato del suo proprio DNA e che, in seguito all'inserzione della nuova doppia elica prodotta artificialmente, si è trasformato in un Mycoplasma mycoides.
Inserire geni sintetici all'interno di virus o animali da laboratorio è una pratica ormai ben conosciuta da alcune decine di anni. La novità dell'esperimento del Venter Institute consiste dunque unicamente nel fatto che il DNA è stato trapiantato interamente ed è completamente sintetico, ma va detto che nessun gene è stato «inventato», essendo questo genoma la copia sintetica di un DNA naturale, appartenente ad un batterio. Inoltre è chiaro che il DNA è stato inserito in una cellula già esistente e naturale, senza la quale il prodigioso prodotto del computer non avrebbe avuto assolutamente nessuna proprietà.
Questo esperimento è stato salutato come evento rivoluzionario ed è stato amplificato da tutti i maggiori quotidiani e periodici occidentali: il New Scientist, periodico londinese di divulgazione scientifica, parla di «Immaculate creation: birth of the first synthetic cell» (Creazione immacolata: nascita della prima cellula sintetica); l'Economist, forse il più esagerato, ha intitolato il suo articolo sull'argomento «And man made life. Artificial life, the stuff of dreams and nightmares, has arrived» (E l'uomo creò la vita. La vita artificiale, oggetto di sogni e incubi, è arrivata); il New York Times annuncia che «Researchers Say They Created a ‘Synthetic Cell’» (I ricercatori dicono di aver creato una 'cellula sintetica'); anche il Wall Street Journal deifica gli scienziati scrivendo «Scientists Create Synthetic Organism» (Gli scienziati creano un organismo sintetico); analogamente la BBC news parla di «Artificial life» ed anche in Italia il panorama è simile: Repubblica annuncia «Creata cellula che si riproduce. Più vicina la vita artificiale»; il Corriere della Sera parla di «svolta epocale», «Ecco l'inizio della vita artificiale. Costruita la prima cellula» ed in un altro articolo afferma che «Ora la cellula non ha più segreti»13.
Unica voce moderata è quella della prestigiosa rivista britannica «Nature», la quale ha pubblicato un articolo contenente l'opinione di otto esperti. Tra questi un genetista della Harvard Medical School il quale sottolinea che «fare una copia di un vecchio testo non significa comprenderne il linguaggio», cioè fare una copia sintetica di un DNA «ci dice poco sulla vita» e su come questa funzioni. Jim Collins, professore di ingegneria biomedica all'università di Boston, invita a star tranquilli: l'esperimento di Venter non è la creazione di una vita artificiale. «Il microorganismo riportato dal gruppo di Venter – scrive Collins – è sintetico nel senso che il suo DNA è sintetico, non nel senso che una nuova forma di vita è stata creata. Il suo genoma è una copia del DNA di un organismo che esiste in natura, con alcune piccole differenze. […] Francamente, gli scienziati non ne sanno abbastanza di biologia per poter creare la vita»14.
Tutto questo mostra come ancora oggi il punto di vista predominante in ambito scientifico sia quello dell' «occhio del gene», del riduzionismo che vuole che la vita sia tutta in una doppia elica di nucleotidi. Questa metafisica del gene porta alla mitizzazione dell'onnipotente molecola, alla quale vengono attribuite potenzialità che essa non ha. Come ha sottolineato in un'intervista Richard Lewontin, genetista di fama mondiale e fiero oppositore del riduzionismo, «anche se avessi la sequenza completa del DNA di un organismo, se non conoscessi la sequenza degli ambienti in cui l'organismo si sviluppa, non potrei sapere quale aspetto avrebbe quell'organismo»15. Ma nemmeno l'ambiente può servire da spiegazione sufficiente: la differenza, per esempio, tra le impronte digitali della mano destra e della mano sinistra non può essere spiegata né a livello gentico (i geni sono gli stessi per entrambe le mani), né a livello ambientale (l'ambiente in cui le due mani si sono sviluppate è lo stesso, cioè l'utero materno). Come si spiega allora una differenza come questa? Semplicemente non si spiega. Lewontin afferma che «durante lo sviluppo di un organismo probabilmente accade qualcosa a livello di movimenti evolutivi casuali, divisioni di cellule che si verificano per caso, su un lato piuttosto che sull'altro, e che non sono determinati né dai geni né dall'ambiente nell'accezione comune del termine, ma che incidono in maniera rilevante sull'aspetto finale dell'organismo».
Quando si parla poi di esseri umani, che è la questione che maggiormente ci interessa, la questione si fa ancora più ardua, a causa dell'estrema complessità del nostro sistema nervoso. Le connessioni sinaptiche si sviluppano in buona parte in maniera pressoché casuale, e ciò determina (in un certo senso) il nostro essere, senza nessuna influenza genetica. Addirittura J. C. C. Smart ha dichiarato di credere che il libero arbitrio risieda proprio in queste struttre: «il libero arbitrio secondo me dipende dal numero spaventoso di connessioni sinaptiche del nostro cervello; noi abbiamo 1011 cellule, ciascuna ha circa 10000 connessioni, quindi 1015 connessioni. Se dunque esiste il libero arbitrio, e secondo me esiste una maggior o minor libertà d’arbitrio, esso è racchiuso nel numero delle connessioni. I geni sono in grado di determinare alcune delle proprietà dei neuroni, della loro organizzazione in strutture macro e microscopiche e una quota rilevante ma non totale delle connessioni: tutto quello che la nostra biologia e la nostra eredità non specificano, può essere specificato sia dalla nostra storia (ma questo è un altro condizionamento), sia in una grossa percentuale dal caso, sia forse da quello che noi chiamiamo “libero arbitrio”»16.
Alla base della vita sta dunque la complessità, e la biologia non può ignorarla. L'espressione dei geni, l'ambiente cellulare ed extra-cellulare, nonché l'ambiente esterno all'organismo sono relazionati tra loro in una rete inestricabile: non vi è unidirezionalità causale; i livelli microscopici condizionano e sono condizionati dai livelli superiori. È questo, ad esempio, il caso dello stress17. L'idea di dover sostenere l'esame di maturità può provocare stress, il che significa che può provocare l'attivazione di un gene (situato sul cromosoma 10) che produce un enzima il cui compito è quello di ottere, tra l'altro, il cortisolo dal colesterolo. Il cortisolo poi va ad attivare altri geni, che si trovano nelle cellule provviste di recettori specifici, attivati a loro volta da qualche altro innesco. I geni attivati dal cortisolo attivano ancora altri geni ecc.
Così possiamo dire che l'idea dell'esame ha provocato lo stress, cioè lo produzione di cortisolo, ma possiamo altresì dire che la produzione di cortisolo ha provocato lo stress. Tutta questa rete di interazioni è bel lungi dal poter essere ridotta alla sola azione del gene.
Vediamo ora come tutta questa faccenda di determinanti biologiche si relazioni con la nostra libertà. Abbiamo visto, seguendo i passi della scienza, che il nostro essere non è interamente determinato dai geni, ma dal risultato dell'interazione tra questi e l'ambiente circostante, laddove per «ambiente» si consideri ciò che va dall'intracellulare all'extracorporeo. Nonostante questo, la libertà è ancora lungi dall'essere salvata dalle catene del determinismo; sembra piuttosto, (per il momento), che queste siano inestricabili e che noi non possiamo fare alcunché di diverso rispetto a quanto tutto questo rapporto tra geni e «ambiente» ci costringe a fare. Questo anche se la contingenza ha il suo ruolo nel nostro sviluppo: ciò che è contingente non è necessario, ma pur sempre necessitato, cioè determinato da una specifica causa.
Trovo che i filosofi cosiddetti «libertari», ossia coloro che affermano che non può esistere libertà in un universo deterministico, ma che questa libertà esiste poiché l'universo è indeterministico (e dicendo questo si basano sulle teorie della fisica quantistica, andando a cercare o a postulare una componente indeterministica all'interno dei processi decisionali per assumere che questi siano liberi18), facciano confusione tra il significato del termine indeterminato con quello di indeterminabile. Possiamo dire che un fenomeno è indeterminato solo nel senso che non potevamo basarci su nessuna legge per prevederlo, cioè il suo verificarsi non è determinato da alcuna legge che noi conosciamo o che possiamo dare. Ma sarebbe più corretto dire che tale fenomeno è indeterminabile, piuttosto che indeterminato, non necessario, ma comunque necessitato, poiché non esiste alcun fenomeno che non abbia una causa, o, se vogliamo dirlo più da filosofi, non esiste nessun fenomeno che non segua ad un altro fenomeno, poiché tutti i fenomeni sono correlati, anche se non ammettiamo una necessità logica nella causalità19.
Prima di cercare di capire in che senso, allora, possiamo dirci liberi, vediamo quali altre catene ci tengono imbrigliati: le determinanti ambientali, sociali e geografiche.







II
Le determinanti esogene dell'Io


Ciascun individuo vive in comunità, sia esso un virus o un animale, e condiziona ed è condizionato da questa. Ciò che a noi interessa, in merito alla questione del libero arbitrio, è la vita sociale dell'uomo e come questa condizioni il suo essere.
Il primo condizionamento è sicuramente dovuto al dove si nasce, che dipende dalla storia di tutti i nostri antenati, fino al più lontano. E' evidente, infatti, che chi nasce in un paese sottosviluppato ha delle possibilità ben diverse rispetto a uno che nasce in un paese ricco e sviluppato, e chi nasce in un quartiere povero è condizionato diversamente da chi nasce in una ricca famiglia e vive in centro città.
Parlando di libertà, dobbiamo considerare le possibilità di un agente, poiché la libertà si esplica solo nell'ambito del possibile. Perciò se differenze geografiche implicano diversi insiemi di possibilità, significa che esse forniscono diversi tipi di libertà. E se esistono diversi tipi di libetà, significa che questa non è mai assoluta, ma sempre condizionata, cioè limitata. Per esempio un bambino che nasce in una zona poverissima di uno stato africano non sarà libero di andare a scuola e di studiare, perché non ne avrà la possibilità. Questa considerazione pone una questione morale molto importante: se ci fosse giustizia, tutti dovrebbero avere la stessa libertà all'interno del raggio del possibile e entro i confini dei condizionamenti ineluttabili. Per capirci, tutti dovrebbero avere la possibilità di studiare se lo desiderano, anche se nessuno potrà mai avere la possibilità di volare agitando le braccia (perché questo è ovviamente un condizionamento ineluttabile).
A seconda del luogo in cui ciascuno nasce, poi, si avranno altri condizionamenti dovuti all'ambiente circostante: ambiente sia in senso morfologico che in senso sociale. Per esempio, io non sono libero di prendere il sole in spiaggia tutti i giorni, perché sono nato nell'entroterra. Ma questi condizionamenti, oltre che ad essere ovvi, non sono considerati limitazioni alla nostra libertà d'arbitrio che si considera rilevante, giustamente, se implica libertà di scelta tra tutto ciò che è per noi possibile. Avendo visto nel precedente capitolo che la nostra costituzione biologica stabilisce il punto di partenza per il nostro essere, dobbiamo ora considerare se noi siamo liberi all'interno delle possibilità (molto ampie) che i nostri geni e il nostro organismo ci lasciano.
Fuori dal nostro organismo c'è l'ambiente, la società. Tutti noi nasciamo e veniamo allevati da una famiglia, all'interno della quale iniziamo a sperimentare la realtà e dalla quale riceviamo le direttive sul nostro comportamento, che noi introiettiamo ritenendole giuste o per lo meno necessarie al soddisfacimento dei nostri bisogni (se mi comporto come dice Mamma poi lei mi darà qualcosa in cambio). All'interno della famiglia apprendiamo anche il linguaggio che ci permetterà di relazionarci con persone esterne al nucleo famigliare negli anni della nostra infanzia e poi per tutta la vita. Da tutti questi individui avrò modo di apprendere qualcosa e, a seconda di quel che io ho imparato a considerare giusto e importante, cercherò di imitare il comportamento e condividerò le idee di chi mi sembra essere migliore di altre persone.
Tutto questo è frutto di libere scelte? Non sembra: io non ho scelto i miei genitori, e tutto quello che da loro ho appreso e introiettato nei primi mesi o anni di vita non ho potuto vagliarlo criticamente poiché non avevo nessuna conoscenza a priori che mi permettesse di giudicare. E tutto ciò che ho appreso dopo non ho deciso di apprenderlo, ma, come direbbero a Napoli, «sono stato imparato», nel senso che tutto ciò che ho vissuto (per caso o perché obbligato da qualcosa o qualcuno) mi ha condizionato a divenire un essere che giudica in un determinato modo e critica in un determinato modo. L'educazione e l'esperienza mi hanno plasmato.
Anche in questo caso non c'è unidirezionalità causale: l'educazione che abbiamo ricevuto condiziona l'esperienza e l'esperienza può modificare ciò che abbiamo appreso per educazione dai genitori. La nostra volontà comunque è condizionata da ciò che abbiamo appreso per una di queste due vie e che ci porta a preferire una cosa piuttosto che un altra.
Il dialogo Della libertà di Voltaire aiuta a chiarire l'argomento20.

A – Ecco una batteria di cannoni che tira vicino alle nostre orecchie: avete la possibilità di udirla o di non udirla?
B – Certo che non posso fare a meno di udirla.
A – Volete che quel cannone porti via la testa a voi, a vostra moglie e a vostra figlia che passeggiano con voi?
B – Che discorso mi fate? Io non posso, finché avrò il cervello a posto, volere una cosa simile: ciò è impossibile.
A – Bene: voi udite necessariamente questo cannone, e necessariamente non volete morire, voi e la vostra famiglia, di un colpo di cannone mentre passeggiate. Voi non avete né il potere di non udire, né il potere di voler restare qui.

Perché B non avrebbe potuto voler restare a prendersi le cannonate? Perché preferiva non morire, dato che era felice con la sua famiglia e amava la figlia. Ma se avesse avuto esperienze terribili nella sua vita e se queste lo avessero spinto a preferire la morte alla vita, egli non avrebbe potuto voler scappare dalle cannonate.

A – E in che cosa consiste allora la vostra libertà, se non nel potere, che la vostra persona ha esercitato, di fare ciò che la vostra volontà esigeva per assoluta necessità?
(…)
B – Come? Non sono libero di volere quello che voglio?
(…)
A – Col vostro permesso, questo non ha senso. Non vedete che è ridicolo dire: - Io voglio volere? - Voi volete necessariamente, in conseguenza delle idee che si sono presentate in voi. Volete sposarvi, sì o no?
(…)
B – ...voglio sposarmi.
A - ...Perché volete sposarvi?
B – Perché sono innmorato di una ragazza bella, dolce, bene educata, abbastanza ricca, che canta molto bene, i cui genitori sono persone molto dabbene, ed io mi lusingo di essere amato da lei e molto ben visto dalla sua famiglia.
A – Ecco un motivo. Voi vedete che non potete volere senza motivo. Io vi dichiaro che voi siete libero di sposarvi: vale a dire avete il potere di firmare il contratto.
(…)
B – Come? Quando gioco a pari e dispari, ho forse un motivo per scegliere pari piuttosto che dispari?
A – Senza dubbio.
B – E qual è questo motivo, di grazia?
A – Che l'idea di pari si è presentata al vostro spirito prima dell'idea opposta. Sarebbe divertente se ci fossero casi in cui voi volete perché c'è una causa al volere, e altri casi in cui volete senza causa. Quando volete sposarvi, ne sentite evidentemente il motivo dominante; non lo sentite quando giocate a pari o dispari, e tuttavia bisogna che ce ne sia una.
B – Ma ancora una volta: allora non sono libero?
A – La vostra volontà non è libera; ma le vostre azioni lo sono. Voi siete libero di fare, quando avete il potere di fare.
B – Ma tutti i libri che ho letto sulla libertà d'indifferenza...?
A – Sono sciocchezze: non esiste libertà d'indifferenza; è una parola priva di senso comune, inventata da gente che non ne aveva.

La nostra volontà è determinata da ciò che abbiamo appreso. La psicanalisi dimostra come l'individuo subisca numerosissimi condizionamenti dalla famiglia e dalle persone che conosce, così come dalle sue esperienze e come questi condizionamenti si sedimentino nel suo inconscio. Anche le nostre opinioni politiche sarebbero condizionate dal rapporto con i nostri genitori e sicuramente lo sono dal tipo di lavoro che facciamo.
All'interno di gruppi, di folle, poi, l'uomo compie azioni che in privato disapproverebbe perché subisce un «contagio affettivo» e le sue emozioni sono indotte da questo contagio. Allora egli perde la capacità di giudizio critico e le emozioni di tutti i componenti della folla vengono amplificate per induzione reciproca21. E se un individuo di una folla compie un'azione rimprorevole, financo un omicidio, è colpevole, cioè responsabile dell'azione compiuta? Chiaramente tendiamo a dare una risposta affermativa per rendere giustizia di un misfatto. Ma se quest'azione è stata compiuta sotto l'effetto del condizionamento della folla, allora l'uomo era libero di fare altrimenti? Non è forse la stessa cosa di quando si dice «quell'uomo non era capace di intendere e di volere (cioè la sua mente era malata)»? Che differenza c'è tra un uomo suggestionato da una folla, un drogato o un ubriaco e un malato di mente? In tutti i casi, l'individuo non avrebbe potuto agire diversamente. Un uomo spinto a rubare dalla fame possiamo considerarlo responsabile o dobbiamo incolpare la fame?
Due psicologi, ad una conferenza della Royal Society hanno affermato che le nuove neuroscienze trasformeranno la corrente intuizione di libertà e responsabilità. Il libero arbitro come viene generalmente inteso è un’illusione generata dalla nostra struttura cognitiva. Le nozioni retributive della responsabilità criminale dipendono da questa illusione e, se siamo fortunati, secondo i due psicologi, lasceranno spazio alle consequenzialiste, trasformando radicalmente il nostro approccio alla giustizia criminale22. Secondo il filosofo Daniel Dennett, che pure è un assertore dell'esistenza del libero arbitrio, queste considerazioni sono condivisibili, e si dovrebbe smettere di punire le persone ed iniziare a trattarle (treating) umanamente. Dovremmo semplicemente condizionarli affinché si comportino in maniera socialmente più accettabile (in a more social way).
Perché questo se esiste il libero arbitrio? Evidentemente, come ho detto prima, la libertà non è mai assoluta, ma relativa al campo delle possibilità. Un uomo povero e affamato non ha tra le sue possibilità quella di non rubare, altrimenti morirebbe, proprio come un uomo drogato non ha tra le sue possibilità quella di discernere ciò che è bene o male per se stesso e un uomo suggestionato da una folla non ha la possibilità di vagliare criticamente le situazioni nello stesso modo in cui lo farebbe in altri contesti.
Ma anche nel campo dei condizionamenti «ambientali» (nel senso più ampio del termine) domina la complessità. Se un uomo compie una certa azione, non avrà sicuramente una sola ragione per farlo e molte delle ragioni, se non tutte, saranno inconscie. Il personaggio del dialogo di Voltaire ha un sacco di buoni motivi per volersi sposare. E questi motivi non li avrebbe se non avesse incontrato la donna che adesso ama. E chissà quante cause concomitanti hanno permesso il loro incontro. Cerchiamo di approfondire la questione.


Cause semplici e cause complesse

Se diciamo che qualcosa, un avvenimento, un'azione, una caratteristica – in generale, un fatto - è determinato, cosa intendiamo dire? Sicuramente che esso è causato da un fatto ad esso precedente. Dopo di che, se un fatto B, ben identificabile e circoscritto, è, per quanto possiamo saperne, sempre causato dallo stesso fatto A, anche questo ben identificabile e circoscritto, possiamo individuare una legge che suoni così: «gli eventi del tipo A sono la causa che determina gli eventi del tipo B». Ma questa legge si può formulare se A e B rispondono alla condizione che, come ho detto, siano entrambi ben identificabili e circoscritti, come nel caso di una palla messa in moto dal colpo di una mazza da biliardo. In questo caso, si può dare la legge «il colpo della mazza da biliardo causa il moto della pallina (e dall'intensità del colpo, come dalla massa della pallina e da altri fattori trascurabili, dipenderà la calcolabile sua velocità)». Chiamiamo A, in relazione a B, causa semplice.
Vediamo un caso più complesso. Consideriamo che io, invece di giocare a biliardo, mi metta in cammino per andare dal panettiere a comprare del pane. Voglio arrivare in panetteria alle 15.30, appena apre, sapendo che probabilmente, così facendo, non mi imbatterò in una coda di clienti arrivati prima di me. Ora supponiamo che io per strada incontri una ragazza che mi piace molto e decida allora di fermarmi a salutarla e che lei non si dimostri frettolosa o seccata dalla mia vista, cosicché intraprendiamo una (breve) conversazione. Quando ci congediamo, posso finalmente andare dal panettiere, ma arriverò alle 15.36 e così dovrò aspettare che venga servito il pane a due clienti prima che io possa avanzare la mia richiesta.
In questo caso possiamo sì considerare gli eventi semplici A, «ho incontrato la ragazza», e B, «arrivo dal panettiere alle 15.36», e dire, senza sbagliarmi, che «A ha causato B». Ma la mia intenzione era di arrivare alle 15.30 esatte. Beh, se l'evento C è «arrivare in panetteria alle 15.30», possiamo dire che «A ha causato B e non-C». La situazione è ancora abbastanza semplice, ma andiamo oltre. Numeriamo alcune delle cause di non-C. (1) Io volevo andare a comprare il pane perché (2) ne avevo bisogno; volevo andare alle 15.30 perché (3) non volevo trovare coda, dato che (4) intendevo tornare presto a casa, al mio biliardo. Ciò perché (5) il biliardo mi piace, infatti (6) mi sono trovato, in un certo momento della mia vita passata, a trovare chi, (6) poiché già a sua volta entusiasta del gioco, (7) me lo insegnò, (8) trasmettendomene la passione grazie (9) alla sua abilità. Se non avessi incontrato la ragazza, probabilmente avrei realizzato il mio «progetto» di tornare presto a casa. Ma ho incontrato la ragazza. E (10) ho deciso di fermarmi a parlarle perché (11) sono stato educato in un certo modo e (12) non mi andava quindi di evitarla, inoltre (13) lei mi piace molto e allora (14) è nato in me il desiderio di vedere il suo sorriso e sentire la sua voce. E lei mi piace perché (15) alcuni anni fa ho avuto modo di conoscerla durante una gita scolastica, ecc. Dall'altro lato, (16) lei è uscita e si è trovata a passare sulla mia stessa strada alla stessa mia ora perché, poniamo, (17) suo nonno le aveva chiesto se per piacere poteva andare alle 15.30 in farmacia a comprare le medicine (18) che il medico gli aveva prescritto. E lei (19) ha accettato perché (20) è educata e (21) non le andava di dispiacere al nonno e inoltre (22) sapeva che, andando all'ora di apertura, avrebbe fatto presto a far tutto e tornare a casa. Quindi anche il suo «piano» di fare tutto in fretta, analogamente al mio, è andato a farsi benedire a causa del fortuito incontro.
Se eliminassimo una delle 22 cause, l'incontro non si sarebbe, probabilmente, verificato (anche se avrebbero potuto darsi altre cause per lo stesso effetto). Ovviamente si potrebbe correre indietro nella linea delle cause fino al momento della nostra rispettiva nascita (se uno di noi non fosse nato, non avremmo certo potuto incontrarci!) e volendo si può risalire ancora a quando i nostri rispettivi genitori si sono conosciuti ecc. fino all'origine dell'universo, però così si eccede.
Ciò che conta qui è che non si può individuare una causa per il fatto che ci siamo incontrati, ma le cause che hanno determinato il nostro incontro sono infinite o, per lo meno, tendono all'infinito. Non si può più dire «A causa B», a meno di ridefinire A come «l'insieme di tutte le cause» e B «io e lei ci siamo incontrati». Chiamiamo quindi A, in relazione a B, causa complessa. (Facciamo, per semplicità, rientrare tra le cause complesse anche le cause circolari, cioè i casi in cui il fatto A condiziona il fatto B e il fatto B condiziona il fatto A, cui abbiamo accennato in precedenza). Considerando questa complessità, non possiamo in nessun modo trovare una legge che dica «gli eventi A causano gli eventi B», sia perché A e B sono, nel loro rapporto, unici e irripetibili (sono infatti definiti in un lasso di tempo – dalle 15.30 alle 15.36 di un certo giorno – che non ritornerà mai più, a meno che Nietzsche ci avesse azzeccato sull'eterno ritorno, ma anche in quel caso non si potrebbe dire altro che A e B ritornano nella loro unicità), sia perché le cause costituenti A non possono essere conosciute, dato che sono pressoché infinite. Ciò però non significa che B non sia determinato da A. Semplicemente, si tratta di una determinazione pseudocasuale e inconoscibile dal povero occhio umano.
Si potrebbe obiettare che le causa complessa A non è di alcun interesse e che noi possiamo continuare a dire, senza magone, che l'incontro di lei ha causato il mio ritardo nella forma di causalità semplice e che tutta la mia, per così dire, «indagine causale» è vana e frutto di una inutile curiosità metafisica. Ma non è esattamente così. Tutti gli eventi semplici («sono arrivato in panetteria alle 15.36», ma potrebbe anche essere «sono omo/eterosessuale» oppure «sono vivo» oppure «sono sano» oppure «sono qui» oppure «sono un uomo» oppure «è scoppiata la prima Guerra mondiale» oppure «egli è criminale» ecc.) hanno cause complesse. La complessità è l'essenza della vita. Nella realtà non esistono cause semplici23.
Ma come puoi dire – mi chiede il grillo parlante – che non si possono dare leggi a partire da cause complesse e che le cause semplici non esistono, se le scienze ci forniscono leggi dimostrate che ci dicono come vanno le cose? In effetti le scienze studiano eventi semplici con cause semplici; esse infatti hanno alla base delle loro metodologie proprio la semplificazione (delle cause) che è la conditio sine qua non per poter studiare la natura e per dare delle leggi. Nel caso della pallina e della mazza, possiamo sì calcolare la velocità di quest'ultima in base a leggi fisiche, ma dubito che questo possa essere fatto esattamente. Ci sono infatti dei dati che sono sì trascurabili per i fini che ci poniamo, ma sono pur sempre trascurati. Questa trascurazione è, di fatto, la semplificazione. Ecco perché le leggi che le scienze formulano non possono essere prescrittive, ma unicamente descrittive, come già affermava Hume e come implicitamente ripete Wittgenstein nel suo Tractatus, dove descrive come gli scienziati idoltatrino le leggi, un po' come certi genetisti di cui abbiamo parlato24. Non per nulla tali leggi hanno validità solo fino a quando non vengono soppiantate da altre che descrivono meglio la realtà (da un nuovo paradigma, una rivoluzione scientifica, direbbe Kuhn).
Le scienze non possono sperare di spiegare come funziona la Natura, né possono dirci come questa è fatta. L'esempio della pallina messa in moto dal colpo della mazza è molto banale e la semplificazione, in un simile caso, non ha nessuna implicazione altra che non sia un'approssimazione del risultato, ma nei casi visti nel primo capitolo la semplificazione può essere un errore epistemologico con gravi conseguenze.
Da questa idolatria delle cause semplici (espresse dalle leggi) deriva la falsa credenza secondo la quale noi non saremmo liberi. Si suppone infatti che le nostre azioni siano determinate, come abbiamo visto, e dall'ambiente e dalla nostra intera anatomia. Se ci fosse dunque un intelletto di potenza divina in grado di conoscere ogni «fatto atomico» (per usare la terminologia di Wittgenstein), allora il possessore di tale intelletto saprebbe senz'altro formulare una legge grazie alla quale spiegare e prevedere gli eventi futuri, ossia, nella fattispecie, tutte le nostre azioni. Ma anche se noi conoscessimo queste leggi, perché dovremmo credere che le nostre azioni sono costrette? «La legge naturale è corretta, e questo è tutto. Perché mai si dovrebbe pensare alle leggi naturali come ad eventi costrittivi?»25. Abbiamo detto che la legge è unicamente descrittiva! Una legge esprime solo una certa regolarità nel susseguirsi di eventi (di «fatti»). Per esempio, formulo la legge «il colpo della bacchetta causa il moto della pallina» perché questo regolarmente accade. Nei comportamenti umani, però, non esiste una regolarità così ristretta. Se il Grande Intelletto di cui si diceva prima potesse prevedere le mie azioni, la legge da lui formulata molto probabilmente non varrebbe che per me, perché la mia linea di vita è unica così come unico è il mio essere (unico qualitativamente, si intende). Il mio essere, dunque, essendo un individuale, non può essere studiato scientificamente. Popper presenta un'argomentazione molto interessante sul determinismo nel testo I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza26, che egli chiama «l'esempio di Bach»:

Possiamo senz'altro concedere che ogni accadimento parziale descrivibile, che abbia luogo durante la concezione e la scrittura (la composizione) è in linea di principio ripetibile. Ma nessuno mai ammette che possano esistere due Bach perfettamente eguali, oppure anche due composizioni perfettamente eguali. Pertanto l'asserzione (che non potrebbe esser considerata altrimenti che come un'asserzione deterministica) che due individui esattamente eguali, posti nel medesimo ambiente, reagirebbero nel medesimo modo è, in quei punti in cui si tratta, incontrollabile in linea di principio [non è falsificabile]: è metafisica della causalità. Due accadimenti, che hanno luogo in tempi differenti possono non essere esattamente eguali già per il fatto di avvenire in tempi differenti, perché il secondo è influenzato dal primo. E se assumiamo che siano posti fuori dal cono d'influenza, allora sarebbe bensì possibile pensare un'eguaglianza in senso deterministico, ma rimarrebbe pur sempre valida l'obiezione che, non diversamente dalla nostra descrizione, l'eguaglianza può arrivare soltanto fino a un certo punto. Quanto alle sue conseguenze, l'atteggiamento deterministico conduce direttamente a questo: all'assunzione che esistano più coni d'influenza completamente separati gli uni dagli altri ma assolutamente identici per il resto, assunzione questa che tradisce palesemente il proprio carattere metafisico. Se i coni d'influenza non sono completamente separati, allora il determinismo non potrà mai stabilire l'identità, neppure come pura e semplice ipotesi, e neppure nel caso in cui la descrizione conduca all'indifferenza.
(…)
Non ci avvicineremo mai a una pietra individuale: potremo forse descrivere la pietra, potremo forse pronosticare, con esattezza grande a piacere, una traiettoria della pietra; e tuttavia nessuna pietra sarà mai lanciata esattamente come questa e tutto ciò che è irripetibile rimane impronosticabile, e al suo proposito non potrà mai essere formulata alcuna domanda.

Se poi anche si desse questa legge e perciò le mie azioni fossero prevedibili, ciò non significherebbe che io non sarei libero. Come dice Ayer in un saggio sulla libertà (pubblicato nei Philosophical Essays del 1954)27, «dire che il futuro corso degli eventi è già deciso, non significa che le mie azioni non fanno la differenza sul futuro: infatti esse sono cause tanto quanto sono effetti; perciò se le mie azioni fossero state diverse, le loro conseuguenze sarebbero state parimenti differenti. Ciò che significa è che il mio comportamento può essere previsto: ma dire che il mio comportamento può essere previsto non è equivalente a dire che io sto agendo sotto costrizione28. E' sì vero che non posso scappare al mio destino se questo significa che farò quello che farò. Ma questa è una tautologia, esattamente com'è una tautologia dire che accadrà ciò che accadrà. E tautologie di questo genere non provano nulla sulla libertà d'arbitrio». Se io soffrissi di nevrosi compulsiva – suggerisce Ayer – da alzarmi in piedi e mettermi a camminare per la stanza, sia che lo volessi o no, o se lo facessi perché qualcuno mi ha costretto, non agirei liberamente. Ma se lo faccio adesso, agisco liberamente, proprio perché queste condizioni non sussistono; e il fatto che le mie azioni egualmente abbiano una causa è, da questo punto di vista, irrilevante. Non tutte le cause necessitano nello stesso modo, se si considera il termine «necessitano» non come sinonimo di «causano» (ché in tal caso sarebbe una tautologia), ma come sinonimo di «costringono».
E' esattamente lo stesso problema che la filosofia scolastica dovette affrontare per conciliare la credenza nella prescienza divina e la libertà d'arbitrio29. Il problema, sintetizzando, fu risolto pressapoco così: dato che Dio è un Essere eterno ed è fuori dall'universo (essendone il creatore), per Lui non valgono le leggi che valgono per noi: nella Mente di Dio il tempo non scorre (per Agostino il tempo esisteva solo in relazione all'anima dell'uomo); Egli ha, in un unico istante eterno, presente di fronte a sé tutto ciò che è, che era e che sarà. Così Egli già sa che cosa io sceglierò di fare, nondimeno io sceglierò di fare quelle certe cose, senza essere costretto da alcunché. Analogamente, se esiste una legge (pure inconoscibile, ma poniamo che ci sia) in base alla quale il mio comportamento potrebbe essere previsto, ciò significa semplicemente che il mio comportamento sarebbe fissato da sempre nella struttura della Natura. Nondimeno, io sceglierei senza costrizione.
La mia libertà è intrinseca nella mia natura. Vediamo meglio come.











III
L'essere e la libertà


Che cosa sono io? Bella domanda. Proviamo a rispondere: sono un organismo biologico (e dunque devo sottostare alle leggi della biologia) inserito in un contesto sociale (e dunque non posso sfuggire ai condizionamenti ambientali). Allora non sono libero? Se «libero arbitrio» significa «potere di scelta tra più opzioni possibili», non sono libero: come faccio a dire di esserlo se ogni mia scelta è condizionata da tutti questi fattori? Sembra di essere in un vicolo cieco, una strada senza ritorno. Per vedere se esiste possibilità di scelta, analizziamo il caso del «putt di Austin», come viene presentato da Dennett30. Il problema di Austin è il seguente:

Consideriamo il caso in cui, tirando una pallina con una mazza da golf, manco una facile buca e mi rimprovero perché avrei potuto imbucarla. Non è che avrei potuto imbucarla se avessi provato: ho provato, e ho fallito. Non è neanche che avrei potuto imbucarla se le condizioni fossero state differenti: questo potrebbe benissimo essere, ma io sto parlando delle condizioni come esattamente erano, e asserendo che avrei potuto imbucarla. There is the rub.
Né “posso imbucarla questa volta” significa che la posso imbucare se provo o altro; infatti io posso provare e fallire, e tuttavia non essere convinto che non avrei potuto mandarla in buca; infatti, successivi esperimenti potrebbero confermare la mia credenza che avrei potuto imbucarla quella volta, anche se non l’ho fatto.

Chiamiamo X l'insieme di mondi fisicamente possibili. Se poniamo come condizione che i mondi di X siano uguali al mondo reale nell'istante ti-con-zero, dovremo supporre, stando al determinismo, che l'istante immediatamente successivo sarà uguale in tutti questi mondi come nel mondo reale, e dunque questo «criterio ristretto», che è quello richiesto da Austin («io sto parlando delle condizioni come esattamente erano») non ci è di alcuna utilità. Se, invece, ammettiamo nell'insieme X mondi che differiscono «in pochi modi impercettibilmente microscopici», come propone Dennett, dal mondo reale all'istante ti-con-zero, potremmo scoprire che nell'istante appena successivo si danno mondi in cui qualcosa che nel mondo reale non è accaduto (Austin fa buca), accade, anche se vale il determinismo. Quest'argomentazione si basa su quanto hanno mostrato i recenti studi sul caos: molti fenomeni, di un certo interesse per l'uomo, possono mutare radicalmente se si alterano in modo impercettibile le condizioni iniziali. Quando dunque diciamo che qualcosa era possibile, ma non si è verificato, vogliamo davvero sapere se ciò era possibile nel mondo reale o forse se era possibile in uno dei mondi dell'insieme X? Si può dire che un certo evento avrebbe potuto verificarsi, non già nelle circostanze esattamente verificatesi nell'istante considerato, ma in situazioni molto simili all'occasione reale in questione. Questo è, del resto, il modo che abbiamo per ottenere informazioni utili dal mondo, per poter guidare le nostre successive iniziative di elusione dei pericoli e di miglioramento. Sapere se un dato evento avrebbe potuto darsi nelle stesse circostanze in cui non si è dato, non ci è di alcuna utilità pratica, ma soltanto teoretica, e non ai fini che ci poniamo. Possiamo dunque dire che Austin avrebbe potuto fare altrimenti, se le cose fossero andate diversamente (che è di nuovo una tautologia: «sarebbe accaduto altro se fosse accaduto altro»).
Che sia vero o falso il determinismo, il futuro è sempre ciò che accade, e non lo si può cambiare. Il determinismo non implica l’inevitabilità. In un mondo deterministico, alcune cose sono inevitabili, altre no. Se vedo un mattone lanciato con le peggiori intenzioni in direzione del mio volto, alla vista del mattone volante si attiverà un meccanismo nel mio cervello, a partire dall’occhio, che mi porterà ad evitare di essere colpito. Evitando il mattone, avrò cambiato il futuro? No. Avrò cambiato cosa stava per accadere in qualcosa d’altro, ma il mattone non mi avrebbe mai colpito perché io ero determinato a vedere il mattone in volo e ad agire di conseguenza. Ma avrei potuto farmi colpire se avessi voluto farmi colpire. C’era dunque un’altra possibilità, ma in un altro mondo possibile. E questa possibilità esiste indipendentemente dal determinismo. Così, si può eludere l’eludibilità (avoid avoiding) (facendosi colpire), ed eludere l’eludibilità dell’eludibilità ecc. Il fatto che si possa fare, non è soltanto un fatto casuale, ma qualcosa che necessita di una spiegazione. Come possiamo essere così buoni elusori (avoiders)?
Inevitabile significa ineludibile (inevitable means unavoidable): ineludibile per chi? Per un elusore, cioè un agente. Un agente è finito e designato (dalla selezione naturale). Ora, un agente è costantemente a rischio, in competizione per risorse limitate per restare vivo. Ma esso ha la capacità di estrapolare informazioni dal passato per anticipare un futuro migliore. Il futuro accadrà a meno che io faccia qualcosa. L’agente che agisce in questo modo possiede un cervello evoluto e con capacità elusive (avoider), anche se ha informazioni incomplete: non può sapere esattamente in quale mondo egli si trova.
La differenza tra possessori di libero arbitrio e robot è spiegabile solo alla luce della biologia evoluzionistica. L'evoluzione ha permesso agli agenti di sviluppare mezzi sempre più sofisticati per accrescere le proprie capacità di elusione. Questo spiega come possiamo essere liberi, mentre le nostre componenti non sono libere (a meno che si supponga che una cellula, o una sua molecola, sia dotata di libero arbitrio, il che suona poco plausibile).
Ecco perché non ci interessa sapere se Austin avrebbe fatto buca «nelle condizioni come esattamente erano»: avendo sbagliato, egli potrà imparare dall'esperienza per eludere l'errore e fare buca una prossima volta. In questo sta la sua libertà.
Ma il problema, così posto, non ci porta ancora alla soluzione. Dobbiamo tornare alla domanda di partenza: che cosa sono io?
Abbiamo detto che la nostra anatomia ci condiziona, e parimenti ciò che apprendiamo tramite l'educazione o l'esperienza. Ma abbiamo finora posto il problema come abitualmente e intuitivamente lo si pone. Riflettendoci, però, che cosa sono io se non la mia anatomia, cioè il mio organismo? E cosa sarei io senza ciò che ho appreso? L'essere non è un contenitore vuoto che durante gli anni della vita viene riempito dall'esperienza. L'essere è l'organismo e la sua esperienza; ed essendo organismo (ricordiamo le parole di Steven Rose) esso è anche «divenire». Non si può dire che l'essere giunga al massimo compimento in un certo momento della vita. L'essere è in ogni istante diverso da ciò che era negli istanti precedenti, ma in ogni momento esso è compiuto in se stesso, come risultato dell'interazione fra le sue costituenti biologiche, che ricordano il suo essere parte di un Tutto più grande del sé, che è la Natura, e la sua «cultura» (ciò che ha appreso per educazione ed esperienza), che ricordano il suo essere parte del consorzio umano. Possiamo perciò azzardare una definizione ontologica: «l'Io è il susseguirsi, istante per istante, di diversi stati dell'essere in divenire, ed è determinato dalla necessità della sua stessa natura, cioè è auto-determinante», esattamente come diceva Goodwin: esso è «un'unità auto-generante», cioè auto-determinante.
Questa è, in realtà, la risposta più antica al problema del libero arbitrio, ma spesso ignorata o dimenticata dai pensatori, poiché derivata dalla filosofia orientale, che si tende a snobbare. In realtà anche filosofi occidentali hanno proposto, con qualche variante, soluzioni simili.
Erwin Schrödinger, celeberrimo fisico, in conclusione del suo Che cos'è la vita?, tratta il tema del libero arbitrio in questa prospettiva, facendola risalire a «25000 anni fa o più»31. «Dalle prime grandi Upanişad, la posizione: ātman = brahman (l'io personale è uguale all'io onnipresente che tutto comprende) fu nel pensiero indiano considerata non già una bestemmia, ma la rappresentazione della quintessenza della più profonda conoscenza degli avvenimenti del mondo».
Del resto, è stupidamente assurdo pretendere che le nostre scelte possano essere qualcosa di assolutamente nuovo, che non viene da me, dall'io che ero prima, ma ex nihilo, e semplicemente si attacchino a noi: come potrei io, l'io che ero prima, esserne l'artefice, o il responsabile?32
Forse gran parte degli errori alla base dell'allontanamento da questa semplice concezione derivano dalla dicotomia cartesiana tra res cogitans e res extensa. Spinoza fu il primo ad allontanarsene, affermando l'unicità della sostanza, dotata di infiniti attributi. Quelle che per Descartes erano due sostanze divengono per Spinoza i due soli attributi, pensiero ed estensione, che, tra quegli infiniti, la mente umana è in grado di conoscere. I modi, infine, sono le affezioni della sostanza, le forme in cui essa si modifica e si fa concretamente conoscibile. Tutto il mondo delle cose finite è una serie di esplicazioni modali della sostanza.
Nell'Etica Spinoza afferma l'identità tra Dio e Natura: la sostanza unica è Dio, il quale è causa libera di tutte le cose, poiché tutte le cose sono necessitate dalla sua natura e la sua natura è la natura di tutte le cose. Come sottolinea Paolo Cristofolini, docente di filosofia alla Scuola Normale di Pisa33, «non vi è dunque opposizione logica tra necessità e libertà, ma tra necessità e contingenza; chi oppone la libertà alla necessità confonde la libertà con la contingenza, come fanno tutti coloro i quali concepiscono la libertà come possibilità di deviare dall'ordine della natura eterna e infinita. Nella filosofia di Spinoza nulla e nessuno può deviare dalla necessità naturale: chi crede di agire liberamente contro la legge divina o contro se stesso (gli esempi che fa Spinoza vanno dall'ubriachezza al suicidio) in realtà è agito da cause esterne la cui potenza soverchia la sua». La necessità della Natura, per Spinoza, non è però teleologica, mentre il comportamento dell'uomo, essere finito, deve tendere a fini di perfezione, e l'Etica indaga come egli lo possa fare. Per Spinoza il dato più intimo ed essenziale delle cose è lo sforzo («conatus») verso l'autoconservazione, che nell'uomo si esplicita nel desiderio («cupiditas»). I nostri desideri, dunque, sono determinati dal nostro conatus, ma questo non è un condizionamento esterno, poiché è la nostra stessa essenza, non è nulla di vincolante: è ciò che siamo.
Agire significa per Spinoza esplicare la necessità della propria natura: «Dico che noi agiamo, o siamo attivi, quando in noi o fuori di noi accade qualcosa di cui noi siamo la causa adeguata: cioè quando dalla nostra natura deriva, in noi o fuori di noi, qualcosa che può essere inteso in maniera chiara e distinta per mezzo unicamente di tale nostra natura. Viceversa, dico che noi subiamo, o siamo passivi, quando in noi accade qualcosa, o dalla nostra natura segue qualcosa, di cui noi non siamo causa se non in parte»34.
È vero poi che siamo necessitati a scegliere (appetire) qualcosa, in base al giudizio che necessariamente ne diamo, come diceva Voltaire nel passo succitato, ma «questo appetito non è altro che la stessa essenza, o natura, dell’Uomo: e dunque ciascuno, per le sole leggi della sua natura, appetisce od avversa necessariamente ciò che egli giudica essere bene o male»35.
La libertà consiste per il grande Spinoza nel conoscere Dio, ossia l’insieme infinito delle cause, per giungere alla saggezza che è amore intellettuale di Dio. Esattamente come per il prigioniero della fortezza di If nel racconto Il conte di Montecristo, che chiude Ti con zero di Italo Calvino36, «l'unico modo per sfuggire alla condizione di prigioniero è capire come è fatta la prigione».
La nostra libertà è insita nella nostra natura.
«La potenza umana è molto limitata, e la potenza delle cause esterne la supera infinitamente: e quindi noi non abbiamo un potere assoluto di adattare al nostro uso le cose esterne a noi. Ciononostante, noi riusciremo a sopportare con equanimità gli eventi contrari a quel che richiederebbe il criterio della nostra utilità se saremo consapevoli d’aver compiuto il nostro dovere, e se ci renderemo conto che la potenza, che pure abbiamo, non riesce ad impedire il verificarsi di quegli eventi, e che noi siamo semplicemente una parte di tutta la Natura, nel cui complessivo procedere è incluso anche il nostro. Se comprenderemo queste verità in maniera chiara e distinta la parte di noi che è definita dall’intelligenza, ossia la parte migliore del nostro essere, troverà in esse una tranquillità e una soddisfazione piene, e in questa tranquillità, e in questa soddisfazione, essa vorrà perseverare. Nella nostra condizione di esseri intelligenti, cioè capaci di intendere e di conoscere, noi non possiamo infatti desiderare se non ciò che è necessario, e, in assoluto, non possiamo acquietarci e godere se non nella verità delle cose; e, perciò, in quanto noi comprendiamo correttamente questa realtà, in tanto lo sforzo della miglior parte di noi s’accorda con l’ordine dell’intera Natura»37.
La libertà dunque non è un miraggio degli ingenui. Essa non è compromessa dal determinismo, anzi è implicita in esso: se il mondo non vosse deterministico, noi non avremmo nessuna possibilità di fare derivare le nostre decisione e scelte di un certo istante, dall'io che eravamo prima; né potremmo apprendere dall'esperienza ciò che ci serve per eludere i pericoli. Tutto sarebbe semplicemente dominato dal caso, e la nostra libertà ne sarebbe soffocata.
E nemmeno il determinismo è incompatibile con la responsabilità. Infatti il nostro cervello evoluto ci permette di conoscere, con più o meno precisione, le conseguenze delle nostre azioni. E questa conoscenza ci assicura la libertà di sceglierle o evitarle (a seconda della nostra natura) e nello stesso tempo ci fornisce la responsabilità della nostra scelta.
1Ehrenreich e McIntosh (1997)
2«L'uomo, divenuto onnipotente, avrà soggiogato la natura utilizzandone le leggi per fare regnare su questa terra tutta la giustizia e libertà possibili. Non vi è scopo più nobile, più elevato, più grande. In esso consiste il nostro compito di esseri intelligenti: penetrare il come delle cose per dominarle e ridurle allo stato di meccanismi ubbidienti. […] Essere in grado di controllare il bene ed il male, regolare la vita, guidare la società, risolvere alla lunga tutti i problemi del socialismo, conferire soprattutto solide basi alla giustizia dando una risposta con l'esperimento ai problemi della criminalità, non è forse essere gli operai più utili e più morali del lavoro umano?». Il passo è tratto da Il romanzo sperimentale, in Baldi et al. (2000), pp. 156-157.
3Cit. in Rose (2001), p. 314
4Ivi, p. 316
5Cit. in Lewontin (1999). Il Progetto Genoma Umano (HGP, Human Genome Project) è stato un progetto di ricerca finanziato per 3 miliardi di dollari da Stati Uniti e alcuni paesi europei, il cui scopo, raggiunto all'inizio del terzo millennio, era quello di mappare l'intero genoma umano. Di questo progetto Lewontin fu sempre oppositore. Si veda anche Lewontin (2002).
6Cit. in Rose, cit., p. 15
7Si veda Goodwin, Dawkins (1995)
8Rose, cit., p. 33
9King (1996)
10Rose, cit., p. 161
11Esempi tratti da Rose, cit., pp. 168, 184-185
12Gibson et al. (2010)
13Callaway (2010), Wade (2010), Lee Hotz (2010), Gill (2010), De Bac (2010); tre articoli non hanno autore e sono indicati in sitografia con autore n. d.
14Chirch (2010) e Collins (2010)
15Lewontin (1992)
16Cit. in Furi (2008), p. 108
17Ridley (2002), pp. 167-181
18Cfr. De Caro (2004), pp. 27-55 e Dennett (2004), pp. 131-186
19 Cfr. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 5.1361
20Voltaire (1969), pp. 284-286
21Freud (1988), pp. 31-32
22Cit. in Dennett (2007). Il «retributivismo» è la giustizia che prevede una retribuzione, è basata sul merito e presuppone che l'imputato avrebbe potuto agire diversamente. Il «consequenzialismo» si basa invece sulla deterrenza, cioè sull'efficacia del trattamento punitivo, che dovrà essere rieducativo. Ciò dunque non dipende dalla considerazione se l'imputato avrebbe potuto agire altrimenti.
23Per inciso, l'unica causa semplice che si possa dare è la causa dell'origine dell'universo - che essendo l'evento primo non può avere una causa complessa. Passato ti-con-zero, la complessità cresce esponenzialmente. Questa causa semplice non può darsi se non fuori dall'universo, e dunque in un Dio, qualunque attributo gli si conceda. (Potreste invece credere che l'universo non sia causato, cioè sia infinitamente esteso nel tempo, cioè sia causa di se stesso, e così pensando deificare l'universo, senza però chiarire in che senso l'universo sarebbe infinito, cioè quale sua parte e perché – o come).
24Le potenti parole di Wittgenstein sono: «Tutta la moderna concezione del mondo si fonda sull'illusione che le cosiddette leggi naturali siano le spiegazioni dei fenomeni naturali.//Così si arrestano davanti alle leggi naturali come davanti a qualcosa di intangibile, come gli antichi davanti a Dio e al fato.
E ambedue hanno ragione, e ambedue torto. Gli antichi sono, tuttavia, in tanto più chiari in quanto riconoscono un chiaro termine, mentre il nuovo sistema pretende che tutto sia spiegato». Tractatus, 6.371 e 6.372
25Wittgenstein (2006), p. 59
26Popper (1987), pp. 421 e seguenti
27Ayer, Freedom and necessity
28Popper fa risalire questa critica al concetto di causa all'arabo Al Gazzali (XI sec. d. C.) e ad altri personaggi, fino a Hume, e sottolinea come i neopositivisti l'abbiamo utilmente rispolverata, implicitamente o esplicitamente risolvendo il problema del libero arbitrio. Vedi op. cit., p. 417-418
29Si veda, per esempio, il De consolatione di Boezio (1996)
30Dennett (2004), pp. 100 e seguenti; Dennett (2007)
31Schrödinger (1995), pp. 147-153
32Cfr. Williams James, cit. in Dennet (2004), p. 165
33Cristofolini (2007), pp. 32-37
34Spinoza, Etica, III, 2.
35ivi, IV, 19, dim.
36Calvino (1988), pp. 141-153. Il racconto che, come altri del libro, tratta con maestria impareggiabile il problema del determinismo, sviluppa anche l'argomentazione per mondi possibili trattata in precedenza.
37Spinoza, cit., IV, 32


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