lunedì 25 gennaio 2010

Avvenimenti

Per il giornalino d'istituto...

Avvenimenti
Tragedia in n atti
Personaggi: A, B.

ATTO PRIMO

Su un divano bianco, A e B (persone), seduti, si scambiano vicendevolmente informazioni sulle loro vicissitudini. Recitano leggendo il copione.

B – E così è avvenuto l’avvenimento che avvenne che pronosticasse.
A – E’ così.
B – E’ così spiacevole! (breve pausa) Spiacente, davvero.
A – Spiace a me pure, e di più.
B – Avvenne un tempo consimile avvenimento agli Avventori…
A – Avventori come avvoltoi! Se lo meritavano.
B – Certo Lei tiene il merito di non averlo meritato…
A - …ma ciò non merita attenzione.
B – (come per concludere) Dacché non consola.
A – E non solo.
B – Cos’altro?
A – (si guarda intorno, poi sottotono:) Lei capisce…
B – (perentorio:) Io – non – capisco.
A – (stizzito:) Capirei non capisse un infante, ma Lei, caro Signore, non capisco come possa non capire!
B – Capisco che possa indispettire tale incomprensione, ma non sia dispettoso: voglia concedermi, con rispetto, una delucidazione.
A – E’ un’inezia. Rispetto all’avvenimento avvenuto non ha alcuna rilevanza. Andiamo oltre.
B – Rilevo l’intelligenza dell’osservazione.
A – Lei ritiene che possa avvenire ancora?
B – Oh certo! Ogni sua osservazione è intelligente.
A – Mi riferivo all’avvenimento.
B – Non capisco.
A – (sbuffa, poi:) Osservi le battute precedenti. Il suo copione ha la mia parte?
B – Sì, ho copiato la sua parte dal suo copione, ma solo in parte.
A – (porge il proprio copione) Prego, legga pure di qua, senza complimenti.
B – Lei conosce la parte a memoria? E’ notevole!
A – Le avevo chiesto di non fare complimenti. Ora sono costretto a rivelare di non conoscere la mia parte a memoria e ciò getta discredito nei miei confronti.
B – Ma se lei è un attore senza confronto! Chi vuole che dia credito a simili sciocchezze?
A – Non è comunque piacevole. Ma, la prego, consulti il copione e poi me lo restituisca. Così potremo continuare.
B – Le dispiace se ricominciamo da capo? Leggere due copioni non mi riesce.
A – Nessun problema. Ricominciamo.

Sipario

ALTRI ATTI
Gli atti successivi, in numero infiniti, prevedono l’esatta ripetizione del primo atto. Si noti che quando A porge il copione a B lo tiene pur sempre in mano (il copione, si intenda), continuando a leggere da quello.
Nota per il regista: il numero di atti può essere ridotto qualora si notasse che gli attori (o eventualmente il gentile pubblico) ne venissero a noia. Tale soluzione potrebbe tuttavia rivelarsi assai tragica.

Il sottile filo dell'essere

Un lavoro senza pretese su Leopardi. (Forse nemmeno molto riuscito.)


L’aspetto che più mi ha interessato delle opere di Leopardi sono le sue contraddizioni: innanzitutto, la più palese, la tensione continua verso l’infinito cui si oppone un pessimistico nichilismo; in secondo luogo, l’elogio romantico dell’illusione e la condanna illuministica delle superstizioni; infine, la constatazione del «solido nulla», come Leopardi chiama l’esistente in una nota dello Zibaldone , la mancanza di significato nella vita e dall’altra parte la negazione del suicidio come soluzione alle sofferenze umane. Aspetti opposti che pure convivono nei suoi scritti. Affrontando queste antitesi, mi sono reso conto che, nonostante tutto, l’autore continuamente inneggia alla vita, alla felicità desiderata: egli non è il «vecchierel bianco» del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, egli è un uomo tormentato che cammina in difficile equilibrio su un sottile filo sospeso sopra quell’abisso immenso dentro il quale il suo personaggio precipita inesorabilmente. Ciò che impedisce al filo di spezzarsi sono le illusioni, la speranza, l’amore e, infine, l’arte.




1. Il piacer vano delle illusioni

Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni. Io considero le illusioni come cosa in certo modo reale stante ch'elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell'uomo e voluti dalla natura, e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa ec. Onde sono necessari ed entrano sostanzialmente nel composto ed ordine delle cose.

Questo interessante passo dello Zibaldone ci porta inevitabilmente a domandarci: se le illusioni sono fonte di un «piacer vano», come può questo essere «il più solido piacere»? In altre parole, com’è possibile che qualcosa di inutile, di vuoto, sia posto a base del nostro piacere, cioè della nostra felicità?
Spenta la giovinezza, l’età dei «pensieri soavi» e delle «speranze», dei «giorni / vezzosi, inenarrabili», morto ogni inganno, ogni speranza e desiderio, non rimangono che «amaro e noia» e si palesa agli occhi dell’uomo «l’infinita vanità del tutto», come Leopardi scrive nel canto A se stesso. Si constata, dunque, anche la vanità delle illusioni e con essa la vanità di ogni piacere, e l’impossibilità di ottenere una felicità che non sia destinata a dileguarsi in breve: «diletti e beni / mero desio» dice ne Le ricordanze. In un altro passo dello Zibaldone , in cui è delineata dall’autore la famosa “teoria del piacere”, Leopardi afferma che l’uomo naturalmente è portato a desiderare il piacere, ossia uno stato esistenziale in cui il suo amor di sé e il proprio istinto di conservazione trovino piena soddisfazione. Ma in nessun piacere particolare che l’uomo può trovare sulla terra egli può bearsi, e dichiararsi sazio. Il suo desiderio è infinito, ma nulla in natura è tale, né per estensione né tanto meno per durata, e perciò il desiderio dell’uomo è destinato a rimanere inappagato. Anche per Dante - lo abbiamo visto l’anno scorso - il desiderio era alla base di tutto (Franco Ferrucci ha definito la Commedia «il poema del desiderio» ): l’uomo desidera l’infinito, ma non può trovarlo sulla terra perché non è «infinita la perfezione e la felicità delle cose e degli uomini» . Ecco perché il poeta cristiano trecentesco diceva :

Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra
di fuor dal qual nessun vero si spazia.
Posasi in esso, come fera in lustra,
tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.

Il nostro intelletto non si sazia se non quando giunge al Vero divino. E, per Dante, lo può raggiungere, altrimenti ogni desiderio sarebbe frustra, cioè frustrato, perché inutile, ogni illusione sarebbe vana. Ed è infatti tale per Leopardi, che esclude dai suoi orizzonti l’ultraterreno, anche se, in giovinezza, aveva appuntato nello Zibaldone alcune righe di kantiana speranza. Kant aveva postulato nella Critica della ragion pratica (1788) sia l’immortalità dell’anima, sia l’esistenza di Dio, verso cui nutriva una “ragionevole speranza”: l’anima è immortale perché solo in un tempo infinito essa può giungere (asintoticamente) alla corrispondenza tra volontà e legge morale, che è irrealizzabile durante l’esistenza terrena; Dio esiste poi, sempre per Kant, come “volontà santa ed onnipotente” che fa corrispondere proporzionatamente la felicità alla virtù, ciò che in questa esistenza non avviene perché, ed è questo il punto di raccordo con il nostro autore, anche l’uomo più virtuoso su questa terra è destinato all’infelicità (si pensi al Bruto minore, in cui è addirittura affermata la vanità della virtù). Leopardi usa la prova dell’esistenza di Dio fornita dal filosofo tedesco per dimostrare l’immortalità dell’anima: se Dio esiste, egli è giusto e quindi l’anima necessariamente è immortale perché solo oltre la morte può realizzarsi la giustizia che premi l’uomo per la sua virtù. Così anche per Dante l’esistenza di Dio era un fatto necessario e derivato dalla presenza di quella tensione verso l’infinito che, cristianamente o romanticamente, caratterizza ogni individuo e che non può essere delusa. Ecco le righe del suo diario in questione: «la nostra esistenza non è finita dentro questo spazio temporale come quella dei bruti, perchè ripugna alle leggi che si osservano seguite costantemente in tutte le opere della natura, che vi sia un animale, e questo il più perfetto di tutti, anzi il padrone di tutti gli altri e di questo intiero globo, il quale racchiuda in se una sostanziale infelicità, e una specie di contraddizione colla sua esistenza al compimento della quale non è dubbio che si richieda la felicità proporzionata all'essere di quella tale sostanza (che per l'uomo è impossibile di conseguire) e una contraddizione formale col desiderio di esistere ingenito in lui come in tutti gli animali, anzi proporzionatamente in tutte le cose» .
In anni successivi, invece, nelle pagine sulla teoria del piacere, prese le distanze da questa speranza, approdando ad un materialismo che, stando a quanto ci ha lasciato di scritto, sarà definitivo nella sua Weltanschauung: «l'infinità della inclinazione dell'uomo al piacere è un'infinità materiale, e non se ne può dedur nulla di grande o d'infinito in favore dell'anima umana, più di quello che si possa in favore dei bruti nei quali è naturale ch'esista lo stesso amore e nello stesso grado, essendo conseguenza immediata e necessaria dell'amor proprio» ; e ne La ginestra si esprimerà duramente contro chi ritiene che l’uomo sia «il più perfetto» degli animali.
La radicale posizione annichilente cui perviene emerge dallo Zibaldone ed è espressa compiutamente dalla metafora della vita che ha inserito nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia in cui l’uomo è paragonato a un «vecchierel bianco», malato e appesantito da un carico sulle spalle, che, anche quando risulta più difficoltoso, «corre, anela», sempre senza riposare, fino ad arrivare alla meta di «tanto faticare»: la morte, che sta alla fine di una vita piena di dolori, di ostacoli, di pericoli; la morte che invece di essere la chiave d’accesso per un mondo migliore, nel quale si possa finalmente raggiungere la felicità, è un «abisso orrido, immenso», il nulla.
E’ proprio qui allora che si comprende cosa sia quel «piacer vano» e perché esso, nella sua vanità, è posto alla base di ogni piacere. Constata la vanità del tutto e la mancanza di qualsiasi significato nell’esistenza, non rimane che rifugiarsi nelle illusioni, che hanno il potere di tenere l’uomo lontano dalla più tetra e desolata disperazione. Ma così si apre un’altra questione, posta da Leopardi stesso: «come è possibile che [le illusioni] sieno durevoli e forti quanto basta, essendo così scoperte» , cioè essendo chiaro, di fronte al nulla, che esse sono vane? La Ragione, che ci mostra la nullità di ogni cosa, distrugge ogni illusione, ma la Natura ci riavvicina ad esse. Essa è stata indulgente con l’umanità regalandole queste immagini di felicità (Leopardi, nella prima delle Operette morali, narra che Giove moltiplicò «le apparenze di quell’infinito che gli uomini sommamente desideravano (dappoi che egli non li poteva compiacere nella sostanza)») e le illusioni, essendo proprie dell’uomo e connaturate ad esso, spesso sono confuse inconsciamente con il reale: la consapevolezza che ogni illusione è vana, si tempera nella naturale speranza che esse non lo siano, e allora l’illusione prende il nome di desiderio.
Tutta la produzione leopardiana cammina sull’esile filo dei «dolci sogni» concessi dall’abbandono fanciullesco alle speranze e ai desideri. Sotto di questo, l’«abisso orrido» della consapevolezza razionale del nulla.



2. Essere o non essere?

Può mai stare che il non esistere sia assolutamente meglio ad un essere che l'esistere? Ora così accadrebbe appunto all'uomo senza una vita futura.

Questo estratto proviene ancora dallo Zibaldone, nella stessa pagina della riflessione citata all’inizio1. Ovviamente «senza una vita futura» non va inteso in senso letterale, perché ne risulterebbe una frase assurda, quanto piuttosto come «senza la speranza in una vita futura migliore», come suggerisce anche un’altra nota del diario: «la somma felicità possibile dell'uomo in questo mondo, è quando egli vive quietamente nel suo stato con una speranza riposata e certa di un avvenire molto migliore» ; o la lettura del Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere, in cui il passeggere ironizza proprio su questa ingenua speranza, che è di ogni uomo.
Ebbene, l’uomo può nutrirla solo grazie alle illusioni. Infatti Leopardi continua, dopo l’estratto citato, dicendo che può appartenere soltanto ad un giovane di 16 o 17 anni, o ad una persona di equivalente esperienza della vita. Ma in realtà, un fondo di illusione resta vivo in ogni età. Di fronte al nulla, se l’uomo non si toglie la vita, che è solo dolore privo di senso, è proprio perché dentro di sé conserva naturalmente una occulta speranza, che gli fa parere un male il porre fine alla propria esistenza, che potrebbe ancora riservarci qualche momento di felicità. Tant’è che nei Canti appare due volte la figura dell’uomo intento ad uccidersi e scontento della vita, che infine si dispiace quando questa giunge naturalmente al suo declino: il primo caso è Consalvo («disdegnoso un tempo / del suo destino; or già non più, che a mezzo / il quinto lustro, gli pendea sul capo / il sospirato obblio.» ) e il secondo è Leopardi stesso («lungamente / mi sedetti colà su la fontana / pensoso di cessar dentro quell'acque / la speme e il dolor mio. / (…) / e spesso all'ore tarde, assiso / sul conscio letto, dolorosamente / alla fioca lucerna poetando, / lamentai co' silenzi e con la notte / il fuggitivo spirto (…)» ). Ed è strano considerare che l’autore, prima di ammettere di aver «lamentato» la morte, la invochi ancora: «la morte è quello / che di cotanta speme oggi mi avanza» . In bilico tra il nulla e la speranza, la poetica leopardiana è il crocevia tra essere e non essere. La tragedia dell’Amleto shakespeariano può servire da termine di paragone: essa è la tragedia anche di Leopardi, e di ogni uomo.

Essere, o non essere…
questo è il nodo: se sia più nobil animo
sopportar le fiondate e le frecciate
d’una sorte oltraggiosa,
o armarsi contro un mare di sciagure,
e contrastandole finir con esse.

Le parole di Amleto esprimono al meglio la questione, il «nodo» leopardiano. Ed è interessante notare come per il personaggio shakespeariano, nella traduzione di Raponi, accettare la vita significhi combattere contro le sciagure finendo con esse, cioè raggiungendo l’assenza di tormenti soltanto nell’istante della morte. La traduzione letterale vorrebbe in realtà, invece di «finir con esse», «finirle» («and by opposing end them»), ma questa interpretazione più libera del testo originale propone un significato ulteriore, non certo in contrasto col il resto del discorso.
Sempre l’Amleto ci fornisce una spiegazione in più sul «perché da noi si dura», per usare l’espressione del pastore errante dell’Asia:

Morir… dormire, e poi sognare, forse…
Già, ma qui si dismaga l’intelletto:
perché dentro quel sonno della morte
quali sogni ci possono venire,
quando ci fossimo scrollati via
da questo nostro fastidioso involucro?
Ecco il pensiero che deve arrestarci.
Ecco il dubbio che fa così longevo
il nostro vivere in tal miseria.
(…)
E chi vorrebbe trascinarsi dietro
questi fardelli, e gemere e sudare
sotto il peso d’un’esistenza grama,
se il timore di un “che” dopo la morte
- quella regione oscura, inesplorata,
dai cui confini non v’è viaggiatore
che ritorni - non intrigasse tanto
la volontà, da indurci a sopportare
quei mali che già abbiamo,
piuttosto che a volar, nell’aldilà,
incontro ad altri mali sconosciuti?

Amleto si chiede che cosa possa accadere all’uomo dopo la morte: egli non sa se andrà incontro al nulla o se andrà incontro ad altri mali, forse alla punizione divina per il gesto di sfida. E paragona la morte ad una regione oscura di cui nessuno ci ha mai potuto fornire una descrizione, lui che pure aveva incontrato l’anima di suo padre che proprio da quel regno inesplorato aveva fatto ritorno. Non sappiamo se questa contraddizione fosse voluta dall’autore, ma noi la possiamo leggere così: neppure Amleto che aveva visto il genitore defunto può credere con certezza nella vita dopo la morte. Il suo avrebbe anche potuto essere un sogno, un’allucinazione. Un’illusione. Ma nella sua natura di mortale gli è dato comunque di sperare che questa illusione sia veritiera, che suo padre gli sia davvero apparso e trovare così un senso alla sua vita costellata di difficoltà e dolori.
E Leopardi, che aveva dipinto il suicidio come gesto di estrema dignità nel Bruto minore, fu preso forse dallo stesso dubbio, che si trasformò in timore e che riportò nello Zibaldone: «io mi trovava orribilmente annoiato della vita e in grandissimo desiderio di uccidermi, e sentii non so quale indizio di male che mi fece temere in quel momento in cui io desiderava di morire: e immediatamente mi posi in apprensione e ansietà per quel timore» . Apprestandosi a compiere un gesto estremo, scompare la certezza del nulla e si apre la possibilità dell’eterno. Nel momento di disperazione più cupa, sorge ancora una fievole speranza che tiene attaccati alla vita. Non importa poi che questa speranza sia destinata al fallimento, importa soltanto che questa esista, poiché solo in essa l’uomo si può ubriacare dimenticando la vanità di ogni cosa.



3. Amore e morte

Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando, benchè tutto il resto del mondo fosse per me come morto. L'amore è la vita e il principio vivificante della natura, come l'odio il principio distruggente e mortale. Le cose son fatte per amarsi scambievolmente, e la vita nasce da questo. Odiandosi, benchè molti odi sono anche naturali, ne nasce l'effetto contrario, cioè distruzioni scambievoli, e anche rodimento e consumazione interna dell'odiatore .

L’antitesi essere-non essere può essere ricondotta, leggendo queste righe, all’antitesi amore-odio e ancora ad amore-morte, laddove la vita si identifica con l’amore.
Consalvo, affascinantissimo protagonista del canto omonimo leopardiano, appena incontra l’amore cambia visione della vita:

Lice, lice al mortal, non è già sogno
come stimai gran tempo, ahi lice in terra
provar felicità. Ciò seppi il giorno
Che fiso io ti mirai.

Ma egli realizza totalmente la sua vita nell’amore solo in punto di morire. E allora Leopardi gli domanda: «Che divenisti allor? quali appariro / vita, morte, sventura agli occhi tuoi, / fuggitivo Consalvo?», ben conscio che una simile felicità ribalta, appunto, la visione pessimistica dell’esistenza, ponendo come certa in essa la possibilità di realizzare la propria speranza. Ma questa felicità è destinata ancora una volta a spezzarsi in breve e torna a dominare la Weltanschauung dell’autore che parla per bocca di Consalvo: «Esser beato non consente il cielo / a natura terrena. Amar tant'oltre / non è dato con gioia». Ed ecco che la morte viene a conservare intatto questo istante di felicità, ad evitare che la vita sprofondi nuovamente nella delusione, nella noia, nel dolore. Amore e morte vanno a braccetto.

Nasce dall'uno il bene,
nasce il piacer maggiore
che per lo mar dell'essere si trova;
l'altra ogni gran dolore,
ogni gran male annulla .

Ma l’amore che Leopardi assurge a principio vivificante, l’amore-essere, non si limita alla relazione sentimentale fra due persone, ma coinvolge l’intera umanità. Soltanto amandosi gli uomini possono vivere, giacché l’odio-non essere li porta inevitabilmente alla morte. E’ il messaggio che Leopardi esprime ne La ginestra, in cui il fiore solitario assume un significato altamente simbolico stando a significare la vita in opposizione alla morte, l’essere in opposizione al non-essere ed infine la pietà verso la sofferenza dell’uomo. Maturata la consapevolezza della vanità del tutto, l’autore si scaglia in quest’opera contro le concezioni spiritualistico-religiose del tempo ed afferma che la vera nobiltà spirituale non consiste nel proclamare un falso antropocentrismo e nel prospettare all’essere umano un destino felice, ma nel guardare coraggiosamente al proprio destino, che è comune a quello di tutte le altre persone: un destino di infelicità. Soltanto unendosi solidaristicamente con gli altri si può combattere contro il fato per ottenere una società più giusta, con rapporti più umani fra gli uomini stessi. Se essi, invece che rifugiarsi in credenze vane e superstiziose, avessero la consapevolezza della loro misera condizione, sarebbero indotti a collaborare tra loro contro un nemico comune, rinsaldando la «social catena». Certamente anche in questo modo non si otterrebbe la felicità, ma si garantirebbe una convivenza migliore, in una società in cui gli uomini non tenderebbero più violentemente a sopraffarsi l’uno con l’altro, eliminando quindi, almeno, l’infelicità causata solo dall’uomo e aiutandosi vicendevolmente a resistere all’infelicità “naturale”.
Ecco la contraddizione. Se Leopardi indica nelle illusioni il più solido piacere, perché condanna l’illusione religiosa, se questa può procurare felicità? Proviamo a dirimere la questione. Per l’autore l’illusione è qualcosa di naturale e sostanziale (scrisse a Giordani il 30 giugno 1820: «Io non tengo le illusioni per mere vanità, ma per cose in certo modo sostanziali, giacché non sono capricci particolari di questo o di quello, ma naturali e ingenite essenzialmente in ciascheduno; e compongono tutta la nostra vita»), mentre la religiosità prevede dogmi positivi e credenze che sono stati, secondo Leopardi, smascherati come assurdi e facenti parte di una civiltà superata. La religione propone inoltre falsi miti, come quello secondo cui l’uomo sarebbe signore dell’universo. L’illusione naturale nell’uomo, che non è biasimata proprio perché naturale e non positiva, è quella inestinguibile speranza, che la razionalità non può abbattere, che ci sia un futuro migliore, che in qualche modo si possa sopravvivere alle «fiondate» e alle «frecciate / d’una sorte oltraggiosa», riparando ogni volta in qualche piccolo piacere che, pur non saziando né dando la felicità sperata, può almeno mantenere in una situazione di non-dolore, di quieta esistenza.
Probabilmente anche l’amore è soltanto un’illusione per Leopardi, ma egli è persuaso che questa potrebbe davvero portare ad un miglioramento dell’umanità se fosse condivisa, se fosse assunta, in termini ancora una volta kantiani, come «principio di una legislazione universale».
Nel nuovo linguaggio poetico leopardiano non si ha più l’idillica descrizione della natura, ma una cruda analisi del vero. Il cielo stellato, in questo componimento, non evoca più (come ne Le ricordanze) l’infinità dell’immaginazione, «pensieri immensi», ma accentua la nullità dell’uomo e della terra in confronto alla vastità dell’universo. «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me» sta scritto sulla lapide del filosofo di Königsberg: così Leopardi, nel constatare la piccolezza dell’uomo in confronto al Tutto, sente dentro di sé la forza di un dovere, di una missione titanica, sente di doversi porre come vate e «palesare» al «vulgo» la verità del suo messaggio sociale, per portare l’«umana famiglia» ad una convivenza pacifica e di reciproca assistenza.



4. Il ruolo dell’Arte

All'uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d'una campana; e nel tempo stesso coll'immaginazione vedrà un'altra torre, un'altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione .

L’amore-essere di Leopardi è, infine, amore per l’Arte. Nello Zibaldone egli afferma che il miglior tempo ch’egli abbia passato nella sua vita, è stato quello del «comporre» . Nelle sue opere è presente quasi sempre un senso di pessimismo, di disperazione, di rassegnato nichilismo, eppure nello scrivere egli trovava attimi di felicità, o per lo meno di consolazione.
Secondo il neonato romanticismo, già a partire dal movimento dello Sturm und drang della de Stäel, le arti dovevano avere il compito di agire sull’anima e non più quello di rappresentare la natura, come nei secoli precedenti. L’arte che meglio assurge a questo nuovo incarico è la musica («De tous les beaux-arts c’est (la musique) celui qui agit le plus immédiatement sur l’ame» ) e tutte le arti devo tendere a ciò che essa fa: esprimere «il vago e l’infinito del sentimento» . Per questo Leopardi ama utilizzare nei suoi Canti quelle immagini che ispirano idee e pensieri indefiniti e che lasciano largo spazio alla fantasia del lettore, così come dello scrittore che, nello scrivere e nell’immaginare, finge a se stesso un mondo quieto e silenzioso, in cui l’uomo si sente beato anche se solo, lontano da ogni fatica e dolore. Quel mondo ineffabile ed inafferrabile che solo l’Arte può rivelare.

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.



(1) p. 85
(2) p. 51
(3) 12-23 luglio 1820, pp. 165 e ss.
(4) Franco Ferrucci, Il poema del desiderio: poetica e passione in Dante, Leonardo editore, Milano, 1990
(5) Giacomo Leopardi, Storia del genere umano in Operette Morali, in Opere di Leopardi, Mursia, Milano, 1968, p. 138
(6) Par. IV, 124-129
(7) p. 40. L’argomento è ripreso anche a p. 44
(8) 12-23 luglio 1820, p. 179
(9) Zibaldone, p. 15
(10) p. 76
(11) Consalvo, vv. 2-5
(12) Le ricordanze, vv. 104-118
(13) ivi, vv. 100-101. Si tratta di una citazione da Foscolo, In morte del fratello Giovanni, 12. Espressione del tutto analoga si trova anche in Petrarca, Canzoniere, 268
(14) Amleto, Atto III, Scena I, trad. Goffredo Raponi
(15) p. 66
(16) p. 59
(17) Consalvo, vv. 123-126
(18) Amore e morte, vv. 5-9
(19) Amore e morte, v. 92
(20) Zibaldone, p. 4418
(21) ivi
(22) De Stäel, citata da Leopardi nello Zibaldone, p. 79
(23) ivi