Gianluca Cavallo
Il pittore Clarke, protagonista di Arden of Feversham (elaborazione da un anonimo elisabettiano), lavoro teatrale di Carmelo Bene, lavora in maniera inconsueta. In apertura, infatti, egli, "ispirandosi a un tavolo dipinto, sta dipingendo (o meglio sta tingendone) uno vero, in una scena in cui ad ogni elemento reale ne corrisponde uno dipinto. Egli è innamorato di Susanna e riesce a trovare un momento per ritrarla dal vivo, osservandola dinanzi a sè "immobile, composta e vestitissima. Il sistema di Clarke è stravagante: egli lavora infatti di pennello sul viso e sul corpo di Susanna, prendendo il ritratto di lei a modello: le dà il rosso alla bocca, il verde agli occhi, tenta più volte, scontento, il colore dei capelli. Il dipinto addossato al cavalletto ritrae Susanna un po’ discinta. Così lui cerca di scoprirle un seno. Lei non vuole, si ribella, si abbandona infine al capolavoro." Questa immagine mi ha colpito molto: un artista che ritrae una donna perfetta e quando la guarda, viva e reale, si accorge che non è così come l'ha ritratta, ossia come la vorrebbe, e cerca di adeguare la realtà alla sua idea, perfetta o comunque di certo migliore, per lui, della reale immagine. E Susanna inizialmente si ritrae, ma poi cede, evidentemente vinta lei stessa dalla perfezione del dipinto, e si lascia truccare dall'artista. A Clarke sembra di aver fatto un buon lavoro e dopo un po’ esclama: "...il pittore toglie ora i suoi colori dal vivo, il suo pennello non ritrae più l'ombra del suo amore. Susanna è mia!". Ma da quel momento si accorge che vorrebbe dominare a suo piacimento ogni aspetto dell'amata, perché questa non si allontani dalla perfezione che egli ha in mente. E così, quando il fratello di Susanna che l'ha promessa in moglie al pittore tira in ballo la storia del matrimonio, Clarke "quasi preferendola arrossire all'idea brutale del matrimonio, le dipinge due rossi sulle gote".
Questo modo di procedere nella creazione artistica, tuttavia, non è l'unica peculiarità del maestro: Clarke sa anche produrre opere "avvelenate", "in tal guisa che chiunque si fosse trovato ad affissarvi lo sguardo, verrebbe accecato e soffocato dalle sue esalazioni". In tal modo Clarke ha il potere di uccidere, avvelenando gli spettatori, mostrando loro qualcosa di straordinario: una realtà fittizia la cui perfezione è superiore a qualsiasi concretezza. Come afferma Gillo Dorfles (Le oscillazioni del gusto), citato da Bene nel testo teatrale stesso, "valendosi d'un genere di comunicazione che salta a piè pari la barriera della razionalità, che prescinde l'intelletto, che prescinde persino dalla nostra ragione, l'arte è in grado di agire in profondità, realizzando un genere di informazione che s'esercita in prevalenza sul nostro sentimento". Ma l'arte è illusoria e il testo di Bene ci riporta con i piedi per terra, a renderci conto di cosa sia la realtà, ingrata, imperfetta, crudele. Per Clarke "la circostanza, ahimè, di essersi innamorato di Susanna - Susanna è la realtà di una sua idea - che può andarsene perché umana e non esistere perché idea, lo mette in crisi. La cerca nella veste di lei, abbandonata sopra una seggiola, di fronte al dipinto ispiratore". Il dipinto ispiratore: che vuole dire? Clarke vuole modellare la realtà ispirandosi al dipinto, al contrario del procedimento consueto secondo cui gli artisti creano ispirandosi al reale. Continuiamo: "Susanna se n'è andata. Il pittore, stringendo la veste, sente che manca il suo capolavoro". Il suo capolavoro non è il dipinto, ma è Susanna, quella su cui lui ha lavorato per renderla il più simile possibile a quella perfetta. Ma lei è sfuggita a questo lavoro, perché umana. Allora Clarke si mette a parlare con se stesso prendendosi in giro, constatando la vanità di tutto ciò che immagina possibile e in cui spera, ("Ma chi è costui? Il pittore, il mio rivale, colui che vorrebbe conquistarsi monna Susanna...") e "gli tremano le mani e nelle mani la veste e nella veste non c'è lei a tremare". Lui non riuscirà mai ad avere Susanna o, almeno, non la Susanna che vorrebbe. "Tutta l'arte è completamente inutile". Ma Clarke si prende la sua bella rivincita. Elimina dalla scena tutti gli oggetti reali, il tavolo, le sedie, gli sgabelli, introducendo al posto di questi una scena con gli stessi elementi, ma fittizi, dipinti cioè. "Allo sguardo la scena non cambia, - lo sguardo non adopera le cose -". E Clarke, per evitare di essere incolpato di tutta la catastrofe che ne seguirà, "si autoritrae" lasciando di sè solo un'immagine dipinta che "i nostri attori crederanno presente e ancora utile". In più modifica l’ambientazione. Così, sul finire dell'opera, un caos micidiale: tutto ciò che esisteva ora non esiste più e si ritrovano tutti impossibilitati nell'azione e "veri in un ambiente finto, inattuale" e sono completamente spaesati, vittime di un feroce anacronismo. Soltanto Alice (presentata all'inizio come l'unico personaggio giovane, mentre gli altri hanno tutti "età non inferiore a novant'anni"), uccidendo il marito (se volete sapere perché leggetevi l'opera e se vi leggete l'opera scusate se vi rivelo il finale) rientra "traverso il crimine, in una tradizione costante della vita umana", sfuggendo all'anacronismo.
In questa pièce teatrale, la realtà immaginaria entra prepotentemente nella realtà effettiva, e l'uomo è impotente di fronte all'una come all'altra. L'uomo è legato ai suoi oggetti materiali e alle usanze della propria epoca e soltanto su queste può fare affidamento perché, nell'arco temporale della propria vita, può supporre che non gli verranno a mancare. Ma se questo avviene, è del tutto impotente, e si appella alla "condizione umana: l'evoluzionismo o la morte". Cioè, mi pare di capire, o un abbandono allo "squallore", come "vecchi" sradicati dal loro passato e costretti in una realtà che non è la loro e a cui pochi si sanno adeguare, oppure la morte. Né l'uomo può rifugiarsi nella realtà fittizia: essa è solo il prodotto della mente che può estrinsecarsi in un'opera artistica, ma il corrispondente reale non assumerà mai le fattezze attribuitegli.
Tutti gli altri aspetti della realtà non ci danno sicurezza e sono ingannevoli: Susanna "può andarsene perché umana", è capricciosa, imperfetta, schizofrenica, come sono tutti i personaggi dell'opera. Inoltre tutto ciò che osserviamo si può poi rivelare diverso da come l’avevamo visto e pensato o, comunque, ciascuno di noi guarda le cose secondo il proprio occhio, dentro la propria “cornice”, rispetto alla quale “tutti gli altri sono solo turisti”, che non condividono pensieri ed emozioni con noi che vediamo una certa immagine in un certo modo. Ne Il rosa e il nero, l'uomo guarda dentro una cornice pensando di vedere un quadro, mentre in realtà la cornice è appoggiata su un affresco. E così l'uomo pone la sua fede nella cornice, non nell’immagine. "La sua fede è la vanità"…
Questo modo di procedere nella creazione artistica, tuttavia, non è l'unica peculiarità del maestro: Clarke sa anche produrre opere "avvelenate", "in tal guisa che chiunque si fosse trovato ad affissarvi lo sguardo, verrebbe accecato e soffocato dalle sue esalazioni". In tal modo Clarke ha il potere di uccidere, avvelenando gli spettatori, mostrando loro qualcosa di straordinario: una realtà fittizia la cui perfezione è superiore a qualsiasi concretezza. Come afferma Gillo Dorfles (Le oscillazioni del gusto), citato da Bene nel testo teatrale stesso, "valendosi d'un genere di comunicazione che salta a piè pari la barriera della razionalità, che prescinde l'intelletto, che prescinde persino dalla nostra ragione, l'arte è in grado di agire in profondità, realizzando un genere di informazione che s'esercita in prevalenza sul nostro sentimento". Ma l'arte è illusoria e il testo di Bene ci riporta con i piedi per terra, a renderci conto di cosa sia la realtà, ingrata, imperfetta, crudele. Per Clarke "la circostanza, ahimè, di essersi innamorato di Susanna - Susanna è la realtà di una sua idea - che può andarsene perché umana e non esistere perché idea, lo mette in crisi. La cerca nella veste di lei, abbandonata sopra una seggiola, di fronte al dipinto ispiratore". Il dipinto ispiratore: che vuole dire? Clarke vuole modellare la realtà ispirandosi al dipinto, al contrario del procedimento consueto secondo cui gli artisti creano ispirandosi al reale. Continuiamo: "Susanna se n'è andata. Il pittore, stringendo la veste, sente che manca il suo capolavoro". Il suo capolavoro non è il dipinto, ma è Susanna, quella su cui lui ha lavorato per renderla il più simile possibile a quella perfetta. Ma lei è sfuggita a questo lavoro, perché umana. Allora Clarke si mette a parlare con se stesso prendendosi in giro, constatando la vanità di tutto ciò che immagina possibile e in cui spera, ("Ma chi è costui? Il pittore, il mio rivale, colui che vorrebbe conquistarsi monna Susanna...") e "gli tremano le mani e nelle mani la veste e nella veste non c'è lei a tremare". Lui non riuscirà mai ad avere Susanna o, almeno, non la Susanna che vorrebbe. "Tutta l'arte è completamente inutile". Ma Clarke si prende la sua bella rivincita. Elimina dalla scena tutti gli oggetti reali, il tavolo, le sedie, gli sgabelli, introducendo al posto di questi una scena con gli stessi elementi, ma fittizi, dipinti cioè. "Allo sguardo la scena non cambia, - lo sguardo non adopera le cose -". E Clarke, per evitare di essere incolpato di tutta la catastrofe che ne seguirà, "si autoritrae" lasciando di sè solo un'immagine dipinta che "i nostri attori crederanno presente e ancora utile". In più modifica l’ambientazione. Così, sul finire dell'opera, un caos micidiale: tutto ciò che esisteva ora non esiste più e si ritrovano tutti impossibilitati nell'azione e "veri in un ambiente finto, inattuale" e sono completamente spaesati, vittime di un feroce anacronismo. Soltanto Alice (presentata all'inizio come l'unico personaggio giovane, mentre gli altri hanno tutti "età non inferiore a novant'anni"), uccidendo il marito (se volete sapere perché leggetevi l'opera e se vi leggete l'opera scusate se vi rivelo il finale) rientra "traverso il crimine, in una tradizione costante della vita umana", sfuggendo all'anacronismo.
In questa pièce teatrale, la realtà immaginaria entra prepotentemente nella realtà effettiva, e l'uomo è impotente di fronte all'una come all'altra. L'uomo è legato ai suoi oggetti materiali e alle usanze della propria epoca e soltanto su queste può fare affidamento perché, nell'arco temporale della propria vita, può supporre che non gli verranno a mancare. Ma se questo avviene, è del tutto impotente, e si appella alla "condizione umana: l'evoluzionismo o la morte". Cioè, mi pare di capire, o un abbandono allo "squallore", come "vecchi" sradicati dal loro passato e costretti in una realtà che non è la loro e a cui pochi si sanno adeguare, oppure la morte. Né l'uomo può rifugiarsi nella realtà fittizia: essa è solo il prodotto della mente che può estrinsecarsi in un'opera artistica, ma il corrispondente reale non assumerà mai le fattezze attribuitegli.
Tutti gli altri aspetti della realtà non ci danno sicurezza e sono ingannevoli: Susanna "può andarsene perché umana", è capricciosa, imperfetta, schizofrenica, come sono tutti i personaggi dell'opera. Inoltre tutto ciò che osserviamo si può poi rivelare diverso da come l’avevamo visto e pensato o, comunque, ciascuno di noi guarda le cose secondo il proprio occhio, dentro la propria “cornice”, rispetto alla quale “tutti gli altri sono solo turisti”, che non condividono pensieri ed emozioni con noi che vediamo una certa immagine in un certo modo. Ne Il rosa e il nero, l'uomo guarda dentro una cornice pensando di vedere un quadro, mentre in realtà la cornice è appoggiata su un affresco. E così l'uomo pone la sua fede nella cornice, non nell’immagine. "La sua fede è la vanità"…
Arden of Feversham e Il rosa e il nero si trovano solo in Carmelo Bene, Opere, Bompiani.
3 commenti:
Che bello questo blog,meravigliose immagini, quanto a Carmelo Bene vorrei poter asistere a il Rosa e Il Nero, che lui considerava insieme a Giuseppe Desa Da Copertino, testo di rara potenza barbarica, il suo capolavoro. Ninete da fare, forse non li hanno neanche nelle segrete degli archivi di Stato, mentre la televisione, me ne sono disfatto apposta, continuava a propalarci i rettili Beningi e Fo, che ho letto in giro avrebbe Universalizzato Dante. La gente è idiota. Benighni ha universalizzato se stesso altro che Dante, non conta il testo ma chi c'è dietro, non c'è bisogno di essere esegeti di Bene per capire questo. Contattatemi sul mio blog http://blog.libero.it/forzapoetica
Andrea Foschini
Sì, non credo che sia reperibile Il rosa e il nero, purtroppo.
A me francamente Benigni piace abbastanza. E' vero che è stato Bene il primo a leggere pubblicamente Dante ed è altrettanto vero che Bene era un artista di molto superiore a Benigni. Sono due figure completamente diverse, ma Benigni non mi dispiace.
Fo invece mi è più indigesto.
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