martedì 27 gennaio 2015

Dal potere pastorale al neoliberalismo: l'analisi di Foucault

Di seguito il riassunto (preparato per un esame) dei due testi di Foucault Sicurezza, territorio, popolazione e Nascita della biopolitica.



Introduzione

Alla fine degli anni Settanta, durante i suoi corsi al Collège de France noti con i titoli rispettivi di Sicurezza, territorio, popolazione (1977-78)[1] e Nascita della biopolitica (1978-79)[2], Michel Foucault ha tracciato lo schizzo di una storia della «governamentalità», ossia delle tecniche di governo sviluppatesi in Occidente durante l’età moderna e che hanno plasmato le forme della convivenza politica caratteristiche dei secoli della nostra storia, nonché del nostro presente. È chiaro, infatti, che se, da un lato, la storia da egli tracciata permette di cogliere le peculiarità propria di ciascuna forma del potere, e dunque di fornire maggiore profondità all’ermeneutica del fatto storico, dall’altro essa ci pone di fronte alcuni elementi che, anziché scomparire per lasciar posto ai successivi, si sono con il tempo modificati, hanno subito torsioni concettuali e pratiche, continuando comunque a costituire la trama dei complessi rapporti che si instaurano fra il governo, lo stato, la popolazione e gli individui. La storia tracciata da Foucault si sottrae alle più note schematizzazioni o, potremmo dire, grandi narrazioni della modernità, quali la teoria della secolarizzazione, quella del progresso politico in termini di libertà, diritti e democrazia, così come alle più celebri critiche, come la derivazione marxista dei mutamenti istituzionali dai rapporti di produzione. Piuttosto, egli individua nelle esigenze specifiche della razionalità governamentale i tratti caratteristici che spingono verso il mutamento di paradigma concettuale, nonché verso la metamorfosi delle strutture di potere. Ogni forma di potere nasce in seno alla crisi di quella che l’ha preceduta, quando l’emergere di contraddizioni performative fa saltare progressivamente ogni pilastro sul quale si reggeva. È una storia, quindi, che molto banalmente svela la costante imperfezione dell’organizzazione sociale, ma anche la razionalità propria di ciascuna, per cui non esiste né progresso, né regresso.
L’analisi di Foucault prende in considerazione, in realtà, anche quella tecnica di governo che egli denomina «pastorale» e che caratterizza piuttosto il Medioevo che non l’età moderna. Il rapporto pastorale è in realtà ancora più antico, dato che le sue origini possono essere rintracciate nella tradizione orientale e, in particolare, per quel che concerne la sua influenza sul mondo Occidentale, presso la cultura ebraica, nonché in alcuni elementi della cultura greca, dove però il tema legato alla metafora del pastore e del gregge si riferisce ad ambienti circoscritti e limitati, come le comunità pitagoriche. Sarà il cristianesimo a fare del potere pastorale una pratica di governo diffusa, che si configura come un governo degli uomini, dei singoli individui, passando attraverso la cura delle anime.
Il compito del pastore è quello di condurre il proprio gregge alla salvezza, mèta escatologica dalla quale nessuno può essere escluso, sicché egli deve prendersi cura di ogni singola pecora, conoscerla a fondo e eventualmente sacrificare la cura del gregge in suo favore. Si instaura in realtà un rapporto paradossale, tale per cui ogni singola pecora vale più del gregge, e tuttavia è l’intero gregge che, idealmente, dovrebbe essere condotto.
Al gregge è richiesta obbedienza assoluta nei confronti del pastore, il quale è portatore della legge e della verità, ma che, al contempo, dev’essere disposto a sacrificare la sua stessa vita, e la sua stessa salvezza, per il gregge, nel tentativo di far emergere quella verità, che egli conosce, dal profondo delle anime.
Il potere agisce quindi sulla peculiare individualità di ciascuno, favorendo un processo di soggettivazione che ha segnato profondamente la cultura occidentale: il singolo è portato a sondare le profondità del proprio sé, per conoscere i propri desideri e combattere le proprie pulsioni verso il peccato, nonché, al limite, per annullare la propria volontà in nome della completa obbedienza al pastore.



Lo Stato di polizia

Verso la fine del XVI secolo emerge un’arte di governo che si distanzia gradualmente dal pastorato, in quanto viene a mancare il riferimento a Dio quale origine e fine ultimo tanto della natura quanto del consorzio umano; emerge quindi il problema di definire una forma di governo specifica e autonoma. Questa è l’epoca dell’astronomia di Copernico e Keplero, della fisica di Galileo, della storia naturale di John Ray e della grammatica di Port-Royal, ossia è l’epoca in cui emerge la consapevolezza che, se Dio governa il mondo, non lo fa attraverso la sua propria e imperscrutabile volontà, ma mediante leggi generali, immutabili e universali, che costituiscono, per così dire, la logica stessa del creato, che Dio ha stabilito e alla quale non si sottrae (cfr. STP, 171).
Il sovrano perde gradualmente il compito di farsi interprete in terra della volontà di Dio, così come quello di condurre il suo popolo verso la salvezza; d’altra parte, al sovrano è ora chiesto di governare secondo principi propri, che non possono essere ricavati da Dio né dall’ordine naturale, ma debbono riguardare in modo specifico la res publica. È così che prendono forma una riflessione e una pratica legate al tema della «ragion di stato», intesa – per esempio da Botero – come quel tipo di razionalità necessaria a mantenere e conservare lo stato nel suo funzionamento quotidiano e nelle sue dinamiche peculiari (STP, 174-76). La ragion di stato venne percepita come qualcosa di radicalmente nuovo, perfino eterodosso e diabolico (Pio V la definì ratio diaboli, anziché ratio status; STP, 177), proposto da uomini privi di fede, che pretendono di sostituire al cristianesimo una «statolatria», tale per cui il fine dell’azione politica non è più ricondotto alla salvezza delle anime, ma alla sussistenza dello stato stesso. Si tratta di una pratica autoreferenziale, per cui il sovrano agisce con l’unico scopo di mantenere lo stato, ossia – sostenevano i critici della ragion di stato – se stesso. Avanzando questa critica, i detrattori della nuova arte di governo sostenevano che si trattasse di puro machiavellismo, di una cinica strategia del principe per difendere il proprio potere personale e i propri interessi. Eppure, i teorici della ragion di stato si distanziavano a loro volta da Machiavelli, poiché ciò che essi intendevano era completamente diverso: non è l’interesse del principe a dover essere difeso, ma quello dello stato nella sua interezza; non tanto il potere individuale del sovrano, quanto la ricchezza e la prosperità dello stato.
 La differenza che passa fra l’interesse del principe e quello dello stato segna l’inizio della pratica moderna di governo, con la comparsa di un sapere specifico: la statistica. Con questo termine, che etimologicamente significa «conoscenza dello stato», si devono intendere tutte quelle conoscenze relative alla popolazione (dimensione, tasso di natalità e mortalità, stratificazione delle ricchezze, capacità produttive, rapporti commerciali) che d’ora in poi saranno la base dell’azione di governo. La popolazione non compare ancora, a quest’epoca, come soggetto autonomo, quanto come oggetto del potere. Il sovrano, che ha di mira la prosperità dello stato, governa la popolazione; il mezzo mediante il quale tale governo si esplica è l’amministrazione, che si fa sempre più complessa e diffusa, venendo ad assumere non tanto il ruolo di esecutrice della volontà del sovrano, quanto quello di un «apparato di sapere» (STP, 201) essenziale all’esercizio del potere.
Questo apparato amministrativo, che ha per scopo la prosperità dello stato, coincide con quella che all’epoca era chiamata «polizia». Se essa è lo strumento per fare in modo che le forze dello stato crescano al massimo, va considerato anche che la prosperità di un singolo stato dev’essere inserita in una rete di relazioni politiche ed economiche che in un certo senso la limitano, ma anche la favoriscono. Le relazioni fra gli stati sono infatti ora intese come relazioni di commercio, che devono essere favorite dal mantenimento di una condizione di pace e da relazioni politiche di collaborazione. È in questo contesto che matura l’idea di un equilibrio europeo e che nasce la diplomazia permanente.
Ogni stato deve avere la sua polizia, perché se lo sviluppo delle polizie fosse diseguale si genererebbero dei fattori di disequilibrio nel panorama internazionale. Ogni stato è perciò interessato alla statistica degli altri paesi: ciascuno deve conoscere la popolazione, l’esercito, le risorse e la produzione, il commercio, eccetera, dei suoi vicini. Con questo sistema di reciproca conoscenza, si fonda un equilibrio che prevede che nessuno stato debba svilupparsi eccessivamente rispetto alla media, affinché non si creino tensioni e rapporti di forza che potrebbero portare a nuove guerre.
La polizia comprende, fra le sue funzioni, accanto alle tre istituzioni tradizionali della giustizia, dell’esercito e della finanza, il governo della popolazione, del quale Foucault sottolinea quattro scopi principali: innanzitutto, il numero degli uomini, che, in base alla dottrina mercantilista adottata all’epoca, deve essere il maggiore possibile, in modo da mantenere bassi i salari e di conseguenza i prezzi delle merci, così da poterle vendere facilmente all’estero e accumulare oro nelle riserve del sovrano. In secondo luogo, il governo della popolazione si occupa di assicurare i beni necessari alla vita degli uomini, il che implica tanto una politica agricola quanto un controllo della commercializzazione delle derrate alimentari, della loro circolazione e della loro presenza nelle scorte per i periodi di scarsità.
Il terzo obiettivo della polizia amministrativa è quello della sanità, la cui qualità è indispensabile affinché gli uomini possano lavorare di più; ciò implica una precisa politica urbana, attenta all’esistenza delle necessarie infrastrutture. Infine, la polizia dovrà badare che gli uomini, numerosi, ben nutriti e in buona salute, siano attivi. Essa si prenderà cura dell’organizzazione dei mestieri e della produzione ai fini dell’utilità generale, nonché della messa a lavoro di tutti i poveri idonei. Con ciò, la polizia dovrà anche porre attenzione alla circolazione delle merci, fornendo le infrastrutture necessarie e istituendo regolamenti precisi, con obblighi e divieti ovvero con facilitazioni e stimoli.
In una parola – usata del resto anche dai teorici dello stato di polizia del XVIII secolo – la polizia si occupa della società. Foucault sintetizza così l’intero funzionamento di questo apparato: «con la polizia (…) si disegna un cerchio che parte dallo stato, come potere di intervento razionale e calcolato sugli individui, e ritorna allo stato, come insieme di forze di crescita o da far crescere, passando per la vita degli individui, che ora, in quanto semplice vita, diventa preziosa per lo stato» (STP, 237).
Questo, dunque, è anche l’atto di nascita della biopolitica, in quanto la vita biologica degli individui diviene per la prima volta importante agli occhi di chi governa. Essa assume tale valore in quanto gli uomini contribuiscono alla ricchezza e alla forza dello stato dello stato: essi sono un potenziale esercito in caso di necessità, una garanzia di gettito fiscale, forze produttive per l’agricoltura e la manifattura, punti di scambi di mercato. La vita non è un valore in sé, ma in quanto essenziale agli scopi del governo. La biopolitica nasce perciò nel momento in cui nella pratica di governo la politica di potenza incrocia l’approccio mercantilista all’economia nazionale[3].



Il liberalismo classico

Lo stato di polizia entra in crisi intorno alla metà del XVIII secolo, quando le sue pratiche cominciano ad essere contestate dagli economisti fisiocrati, che si oppongono ai mercantilisti. La politica che questi ultimi avevano ispirato non era stata efficace nel prevenire la scarsità dei cereali. I fisiocrati reintroducono l’agricoltura – e, con essa, il benessere dei contadini – quale elemento fondamentale dell’economia nazionale. Dal punto di vista economico, essi sostengono che l’azione di governo volta a tenere bassi i prezzi di produzione e di vendita sono controproducenti in quanto agiscono, per così dire, contro natura. Esistono specifiche leggi dei mercati, le quali determinano autonomamente il prezzo delle merci, stabilendolo a un livello medio in grado di riequilibrare, a livello internazionale, le ineguali capacità produttive. Se si agisce contro questi meccanismi spontanei del mercato, si avranno conseguenze opposte a quelle volute, e per di più scarsamente controllabili.
I fisiocrati criticano anche l’assunto fondamentale del mercantilismo circa le dinamiche di popolazione: il numero degli individui non è un valore in sé; esiste sì un numero ottimale, ma questo non può essere stabilito d’autorità, in quanto dipende da fattori aleatori, i quali soltanto possono fungere da meccanismo efficace nel determinare gli spostamenti e quindi la grandezza quantitativa delle popolazioni.
Inoltre, le relazioni commerciali fra gli stati, secondo i fisiocrati, non possono essere basate sul tentativo di vendere tutta la merce possibile per importare oro, bensì devono essere determinate dalla libera concorrenza dei produttori privati, la quale genererà una maggiore circolazione delle merci e sarà in grado di stabilizzarne i prezzi «naturali». L’arricchimento di un singolo paese non può stabilizzarsi sul lungo periodo se avviene a scapito della ricchezza dei vicini; solo l’arricchimento reciproco può garantire una buona qualità della vita nel tempo.
Nasce così una nuova idea di concorrenza e di equilibrio fra gli stati, che porta l’Europa a concepirsi come un soggetto economico collettivo che deve spingersi avanti verso un progresso illimitato. Ma perché ciò sia possibile è necessario ampliare sempre più il mercato cui l’Europa può rivolgersi, sicché i paesi europei sono spinti a vedere la loro espansione coloniale come condizione per il mantenimento dell’equilibrio europeo. (NBP, 57-58)
Come all’inizio del XVII secolo era sorta quella setta eterodossa costituita dai politici, sostenitori della ragion di stato, verso la metà del XVIII sono gli economisti, i fisiocrati, a costituire l’eresia rispetto allo stato di polizia e alla sua razionalità intrinseca. Non che l’arte di governo permeata dalla razionalità economica venga a sostituire la ragion di stato; piuttosto a quest’ultima viene fornito un nuovo mezzo strategico di azione. Si tratterà ancora di perseguire l’obiettivo dell’aumento delle forze dello stato rispettando un certo equilibrio di forze europee, ma la tecnica di governo dovrà ora servirsi di un nuovo sapere, che limita l’azione della polizia in nome dell’autonomia del mercato: l’economia politica.
Nell’epoca dello stato di polizia ciò che poteva limitare il potere era un principio ad esso esterno: il diritto, nella forma di leggi fondamentali del regno cui anche il sovrano deve sottostare, o nella forma di diritti naturali che egli deve riconoscere agli individui. Con l’emergere dell’economia politica quale sapere che avanza specifiche pretese di verità nei confronti del governo, troviamo invece un limite interno alla stessa ragion di stato, la quale deve adottare una razionalità nuova per ottenere i suoi obiettivi. L’economia politica si propone dunque come strumento, instaurando una nuova relazione fra sapere e potere, ma senza segnare una rottura radicale; essa «riprende (…) puntualmente gli stessi obiettivi della ragion di stato, e che lo stato di polizia, il mercantilismo e la bilancia europea avevano cercato di conseguire» (NBP, 25).
Ancora una volta, ciò non significa che il diritto non svolga più alcuna funzione, ma la questione principale, o quanto meno la novità dell’epoca, è costituita dal fatto che il potere non viene più interrogato nella sua legittimità, ossia sulla base del diritto, ma nella sua utilità pubblica, cioè sulla base dell’economia politica. La filosofia utilitaristica, come mostra Foucault, costituisce, insieme all’economia politica, una «tecnologia politica» (NBP, 48) nuova, il cui compito è indicare una strategia d’azione a partire dalla seguente domanda: «qual è il valore di utilità del governo, e di tutte le azioni del governo, in una società in cui è lo scambio a determinare il vero valore delle cose?» (NBP, 53).
La società – la «società civile» – non dev’essere più l’oggetto di un’amministrazione minuziosa, bensì l’«interfaccia dello stato» (STP, 254), un ambito che obbedisce a leggi proprie e che «non si può pensare come semplice prodotto e risultato dello stato» (ibid.). Allo stesso modo, il concetto di popolazione subisce uno slittamento semantico: con lo stato di polizia, si trattava soprattutto di allargare il numero di individui e di assicurare loro cibo, sanità e lavoro. Ora emerge invece la popolazione come insieme di individui le cui interazioni producono effetti e instaurano legami che non sono quelli costituiti e voluti dallo stato, bensì sono il frutto «naturale» della meccanica degli interessi. Come scrive Foucault, «ecco che la popolazione si rivela una realtà ben più densa, consistente, naturale di quella serie di soggetti sottomessi al sovrano e all’intervento della polizia» (STP, 256).
Si tratta di una realtà densa non soltanto perché dotata di un contenuto e un funzionamento proprio, ma anche perché impermeabile allo sguardo del sovrano, il quale non ha la possibilità di conoscere a priori gli effetti non voluti dell’interazione. Questo è uno dei significati che si possono attribuire alla celebre «mano invisibile» di Adam Smith: è impossibile, per il sovrano, avere una conoscenza totalizzante del processo economico. La mano invisibile, che combina gli interessi egoistici di ciascuno generando il bene collettivo, nega validità all’azione normativa del governo in ambito economico non solo sul piano normativo, affermando che essa non è auspicabile, ma anche sul piano epistemologico, affermando che essa è impossibile, in quanto richiederebbe una conoscenza complessiva che il sovrano non può aspirare ad ottenere (cfr. NBP, 229-230).
Il governo dovrà dunque rispettare la naturalità dei meccanismi di mercato; non dovrà più regolamentare, bensì facilitare, lasciar fare, gestire. Lo scopo sarà ora quello di comprendere questi fenomeni «naturali» per evitare che essi vengano deviati. Bisognerà, perciò, mettere a punto dei meccanismi di sicurezza, ad esempio al fine di evitare la scarsità dei cereali. Lasciando liberi i meccanismi di mercato, non ci potrà essere scarsità generale, perché quando i prezzi aumentano in condizione di scarsità, i commercianti di altri paesi avranno interesse a portare i loro cereali, finché il prezzo si stabilizzerà. Anziché imporre un prezzo basso per garantire a ogni individuo l’accesso al consumo, salvo poi dover constatare che i produttori tendono a non vendere i loro prodotti in momenti di scarsità, si dovrà piuttosto garantire una media di accesso al consumo, tale da garantire la scomparsa del fenomeno generale della scarsità. Può darsi che alcuni individui muoiano di fame, ma non è questo che importa al governo, il quale punta alla sicurezza della popolazione, non dei singoli individui.
La libertà che si lascia agli agenti privati della società civile, in cerca della massimizzazione dei propri profitti, è però inscritta in una preciso quadro che individua cosa è lecito e cosa non lo è, che corrisponde rispettivamente a ciò che consente al mercato di funzionare come un meccanismo naturale e ciò che lo impedisce. Foucault invita a immaginare «il caso di un mercato cittadino in cui la gente non attenda, non sopporti la rarità, non sopporti che il grano sia caro e non accetti di acquistarne poco, di avere fame, non attenda insomma che il grano giunga in quantità sufficiente da far scendere il prezzo (…) la gente che si precipita sugli approvvigionamenti e ne fa incetta magari senza pagarli e (…) alcune persone che accumulano il grano irrazionalmente e oltre misura» (STP, 44). Se ciò accadesse, il meccanismo sarebbe inceppato; la libertà, perciò, va limitata. Ciò che va difeso, piuttosto, è la libertà del mercato, o meglio, di quegli agenti che rispettano i meccanismi naturali del mercato, i quali dettano la linea della politica del governo. È questo il principio fondamentale del liberalismo: «fare in modo che la realtà si sviluppi, proceda e segua il suo corso secondo le leggi, i principi e i meccanismi propri della realtà» (STP, 47).
In effetti, come chiarisce Foucault, il liberalismo non è (almeno, non necessariamente) una forma di gestione della società che concede una quantità maggiore di libertà agli individui. La libertà del liberalismo non è altro che uno strumento del potere, che definisce il rapporto tra governanti e governati e che organizza la società. La nuova ragione di governo ha «bisogno di libertà» e in questo senso Foucault dice che essa «consuma libertà» e di conseguenza è obbligata a produrla e a organizzarla (NBP, 65): «da un lato, dunque, occorre produrre la libertà, ma questo stesso gesto implica, dall’altro, che si stabiliscano delle limitazioni, dei controlli, delle coercizioni, delle obbligazioni sostenute da minacce, e così via» (NBP, 66).
Questa libertà, di cui il governo ha bisogno, è determinata da una specifica proporzione tra gli interessi individuali e l’interesse collettivo. La sicurezza dello stato dovrà fare in modo che l’interesse individuale non sia mai tale da compromettere l’interesse collettivo e al contempo dovrà vigilare che l’interesse collettivo non prevalga mai sul libero gioco degli interessi privati. È il «rapporto tra libertà e sicurezza» ad essere fondamentale per la governamentalità liberale (NBP, 67).
La fragilità di questo rapporto è la causa delle «crisi di governamentalità», causate da un aumento del costo economico per la produzione di libertà, ossia dalla necessità di intervenire direttamente nei meccanismi del mercato per garantire le libertà democratiche sancite dal diritto oppure di sacrificare alcuni diritti in nome del funzionamento del mercato (come accade attualmente). Ed è proprio nel frangente di una simile crisi che è nata una razionalità liberale per molti aspetti nuova, ossia il neoliberalismo, delle cui strategie oggi siamo testimoni.



Il neoliberalismo

I primi teorici neoliberali, tanto tedeschi quanto americani (essendo Friburgo e Chicago i principali centri in cui questa nuova razionalità governamentale si è sviluppata), hanno fatto leva su quelli che essi hanno individuato come difetti dell’intervento pubblico per costruire il loro impianto teorico, volto a sostituire alla tradizionale dicotomia tra capitalismo e socialismo quella tra liberalismo e qualunque forma di interventismo economico, fosse esso ispirato alla dottrina keynesiana, o una pianificazione volta all’autarchia, come quella messa in atto dai nazisti. Mediante studi di storia economica e giuridica, i teorici neoliberali hanno sostenuto che esiste una sostanziale analogia all’interno di regimi tanto diversi come il nazismo e il piano Beveridge, l’Unione Sovietica e il New Deal.
Il rapporto tra libertà e sicurezza nel neoliberalismo è strutturato in maniera tale da escludere qualunque intervento pubblico diretto nei meccanismi di mercato. La sicurezza deve agire indirettamente sul mercato, in modo da rendere possibile a quest’ultimo di fungere da regolatore di ogni aspetto della vita sociale, dal consumo al lavoro, dall’educazione famigliare all’istruzione, dalla criminalità alla salute.
Anche il liberalismo classico sosteneva la necessità di lasciare emergere gli effetti spontaneamente prodotti dal mercato, ma con il neoliberalismo si assiste a un cambiamento di prospettiva, tale per cui, innanzitutto, non è più tanto la libertà di scambio degli agenti a dover essere salvaguardata, quanto  la libertà di concorrenza e, in secondo luogo, la libertà di concorrenza viene a caratterizzare ogni aspetto della vita individuale e sociale, mentre nella precedente teoria della società civile si teneva ben distinto il meccanismo dello scambio da ciò che costituiva il movente del legame sociale.
Inoltre, dal momento che è la concorrenza, e non più lo scambio, a dover essere salvaguardata, i neoliberali si oppongono al tradizionale imperativo rivolto al governo, quello del laissez-faire. La concorrenza non è un meccanismo naturale che può procedere autonomamente; i suoi effetti si producono solo a condizione che sia rispettata la sua propria logica, il che implica che il governo avrà il compito di assicurare specifiche condizioni di mercato che rendano possibile una reale concorrenza, il più possibile vicino al modello della concorrenza perfetta, che resta un ideale regolativo. Come scrive Foucault, «non avremo più il gioco del mercato che si deve lasciare libero, da un lato, e l’ambito in cui lo stato comincerà a intervenire, dall’altro, proprio perché il mercato, o piuttosto la concorrenza pura, che è l’essenza del mercato, potrà apparire solo se prodotta, e se lo sarà da una governamentalità attiva» (NBP, 112). Il laissez-faire viene capovolto in un «non lasciar fare il governo, in nome di una legge del mercato che dovrà permettere di misurare e valutare ciascuna delle sue attività» (NBP, 202).
In termini pratici, ciò significa che l’attività regolatrice non potrà più porsi obiettivi quali la conservazione del potere d’acquisto dei consumatori, o il mantenimento del pieno impiego, o l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Il suo scopo principale sarà la stabilità dei prezzi (che è, peraltro, lo scopo fondamentale dichiarato dalla Banca Centrale Europea), ossia il controllo dell’inflazione. Non si farà mai ricorso, dunque, a strumenti come la fissazione dei prezzi, il sostegno a un determinato settore di mercato, l’investimento pubblico a finalità occupazionale, eccetera.
Tutto ciò implica anche una rinuncia alla politica sociale del governo, ossia al cosiddetto welfare state. Innanzitutto, i teorici neoliberali rifiutano qualsiasi tentativo di stabilire una relativa uguaglianza nell’accesso ai beni di consumo, in quanto la concorrenza è favorita dalle diseguaglianze e ogni redistribuzione dei redditi non potrebbe che essere anti-economica, sottraendo risorse agli investimenti. Si tratta di assicurare a ciascuno il minimo necessario, ma in nessun caso si dovrà mirare a una fluttuazione dei redditi intorno a una media prefissata.
Inoltre occorrerà sottrare al controllo dello stato la garanzia contro i rischi, sia individuali, come le malattie o gli incidenti, sia quelli collettivi, come i disastri. Ciascun individuo dovrà provvedere da sé ad effettuare i necessari investimenti per assicurarsi la protezione in simili eventualità. Di conseguenza, l’unica politica sociale efficace è la crescita economica, la quale potrà consentire a fasce sempre più larghe di popolazione di raggiungere livelli di reddito sufficienti ad assorbire i rischi. È questo il senso di quella che un teorico come Müller-Armack ha chiamato «economia sociale di mercato» (cit. in NBP, 127), espressione che compare anche nei trattati europei sulla cui base oggi l’Unione è governata. Se nel 1979 Foucault poteva constatare che questa era «la linea di tendenza» (NBP, 128) della politica sociale, possiamo dire di non essere oggi molto distanti da ciò che egli riuscì a descrivere nei suoi corsi.
Con la logica neoliberale la concorrenza di mercato diviene una «potenza che dà forma alla società» (NBP, 131), nel senso che ogni individuo viene ad essere concepito come imprenditore di se stesso, impegnato, in concorrenza con altri agenti, a valorizzare le proprie risorse per ricavarne il massimo di utilità possibile. Questo è evidente nella teoria del «capitale umano», la cui ossatura consiste nell’analisi economica del comportamento razionale dell’individuo. Gary Becker – che, per aver esteso l’analisi economica a comportamenti non legati al mercato, ha vinto il premio Nobel nel 1992 – sostiene che sia sufficiente che la condotta di un individuo non sia aleatoria rispetto al reale, ossia che reagisca sistematicamente alle modificazioni ambientali, perché essa possa essere oggetto di un’analisi economica.
 L’individuo viene concepito dai neoliberali come il possessore di un capitale, consistente in tutti i fattori fisici e psicologici che lo caratterizzano, dal quale egli, mediante il lavoro, può ricavare un reddito. Il lavoratore è come una macchina che produce flussi di redditi: il capitale umano, esattamente come una macchina, frutterà un certo reddito nel momento in cui comincia ad essere impiegato; tale reddito aumenterà successivamente fino a raggiungere un picco in seguito al quale, in corrispondenza con il processo di obsolescenza della macchina, comincerà a scendere. L’individuo è imprenditore di se stesso non solo nel momento in cui impiega le proprie risorse mediante il lavoro: anche il consumatore, ad esempio, è un imprenditore, il cui scopo è investire risorse per produrre la propria soddisfazione. Tuttavia, l’analisi del lavoro è centrale perché è mediante il lavoro che il capitale umano produce un reddito monetario.
Occorre notare che a partire dalla nozione di capitale umano sono coinvolti tutti gli altri fattori che condizionano la vita umana, poiché ogni esperienza può costituire un incremento (o eventualmente una perdita) di capitale umano. Il primo fattore da prendere in considerazione è il patrimonio genetico, in quanto, ad esempio, un individuo esposto al rischio di malattie di carattere ereditario avrà un capitale umano inferiore rispetto a un altro. Foucault ritiene non sia da escludere un futuro scenario in cui le strategie di accoppiamento siano dettate da una simile logica: «se vorrete avere un figlio con un capitale umano elevato (…) vedete bene che sarà necessario effettuare tutto un investimento, il che significa aver lavorato a sufficienza, avere redditi sufficienti, avere uno status sociale che vi consentirà di prendere come congiunto, o come co-produttore di questo futuro capitale umano, qualcuno il cui capitale sarà a sua volta di una certa rilevanza» (NBP, 189).
Il secondo fattore di formazione del capitale è costituito da investimenti affettivi ed educativi: il tempo che i genitori dedicano ai figli, nonché il grado di cultura che essi sono in grado di trasmettere loro, l’istruzione che potranno loro garantire e finanziare, eccetera, sono tutti elementi che determineranno la futura prestazione del soggetto e dunque il reddito che egli potrà fruttare.



Conclusione

Nel discorso neoliberale sul capitale umano appare chiaramente come il fattore biologico, il corpo e la vita degli individui siano un punto di forza su cui va leva la governamentalità. Oltre alle caratteristiche sopra citate, appartengono alla formazione del capitale umano, ad esempio, la mobilità e la salute. La biopolitica come strategia di governo della popolazione appare perciò come il primo elemento che lega, pur attraversando torsioni e mutamenti di prospettiva, l’epoca dello stato di polizia, quella del liberalismo classico e la contemporaneità neoliberale.
A ben vedere, anche la ragion di stato continua ad essere un principio fondamentale per il potere. Si è detto come essa non fosse scomparso dall’orizzonte concettuale del liberalismo classico, il quale aveva fornito un nuovo strumento – l’economia politica – per raggiungere obiettivi formalmente identici. Con l’epoca neoliberale la ragion di stato viene a fondersi, entra in simbiosi, con quella che potremmo chiamare la «ragion di mercato», in quanto gli obiettivi politici non sono più distinguibili da quelli economici. La sfera economica e la sfera giuridica sono strettamente intrecciate, l’una dà forma all’altra. Ma l’attuale strategia governamentale sfrutta pur sempre quello che è lo strumento privilegiato ed essenziale della ragion di stato: quello che in origine era chiamato «colpo di stato» e che oggi chiameremmo, sulla scorta di Carl Schmitt, «stato d’eccezione».
Ciò che all’inizio del XVII era individuato con il termine «colpo di stato» è la sospensione delle leggi in vista della salvezza dello stato. Questo rivela che le leggi non sono nient’altro che il mezzo usuale mediante il quale lo stato mantiene se stesso, e perciò esse possono essere sospese o aggirate quando la necessità lo imponga. La ragion di stato eccede sempre il diritto, così come lo fonda e giustifica. Perciò non il diritto, ma «il colpo di stato è l’automanifestazione dello stato come tale» (STP, 190).
Il colpo di stato, oltre ad essere caratterizzato da necessità e urgenza, è connotato almeno potenzialmente dalla violenza. In tali situazioni estreme si è costretti a sacrificare, a commettere ingiustizie e persino a uccidere. Infine, caratteristica del colpo di stato è il suo «carattere inevitabilmente teatrale»: «il colpo di stato deve senza dubbio nascondere i suoi procedimenti e i suoi percorsi, ma deve apparire in maniera solenne nei suoi effetti e nelle ragioni che lo sostengono. (…) Tutto questo fa del colpo di stato un modo con cui il sovrano manifesta l’irruzione e la prevalenza della ragion di stato sulla legittimità nella maniera più eclatante possibile» (STP, 192).
Rispetto ad una razionalità governamentale in cui il politico e l’economico agiscono in simbiosi, che cos’è l’attuale «crisi» se non un colpo di stato, uno stato di eccezione? La caratterizzazione che Foucault ha dato di esso è assolutamente corrispondente con l’azione e la retorica dei nostri politici e degli uomini d’affari investiti di incarichi istituzionali.
Se la biopolitica e la ragion di stato legano la nostra contemporaneità all’epoca dello stato di polizia, indubbiamente è l’economia politica a costituire l’eredità più feconda dell’epoca del liberalismo classico. Nonostante le differenze sottolineate in precedenza, non va dimenticato che il modello della concorrenza perfetta risale ai classici del XVIII secolo, così come la valorizzazione della concorrenza quale elemento specifico del libero mercato appartiene al liberalismo del XIX secolo. Inoltre, l’economia politica è stata fin dall’inizio, e rimane tutt’ora, una «critica dell’azione di governo» (NBP, 232), secondo la quale il sovrano non può intervenire nei meccanismi del mercato perché non può conoscere, nella loro complessità e imprevedibilità, gli esiti delle interazioni fra gli agenti economici.
Infine, seppur quasi irriconoscibile, possiamo ritrovare nel corso della storia le caratteristiche fondamentali del potere pastorale: l’imposizione della legge, il comando all’obbedienza e la politica della verità. Nelle sue diverse forme, con i suoi differenti mezzi, in fin dei conti il potere ha a che fare proprio con questo.


[1] M. Foucault, Sécurité, territorie, population. Course au Collège de France 1977-1978, Seuil, Paris 2004, tr. it. di P. Napoli, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005. D’ora in poi citato nel corpo del testo con la sigla STP seguita dal numero di pagina dell’edizione italiana.

[2] M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979, Seuil, Paris 2004; tr. it. di M. Bertani e V. Zini, Nascita della biopolitica. Corso al Collède de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005. D’ora in poi citato nel corpo del testo con la sigla NBP seguita dal numero di pagina dell’edizione italiana.

[3] Cfr. G. Leghissa, Neoliberalismo. Un’introduzione critica, Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 46.