mercoledì 14 maggio 2014

La neutralità impossibile e i limiti del liberalismo

In questa tesina, che ho scritto per un esame, cerco di mostrare l'insostenibilità del discorso liberale, applicando le considerazioni più generali della prima parte a un caso specifico della discussione bioetica.



1. Incongruenze del discorso liberale

Gli autori di ispirazione liberale, pur con differenze tra loro, pongono come premessa del loro argomentare il principio di autonomia, in base al quale ciascun soggetto deve essere ritenuto libero di gestire a piacimento ciò che concerne la propria vita privata, anche se fosse palese la reprensibilità del suo comportamento. Com’è noto, la formulazione classica di tale principio viene dal primo capitolo del saggio Sulla libertà di John Stuart Mill, ma gli autori che lo sottoscrivono non sono impegnati, con ciò, ad adottare una prospettiva utilitaristica, secondo la quale la libertà individuale è buona perché implica una massimizzazione del piacere complessivo della società. Max Charlesworth, ad esempio, ha sostenuto che «l’autonomia individuale è un valore “assoluto” o intrinsecamente buono a prescindere da qualsiasi conseguenza, ed è per questo che risulta inadeguata una sua giustificazione utilitaristica»[1].
Assumendo come dato di fatto il pluralismo morale della società moderna, questi autori sostengono che non vi è alcuna giustificazione per imporre al collettivo una specifica visione del bene. Ogni prospettiva morale, infatti, può essere sorretta da argomentazioni razionali persuasive per coloro che la accettano, ma le stesse possono non essere valide per altri e, inoltre, anche se esse avessero, dal punto di vista razionale, una validità universale, imporle a chi non le accetta significherebbe compiere un atto di prevaricazione e di violenza. Secondo il diritto statunitense, ciò implicherebbe una violazione del diritto alla privacy di cui ogni soggetto è titolare[2]. Quest’atto prevaricatore, oltre ad implicare una contraddizione tra il fine (il bene) e il mezzo (la violenza, malvagia), non sortirebbe l’effetto desiderato, poiché l’adesione esteriore ad un principio morale, senza che lo «spirito» si «converta» ad essa, fa sì che esso venga infranto ad ogni possibile occasione.
Sul principio di autonomia si basa quindi il diritto di compiere una libera scelta tra le possibilità offerte. In quest’ottica, il dibattito bioetico su questioni che riguardano la vita di singoli individui, come l’aborto, la procreazione e la morte, dovrebbe avere come unico scopo quello di mettere in luce tutte le possibilità e i rischi ad esse connessi, per poi lasciare spazio alla sovrana scelta individuale.
In base a queste premesse, che implicano una netta distinzione tra morale privata ed etica pubblica (ratificata dal diritto), si sostiene che lo Stato ha il dovere di mantenersi neutrale, cioè di non imporre mediante la legge una visione etica parziale. Secondo la definizione di un autore americano, «the neutralist concern is to prevent some citizens and power holders from showing disrespect for other citizens by forcing on them policies based on conceptions of the good these others reject»[3].
La neutralità in questione può essere intesa in senso 1) consequenzialista ovvero 2) giustificazionista. In base a 1) lo stato è neutrale quando favorisce o ostacola il perseguimento di diverse concezioni del bene allo stesso modo; mentre in base a 2) lo è quando non favorisce alcun piano di vita, lasciando alle dinamiche di «mercato» che uno prevalga sull’altro[4]. Ho scritto «mercato» fra virgolette in quanto il termine non deve qui essere inteso unicamente in senso economico: si può pensare anche un «mercato di idee» sul quale operano agenti in «competizione culturale». Naturalmente le due dimensioni non possono che essere intrecciate, in quanto il successo di una concezione della vita rispetto ad un'altra non dipende soltanto, come vorrebbe Will Kymlicka, dal tipo di beni che essa può offrire ai suoi «sostenitori»[5], ma soprattutto dall’accesso ai grandi mezzi di comunicazione, e dalla capacità di muoversi in essi, dei diversi «concorrenti».
Il sostenitore della neutralità consequenzialista incorre in numerose difficoltà: Kymlicka ha giustamente sostenuto che «the two fundamental components of liberal justice – respect for liberty and fairness in the distribution of material resources – both preclude consequential neutrality»[6]. Infatti non tutti gli stili di vita implicano gli stessi costi, sicché sostenerli tutti in base alle diverse esigenze significherebbe dare di più ad alcuni e meno ad altri: per esempio, un appassionato bevitore di vini pregiati avrebbe bisogno di più sussidi rispetto ad un astemio. Assecondare una simile divergenza porterebbe ad un incremento delle richieste da parte di coloro che ne beneficiano, nonché a ritenere il soggetto non libero, in quanto incapace di dominare i suoi desideri in base a previsioni razionali. Ma l’aspetto più gravido di conseguenze di questo modo di intendere la neutralità – e che Kymlicka non nota – è che non vi sarebbe alcun criterio per distinguere il diverso valore di possibili conflitti tra scelte di vita. Ad esempio, come si potrebbe sostenere che il conflitto tra bevitori di vino e astemi non abbia rilevanza (e dunque che i bevitori non debbano ricevere maggiori sussidi), mentre quello tra appassionati di scultura e ignoranti d’arte sì (e dunque che si debba finanziare lo sviluppo artistico)?[7]
Ma se non è possibile operare dei distinguo – in quanto ciò implicherebbe fare appello ad una concezione del bene, rifiutando la neutralità – si dovrebbe finanziare tutto all’infinito, il che è ovviamente impossibile, oltre che non auspicabile. Tuttavia, per mantenere fede al principio fondamentale del liberalismo – cioè il principio di autonomia – i pensatori liberali non possono rinunciare alla neutralità dello Stato, che è considerata conditio sine qua non per il rispetto del principio. Essi, dunque, sono costretti ad abbandonare il criterio consequenzialista e ad abbracciare quello giustificazionista.
In base a quest’ultimo, lo Stato deve garantire parità di risorse e di opportunità a tutti i cittadini, il che implica però – come riconosce lo stesso Kymlicka - delle conseguenze non neutrali.   Infatti, per restare all’esempio di prima, coloro che scelgono di bere vino pregiato dovranno affrontare una spesa maggiore, a partire dalle stesse risorse, rispetto a coloro che si accontenteranno di bere acqua. Ma al di là delle singole preferenze (che possono essere razionalmente organizzate), è chiaro che l’eguale ripartizione delle risorse, così come ogni altro genere di eguaglianza di diritto, tende a livellare una realtà umana ben più variegata quanto a capacità e possibilità concrete di far fruttare le medesime risorse. Come ha sostenuto Karl Marx, il «diritto eguale» è tale solo nella forma, mentre si rivela nel contenuto un «un diritto della disuguaglianza»[8].
Per quel che concerne la competizione fra diverse concezioni della vita buona, ciò significa che saranno privilegiate quelle che possono essere facilmente inscritte nella struttura sociale dominante; che si adeguano maggioramente all’ethos condiviso; che possono essere promosse dalle maggioranze; sostenute da ricchezze. Come ha scritto Richard Sinopoli, «liberals have no interest in seeing that all ways of life flourish equally well»[9]. Occorre però domandarsi se sia lecito lasciare che importanti questioni etiche vengano decise in base ai ciechi meccanismi di un «marketplace of ideas»[10]. Il mercato non opera la selezione del migliore, ma del più competitivo; in campo etico, però,  l’obiettivo dovrebbe essere proprio quello di far prevalere l’opzione migliore, al di là della sua attrattiva, a meno che si intenda ridurre il buono a ciò che la maggioranza considera tale[11].
A queste considerazioni occorre aggiungere che dietro la dichiarazione di neutralità da parte di uno Stato liberale si celano in realtà precise scelte, che possono essere ritenute neutrali solo nel senso di essere basate su una concezione del bene diffusa nel senso comune e perciò non contestata (questa è la condizione di neutralità secondo autori come Larmore e Ackerman). Ma, com’è noto, il costume di una società è come una «seconda natura», che non viene tematizzata, né sottoposta al vaglio critico della ragione. Esso è piuttosto accettato inconsciamente quale sfondo comune delle scelte, pubbliche e private. In termini marxiani, si tratta di una «sovrastruttura», ossia del prodotto, a livello simbolico, di un determinato «modo di produzione»; il che significa che esso esprime ideologicamente gli interessi legati al mentenimento di tale assetto economico e sociale[12].
Valga qui il seguente esempio: si ritiene cosa del tutto «naturale» che si indirizzi la politica economica dello Stato in maniera tale che essa sproni la crescita economica. Ora, si può giustificare tale scelta sostenendo che essa si basa su un valore non contestato, ma bisogna osservare che: 1) si tratta in realtà dell’imposizione di una specifica concezione del bene da parte di una maggioranza e che 2) tale maggioranza è sostenuta dal silenzio-assenso di coloro che, ritenendo la scelta del tutto naturale, non sono in grado di porsi criticamente nei confronti di essa. Si potrebbe replicare che le regole della democrazia implicano il potere della maggioranza e devono fare i conti con l’ignoranza delle masse. Tuttavia non è affatto chiaro perché questo argomento possa essere fatto valere in difesa di scelte relative alla politica economica e debba invece essere rifiutato quando si tratta di bioetica; inoltre ciò significa rinunciare apertamente al principio di neutralità e dunque non avere più alcun argomento per sostenere il diritto di scelta e il principio di autonomia, dei quali la neutralità dello Stato pareva essere condizione essenziale.
Da tutto ciò traiamo le seguenti conclusioni: 1) il principio di neutralità è un mito o quanto meno un ideale regolativo che non può trovare applicazione nel mondo reale; 2) il diritto di scelta e l’autonomia individuale non sono estesi a qualunque possibilità, ma circoscritti entro l’ambito di ciò che una civiltà liberale e un’economia di mercato sono in grado di offrire.
Nel prossimo capitolo tenterò di mettere alla prova le considerazioni qui svolte applicandole a un tema centrale della riflessione bioetica: l’aborto.


2. In tema di aborto

La discussione del tema dell’aborto, com’è noto, deve fare i conti con l’impossibilità di pervenire ad una definizione non controversa di cosa sia una persona e, dunque, di quale sia il momento in cui questa cominci ad esistere[13]. Si pone perciò il problema di comprendere se e quando l’essere che si sviluppa a partire dalla fecondazione sia titolare di diritti, in particolare del diritto alla vita e ad essere tutelato in quanto essere indifeso. A complicare la situazione vi è la stretta relazione fisica fra questo essere e la madre: se infatti si attribuiscono dei diritti al primo, questi potrebbero entrare in conflitto con quelli della seconda, e si tratterebbe perciò di trovare un criterio per stabilire quali diritti dovrebbero essere considerati prioritari.
Di fronte a questi dilemmi, è possibile per lo Stato assumere una posizione neutrale? Per rispondere consoderiamo un’esempio, tratto da un articolo di Michael Sandel[14]. Nel caso giudiziario Roe vs. Wade, in cui ad essere in questione era la liceità di una legge texana che proibiva l’aborto, la Corte osservò che tale legge era basata sull’idea che la vita comincia al concepimento. Accingendosi ad esprimere la sentenza, essa premetteva di voler mantenere una posizione neutrale, esimendosi dal «sciogliere il difficile quesito di quando inizi la vita». Inoltre, facendo riferimento (secondo la prassi statunitense) al diritto consuetudinario, osservò che «i non nati non sono mai stati riconosciuti nel diritto come persone in senso pieno». Di conseguenza, la Corte prese posizione contro la legge del Texas, ma argomentò la sua decisione in maniera tale da venir meno al presunto criterio di neutralità, sostenendo che «rispetto all’interesse importante e legittimo dello Stato verso una vita potenziale, il punto “essenziale” è la sua agibilità. È così in quanto il feto, allora, ha presumibilmente la potenzialità per una vita degna di questo nome, al di fuori dell’utero materno». Com’è evidente, la Corte abbracciò una specifica concezione dell’inizio vita e precisamente quella che viene definita «funzionalista»[15], la quale peraltro non è esente da difficoltà: come stabilire il momento in cui la vita del feto diviene «agibile»? E cosa significa il riferimento ad una «vita degna di questo nome»? Forse che un bambino che nasca con una grave malattia non rientra nell’«interesse importante e legittimo dello Stato»?
Anche da questo esempio viene fuori come la neutralità dello Stato sia un mito liberale. Si potrebbe replicare con ciò non si è imposto alle donne di abortire, ma semplicemente lo si è loro permesso, in linea con il principio per cui il compito dello Stato è di non imporre una concezione del bene, lasciando alla libertà e alla responsabilità di ogni singolo agente (la madre, ma anche il medico in quanto possibile obiettore di coscienza) di stabilire che cosa sia lecito fare. Ma questa obiezione si basa sulla tacita assunzione che l’essere costituito dall’atto di fecondazione non è una persona: infatti, se lo fosse, sarebbe compito dello Stato difenderne i diritti. Se si negasse questa presupposizione si dovrebbe concedere che ogni diritto umano dipende dalla scelta di ciascuno se riconoscerlo o meno, il che è evidentemente assurdo. Né si può far valere la distinzione tra morale privata ed etica pubblica, poiché i diritti fondamentali devono essere tutelati dalla comunità politica, anche contro la convinzione del singolo[16].
Riassumendo l’argomentazione svolta, abbiamo che: 1) non è possibile una posizione neutrale; 2) il principio di autonomia e il diritto di scelta possono essere fatti valere solo presupponendo che al momento della fecondazione non nasca una persona. In linea con lo svolgimento del capitolo precedente, si tratta ora di mostrare come a questa scelta, cui si fa appello, non corrisponda un ventaglio di possibilità molto vasto.
Secondo uno studio condotto negli anni 2004/2006 dal ginecologo Matteo Crotti, le principali cause che spingono una donna a ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza (IVG) sono, da un lato, difficoltà con il partner (55,3%) e, dall’altro, la preoccupazione di non poter fronteggiare economicamente la nascita di un figlio (63%). Circa il 60% delle donne non erano contrarie al fatto di avere un figlio, ma avrebbero desiderato averlo in futuro[17]. Sicuramente si tratta di motivazioni intrecciate tra loro: possiamo immaginare che in un buon numero di casi la difficoltà economica è aggravata dalla crisi relazionale e che molte donne non desiderano il figlio nel momento presente semplicemente perché si tratta di un momento difficile. Una donna che si trova sola, infatti, dovrà compiere uno sforzo (non solo economico, ma anche fisico e psicologico) assai maggiore per crescere un figlio. Verosimilmente, poi, le donne che in seguito alla crisi del 2008 hanno maturato la consapevolezza di non poter far fronte alle spese di mantenimento è ancora aumentata.
Come si può invocare il diritto di scelta della donna quando essa si trova di fronte ad una condizione materiale che funziona esattamente come un ricatto? Come si può invocare la neutralità dello Stato, quando esso è almeno in parte responsabile della condizione economica dei suoi cittadini? La legge italiana sull’IVG riconosce che le «condizioni economiche, o sociali o famigliari» possono essere tra le cause di un «serio pericolo» per la «salute psichica» della donna[18], ma non prevede alcuna misura per «rimuovere gli ostacoli» (come dice l’articolo 3 della Costituzione) che impediscono a queste donne di essere madri. Paradossalmente, il testo della legge recita che è compito dei consultori contribuire «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza» (articolo 2).
Inoltre la mancanza – constata da Crotti – di studi su grandi numeri a proposito delle ragioni per cui la donna richiede l’IVG mostra la totale mancanza di volontà politica di far fronte a questo genere di problemi. E tale accusa vale non soltanto a livello italiano, ma mondiale, in quanto si tratta di un compito che potrebbe essere assolto da organismi internazionali come l’OMS, che invece non se ne è mai occupato[19].
Un altro problema che impedisce di intravedere possibilità di scelta altre rispetto a quelle date riguarda l’ethos diffuso da secoli, secondo il quale il nucleo famigliare è composto da genitori e figli che condividono lo spazio abitativo (ciò indipendentemente dal tipo di famiglia che si intenda considerare: eterosessuale, omosessuale, monoparentale, ecc.). Le mura di casa non costituiscono soltanto il limite fisico di tale spazio, bensì vengono ad essere intese anche come il confine economico, educativo e morale della famiglia. È compito dei/del genitori/e assicurare una casa alla famiglia; è loro compito sostenere economicamente la crescita del figlio, educarlo in base a principi morali ben definiti, per non lasciarlo privo di criteri in basi ai quali orientarsi fra le varie opzioni della società pluralistica. Si noti che i valori difesi dalla famiglia possono anche essere i più progressisti: non si tratta di un atteggiamento reazionario.
Se questa è l’idea di famiglia prevalente, è chiaro che una donna (o una coppia) che sa di non poter far fronte ad uno di questi doveri, si trova costretta a scegliere se affidare – sarebbe meglio dire: abbandonare - il proprio figlio alle cure di un estraneo, oppure ricorrere all’IVG. Non si prende nemmeno in considerazione l’ipotesi che lo sviluppo di una nuova vita possa essere una responsabilità comunitaria. Eppure soltanto forme di vita condivisa, in cui anche i valori morali sono comuni, quali quelle sperimentate in numerose piccole comunità esistenti in tutto il mondo, possono allentare i rapporti tra genitori e figli, alleggerendo il peso per entrambi e aiutando tutti a superare le difficoltà inerenti alla vita famigliare.
Il modello abituale, inoltre, rispecchia sia elementi strutturali che elementi sovrastrutturali  dell’ordine dominante: ad esempio, una determinata idea di lavoro imposta dalla sua organizzazione, nonché una concezione di felicità marcatamente individualistica, legata più alla soddisfazione personale che alla condivisione. È chiaro infatti che la vita comunitaria non implica soltanto una diversa idea di famiglia, ma anche e soprattutto una differente visione complessiva della vita.
Le considerazioni qui svolte non vanno in direzione di una negazione della liceità dell’aborto. Ciò che ho inteso sostenere, piuttosto, è la parzialità e l’incoerenza del discorso liberale; ossia, il suo carattere ideologico. Per quanto riguarda l’interruzione della gravidanza, mi pare che la posizione più razionale sia quella del «viaggio a ritroso», secondo il quale qualsiasi punto dello sviluppo embrionale si faccia coincidere con l’inizio della vita di una persona è scelto inevitabilmente in modo arbitrario, sicché non resta che fare riferimento all’origine «naturale» del processo, che è la fecondazione[20]. Maurizio Mori ha adeguatamente mostrato come la scelta della fecondazione quale punto iniziale del processo sia anch’essa del tutto arbitraria (perché, ad esempio, non scegliere il momento in cui i nuclei dei gameti si fondono?). Tuttavia, si può rispondere alla sua obiezione riproponendo, in coda all’argomento del «viaggio a ritroso», l’osservazione di prudenza espressa dall’argomento «antiprobabilista», secondo il quale, poiché nulla di certo si sa su quando nasca una persona, bisognerebbe trattare l’embrione come se fosse effettivamente persona, esattamente come un cacciatore decide di non sparare se vi è la possibilità che dietro il cespuglio ci sia un uomo[21]. Combinare insieme i due argomenti significa sostenere che il motivo per cui è corretto scegliere di porre la fecondazione come momento iniziale della vita è di tipo prudenziale; siccome ogni punto è arbitrario, è meglio riferirsi a quello più comprensivo.
Tuttavia, se nel caso dell’embrione vi è – potremmo dire – un’incertezza ontologica che si traduce in incertezza giuridica, per quanto riguarda la donna possiamo affermare con sicurezza che si tratta di un soggetto titolare di diritti. Ritengo perciò insensata una posizione radicalmente antiabortista e mi sembra corretto, da questo punto di vista, l’approccio della legge italiana, che sostiene la liceità dell’aborto quando la gravidanza rischia di diventare un pericolo per la salute della madre, o quando vi sia la certezza che il nascituro sarà portatore di gravi malformazioni, tali da impedire una vita dignitosa. Occorrerebbe discutere quali siano i riferimenti per comprendere quando si incorra in un grave disagio psichico per la donna, così come sarebbe opportuno precisare oltre quale soglia una malformazione va considerata compromettente: tutti argomenti ai quali la legge non fa alcun riferimento. Ma questi temi ci porterebbero ben oltre i limiti di questo lavoro.


Conclusione: ampliare gli orizzonti della bioetica

Come ho cercato di sostenere in queste poche pagine, credo che i principali limiti dell’approccio liberale alla bioetica siano: la sua incapacità di giustificarsi, nascondendo una specifica presa di posizione dietro la dichiarazione di neutralità; la scarsa attenzione al contesto sociale in cui il problema etico insorge, presupponendo che esso debba essere risolto autonomamente dal libero soggetto, al quale però non vengono prospettate soluzioni altre rispetto a quelle prevalenti nel «mercato delle idee». Ritengo che le questioni bioetiche possano essere affrontati seriamente (cioè non ideologicamente) soltanto se si prende in considerazione il fatto che i dilemmi non sorgono per capriccio individuale, ma molto spesso per determinati fattori sociali che impediscono una reale soluzione del problema. Ogni soggetto è infatti tale solo all’interno di un più vasto contesto, il quale non può essere ritenuto scontato, ma deve essere trattato criticamente.


[1] Max Charlesworth, L’etica della vita. I dilemmi della bioetica in una società liberale, Donzelli, Roma 1996, p. XII.
[2] Cfr. Michael Sandel, Moral Argument and Liberal Toleration: Abortion and Homosexuality, «California Law Review», LXXVII (1989), n. 3, pp. 521-538; tr. it. di Alessandro Ferrara, Il discorso morale e la tolleranza liberale: l’aborto e l’omosessualità, in Alessandro Ferrara, (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 251-274.
[3] Richard C. Sinopoli, Liberalism and Contested Conceptions of the Good: The Limits of Neutrality, «The Journal of Politics», LV (1993), n. 3, p. 652.
[4] La distinzione è proposta in Joseph Raz, The Morality of Freedom, Oxford University Press, Oxford 1986 ed è ripresa in Will Kymlicka, Liberal Individualism and Liberal Neutrality, «Ethics», XCIX (1989), n. 4, pp. 883-884. 
[5] Ivi, p. 884.
[6] Ivi, p. 885.
[7] Un analogo discorso svolge Richard C. Sinopoli nell’articolo citato, laddove pone in luce come sia impossibile scegliere, in base a criteri neutrali, quali investimenti pubblici compiere: cfr. Richard C. Sinopoli, Liberalism and Contested Conceptions of Good cit., pp. 647 e ss.
[8] Karl Marx, Critica al programma di Gotha e testi sulla transizione democratica al socialismo, a cura di Umberto Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 31.
[9] Richard C. Sinopoli, Liberalism and Contested Conceptions of Good cit., p. 647.
[10] Will Kymlicka, Individualism and Neutrality cit., p. 884.
[11] La discussione di questo tema renderebbe troppo ampio il presente lavoro. Mi limito a considerare che ogni soggetto impegnato in un’argomentazione razionale avanza una pretesa di verità e non può quindi accettare un simile prospettivismo.
[12] Non si intende qui sostenere un rapporto causale unidirezionale fra una struttura materiale e una sovrastruttura ideologica: si tratta piuttosto di un rapporto dialettico in cui il piano materiale esige una specifica forma simbolica, la quale, a sua volta, giustificando e promuovendo l’organizzazione materiale, ne favorisce il consolidamento e lo sviluppo (credo sia questo, del resto, il senso della precisazione engelsiana per cui la struttura va ritenuta determinante «in ultima istanza»).
[13] Cfr. Maurizio Mori, Introduzione alla bioetica, Espress, Torino 2012, pp. 46-63.
[14] Michael Sandel, Il discorso morale cit., pp. 264 e ss.
[15] Cfr. Maurizio Mori, Introduzione alla bioetica cit., pp. 53-54; per una discussione critica dell’approccio funzionalista cfr. Fabrizio Turoldo, Bioetica e reciprocità. Una nuova prospettiva sull’etica della vita, Città Nuova, Roma 20112, pp. 111 e ss.
[16] In questa argomentazione presuppongo la validità della teoria dei diritti: discuterla ci porterebbe troppo lontano e inoltre essa mi pare sufficientemente condivisa da non necessitare di una difesa.
[17] Piero Vietti, L’aborto e le sue cause (sconosciute), «Il Foglio», 14 marzo 2008, p. 3.
[18] Legge 22 maggio 1978, n. 194, articolo 4.
[19] Cfr. Pietro Vietti, L’aborto e le sue cause cit.
[20] Cfr. Maurizio Mori, Introduzione alla bioetica cit., pp. 54 e ss.
[21] Cfr. Fabrizio Turoldo, Bioetica e reciprocità cit., pp. 174-175; Maurizio Mori, Introduzione alla bioetica cit., pp. 50-51.