In questa tesina, che ho scritto per un esame, cerco di mostrare l'insostenibilità del discorso liberale, applicando le considerazioni più generali della prima parte a un caso specifico della discussione bioetica.
1. Incongruenze del discorso liberale
Gli autori di ispirazione liberale, pur con differenze
tra loro, pongono come premessa del loro argomentare il principio di autonomia,
in base al quale ciascun soggetto deve essere ritenuto libero di gestire a
piacimento ciò che concerne la propria vita privata, anche se fosse palese la
reprensibilità del suo comportamento. Com’è noto, la formulazione classica di
tale principio viene dal primo capitolo del saggio Sulla libertà di John Stuart Mill, ma gli autori che lo
sottoscrivono non sono impegnati, con ciò, ad adottare una prospettiva
utilitaristica, secondo la quale la libertà individuale è buona perché implica
una massimizzazione del piacere complessivo della società. Max Charlesworth, ad
esempio, ha sostenuto che «l’autonomia individuale è un valore “assoluto” o
intrinsecamente buono a prescindere da qualsiasi conseguenza, ed è per questo
che risulta inadeguata una sua giustificazione utilitaristica»[1].
Assumendo come dato di fatto il pluralismo morale della
società moderna, questi autori sostengono che non vi è alcuna giustificazione
per imporre al collettivo una specifica visione del bene. Ogni prospettiva
morale, infatti, può essere sorretta da argomentazioni razionali persuasive per
coloro che la accettano, ma le stesse possono non essere valide per altri e,
inoltre, anche se esse avessero, dal punto di vista razionale, una validità
universale, imporle a chi non le accetta significherebbe compiere un atto di
prevaricazione e di violenza. Secondo il diritto statunitense, ciò implicherebbe
una violazione del diritto alla privacy
di cui ogni soggetto è titolare[2]. Quest’atto
prevaricatore, oltre ad implicare una contraddizione tra il fine (il bene) e il
mezzo (la violenza, malvagia), non sortirebbe l’effetto desiderato, poiché
l’adesione esteriore ad un principio morale, senza che lo «spirito» si
«converta» ad essa, fa sì che esso venga infranto ad ogni possibile occasione.
Sul principio di autonomia si basa quindi il diritto
di compiere una libera scelta tra le possibilità offerte. In quest’ottica, il
dibattito bioetico su questioni che riguardano la vita di singoli individui,
come l’aborto, la procreazione e la morte, dovrebbe avere come unico scopo
quello di mettere in luce tutte le possibilità e i rischi ad esse connessi, per
poi lasciare spazio alla sovrana scelta individuale.
In base a queste premesse, che implicano una netta
distinzione tra morale privata ed etica pubblica (ratificata dal diritto), si
sostiene che lo Stato ha il dovere di mantenersi neutrale, cioè di non imporre
mediante la legge una visione etica parziale. Secondo la definizione di un autore americano, «the
neutralist concern is to prevent some citizens and power holders from showing
disrespect for other citizens by forcing on them policies based on conceptions
of the good these others reject»[3].
La neutralità in questione può essere intesa in senso
1) consequenzialista ovvero 2) giustificazionista. In base a 1) lo stato è
neutrale quando favorisce o ostacola il perseguimento di diverse concezioni del
bene allo stesso modo; mentre in base a 2) lo è quando non favorisce alcun
piano di vita, lasciando alle dinamiche di «mercato» che uno prevalga
sull’altro[4]. Ho
scritto «mercato» fra virgolette in quanto il termine non deve qui essere
inteso unicamente in senso economico: si può pensare anche un «mercato di idee»
sul quale operano agenti in «competizione culturale». Naturalmente le due
dimensioni non possono che essere intrecciate, in quanto il successo di una
concezione della vita rispetto ad un'altra non dipende soltanto, come vorrebbe
Will Kymlicka, dal tipo di beni che essa può offrire ai suoi «sostenitori»[5], ma
soprattutto dall’accesso ai grandi mezzi di comunicazione, e dalla capacità di
muoversi in essi, dei diversi «concorrenti».
Il sostenitore della neutralità consequenzialista
incorre in numerose difficoltà: Kymlicka ha giustamente sostenuto che «the two
fundamental components of liberal justice – respect for liberty and fairness in
the distribution of material resources – both preclude consequential neutrality»[6]. Infatti
non tutti gli stili di vita implicano gli stessi costi, sicché sostenerli tutti
in base alle diverse esigenze significherebbe dare di più ad alcuni e meno ad
altri: per esempio, un appassionato bevitore di vini pregiati avrebbe bisogno
di più sussidi rispetto ad un astemio. Assecondare una simile divergenza
porterebbe ad un incremento delle richieste da parte di coloro che ne
beneficiano, nonché a ritenere il soggetto non libero, in quanto incapace di
dominare i suoi desideri in base a previsioni razionali. Ma l’aspetto più
gravido di conseguenze di questo modo di intendere la neutralità – e che
Kymlicka non nota – è che non vi sarebbe alcun criterio per distinguere il
diverso valore di possibili conflitti tra scelte di vita. Ad esempio, come si potrebbe
sostenere che il conflitto tra bevitori di vino e astemi non abbia rilevanza (e
dunque che i bevitori non debbano ricevere maggiori sussidi), mentre quello tra
appassionati di scultura e ignoranti d’arte sì (e dunque che si debba
finanziare lo sviluppo artistico)?[7]
Ma se non è possibile operare dei distinguo – in
quanto ciò implicherebbe fare appello ad una concezione del bene, rifiutando la
neutralità – si dovrebbe finanziare tutto all’infinito, il che è ovviamente
impossibile, oltre che non auspicabile. Tuttavia, per mantenere fede al
principio fondamentale del liberalismo – cioè il principio di autonomia – i
pensatori liberali non possono rinunciare alla neutralità dello Stato, che è
considerata conditio sine qua non per
il rispetto del principio. Essi, dunque, sono costretti ad abbandonare il
criterio consequenzialista e ad abbracciare quello giustificazionista.
In base a quest’ultimo, lo Stato deve garantire parità
di risorse e di opportunità a tutti i cittadini, il che implica però – come riconosce
lo stesso Kymlicka - delle conseguenze non neutrali. Infatti, per restare all’esempio di prima,
coloro che scelgono di bere vino pregiato dovranno affrontare una spesa
maggiore, a partire dalle stesse risorse, rispetto a coloro che si accontenteranno
di bere acqua. Ma al di là delle singole preferenze (che possono essere
razionalmente organizzate), è chiaro che l’eguale ripartizione delle risorse,
così come ogni altro genere di eguaglianza di diritto, tende a livellare una
realtà umana ben più variegata quanto a capacità e possibilità concrete di far
fruttare le medesime risorse. Come ha sostenuto Karl Marx, il «diritto eguale» è tale solo nella forma, mentre
si rivela nel contenuto un «un diritto
della disuguaglianza»[8].
Per quel che concerne la competizione fra diverse
concezioni della vita buona, ciò significa che saranno privilegiate quelle che
possono essere facilmente inscritte nella struttura sociale dominante; che si
adeguano maggioramente all’ethos condiviso;
che possono essere promosse dalle maggioranze; sostenute da ricchezze. Come ha scritto Richard Sinopoli,
«liberals have no interest in seeing that all ways of life flourish equally
well»[9].
Occorre però domandarsi se sia lecito lasciare che importanti questioni
etiche vengano decise in base ai ciechi meccanismi di un «marketplace of ideas»[10]. Il
mercato non opera la selezione del migliore, ma del più competitivo; in campo
etico, però, l’obiettivo dovrebbe essere
proprio quello di far prevalere l’opzione migliore, al di là della sua attrattiva,
a meno che si intenda ridurre il buono a ciò che la maggioranza considera tale[11].
A queste considerazioni occorre aggiungere che dietro
la dichiarazione di neutralità da parte di uno Stato liberale si celano in
realtà precise scelte, che possono essere ritenute neutrali solo nel senso di
essere basate su una concezione del bene diffusa nel senso comune e perciò non
contestata (questa è la condizione di neutralità secondo autori come Larmore e
Ackerman). Ma, com’è noto, il costume di una società è come una «seconda
natura», che non viene tematizzata, né sottoposta al vaglio critico della
ragione. Esso è piuttosto accettato inconsciamente quale sfondo comune delle
scelte, pubbliche e private. In termini marxiani, si tratta di una
«sovrastruttura», ossia del prodotto, a livello simbolico, di un determinato
«modo di produzione»; il che significa che esso esprime ideologicamente gli
interessi legati al mentenimento di tale assetto economico e sociale[12].
Valga qui il seguente esempio: si ritiene cosa del
tutto «naturale» che si indirizzi la politica economica dello Stato in maniera
tale che essa sproni la crescita economica. Ora, si può giustificare tale
scelta sostenendo che essa si basa su un valore non contestato, ma bisogna
osservare che: 1) si tratta in realtà dell’imposizione di una specifica
concezione del bene da parte di una maggioranza e che 2) tale maggioranza è
sostenuta dal silenzio-assenso di coloro che, ritenendo la scelta del tutto
naturale, non sono in grado di porsi criticamente nei confronti di essa. Si
potrebbe replicare che le regole della democrazia implicano il potere della
maggioranza e devono fare i conti con l’ignoranza delle masse. Tuttavia non è
affatto chiaro perché questo argomento possa essere fatto valere in difesa di
scelte relative alla politica economica e debba invece essere rifiutato quando
si tratta di bioetica; inoltre ciò significa rinunciare apertamente al
principio di neutralità e dunque non avere più alcun argomento per sostenere il
diritto di scelta e il principio di autonomia, dei quali la neutralità dello
Stato pareva essere condizione essenziale.
Da tutto ciò traiamo le seguenti conclusioni: 1) il
principio di neutralità è un mito o quanto meno un ideale regolativo che non
può trovare applicazione nel mondo reale; 2) il diritto di scelta e l’autonomia
individuale non sono estesi a qualunque possibilità, ma circoscritti entro
l’ambito di ciò che una civiltà liberale e un’economia di mercato sono in grado
di offrire.
Nel prossimo capitolo tenterò di mettere alla prova le
considerazioni qui svolte applicandole a un tema centrale della riflessione
bioetica: l’aborto.
2. In tema di aborto
La discussione del tema dell’aborto, com’è noto, deve
fare i conti con l’impossibilità di pervenire ad una definizione non
controversa di cosa sia una persona e,
dunque, di quale sia il momento in cui questa cominci ad esistere[13]. Si
pone perciò il problema di comprendere se e quando l’essere che si sviluppa a
partire dalla fecondazione sia titolare di diritti, in particolare del diritto
alla vita e ad essere tutelato in quanto essere indifeso. A complicare la
situazione vi è la stretta relazione fisica fra questo essere e la madre: se
infatti si attribuiscono dei diritti al primo, questi potrebbero entrare in
conflitto con quelli della seconda, e si tratterebbe perciò di trovare un
criterio per stabilire quali diritti dovrebbero essere considerati prioritari.
Di fronte a questi dilemmi, è possibile per lo Stato
assumere una posizione neutrale? Per rispondere consoderiamo un’esempio, tratto
da un articolo di Michael Sandel[14]. Nel
caso giudiziario Roe vs. Wade, in cui
ad essere in questione era la liceità di una legge texana che proibiva
l’aborto, la Corte osservò che tale
legge era basata sull’idea che la vita comincia al concepimento. Accingendosi
ad esprimere la sentenza, essa premetteva di voler mantenere una posizione
neutrale, esimendosi dal «sciogliere il difficile quesito di quando inizi la
vita». Inoltre, facendo riferimento (secondo la prassi statunitense) al diritto
consuetudinario, osservò che «i non nati non sono mai stati riconosciuti nel
diritto come persone in senso pieno». Di conseguenza, la Corte prese posizione
contro la legge del Texas, ma argomentò la sua decisione in maniera tale da
venir meno al presunto criterio di neutralità, sostenendo che «rispetto
all’interesse importante e legittimo dello Stato verso una vita potenziale, il
punto “essenziale” è la sua agibilità. È così in quanto il feto, allora, ha
presumibilmente la potenzialità per una vita degna di questo nome, al di fuori
dell’utero materno». Com’è evidente, la Corte abbracciò una specifica
concezione dell’inizio vita e precisamente quella che viene definita
«funzionalista»[15], la
quale peraltro non è esente da difficoltà: come stabilire il momento in cui la
vita del feto diviene «agibile»? E cosa significa il riferimento ad una «vita
degna di questo nome»? Forse che un bambino che nasca con una grave malattia
non rientra nell’«interesse importante e legittimo dello Stato»?
Anche da questo esempio viene fuori come la neutralità
dello Stato sia un mito liberale. Si potrebbe replicare con ciò non si è
imposto alle donne di abortire, ma semplicemente lo si è loro permesso, in
linea con il principio per cui il compito dello Stato è di non imporre una
concezione del bene, lasciando alla libertà e alla responsabilità di ogni
singolo agente (la madre, ma anche il medico in quanto possibile obiettore di
coscienza) di stabilire che cosa sia lecito fare. Ma questa obiezione si basa
sulla tacita assunzione che l’essere costituito dall’atto di fecondazione non è una persona: infatti, se lo fosse,
sarebbe compito dello Stato difenderne i diritti. Se si negasse questa
presupposizione si dovrebbe concedere che ogni diritto umano dipende dalla
scelta di ciascuno se riconoscerlo o meno, il che è evidentemente assurdo. Né
si può far valere la distinzione tra morale privata ed etica pubblica, poiché i
diritti fondamentali devono essere tutelati dalla comunità politica, anche
contro la convinzione del singolo[16].
Riassumendo l’argomentazione svolta, abbiamo che: 1)
non è possibile una posizione neutrale; 2) il principio di autonomia e il
diritto di scelta possono essere fatti valere solo presupponendo che al momento
della fecondazione non nasca una
persona. In linea con lo svolgimento del capitolo precedente, si tratta ora di
mostrare come a questa scelta, cui si fa appello, non corrisponda un ventaglio
di possibilità molto vasto.
Secondo uno studio condotto negli anni 2004/2006 dal
ginecologo Matteo Crotti, le principali cause che spingono una donna a
ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza (IVG) sono, da un lato, difficoltà
con il partner (55,3%) e, dall’altro, la preoccupazione di non poter
fronteggiare economicamente la nascita di un figlio (63%). Circa il 60% delle
donne non erano contrarie al fatto di avere un figlio, ma avrebbero desiderato
averlo in futuro[17]. Sicuramente
si tratta di motivazioni intrecciate tra loro: possiamo immaginare che in un
buon numero di casi la difficoltà economica è aggravata dalla crisi relazionale
e che molte donne non desiderano il figlio nel momento presente semplicemente
perché si tratta di un momento difficile. Una donna che si trova sola, infatti,
dovrà compiere uno sforzo (non solo economico, ma anche fisico e psicologico)
assai maggiore per crescere un figlio. Verosimilmente, poi, le donne che in
seguito alla crisi del 2008 hanno maturato la consapevolezza di non poter far
fronte alle spese di mantenimento è ancora aumentata.
Come si può invocare il diritto di scelta della donna
quando essa si trova di fronte ad una condizione materiale che funziona
esattamente come un ricatto? Come si può invocare la neutralità dello Stato,
quando esso è almeno in parte responsabile della condizione economica dei suoi
cittadini? La legge italiana sull’IVG riconosce che le «condizioni economiche,
o sociali o famigliari» possono essere tra le cause di un «serio pericolo» per
la «salute psichica» della donna[18], ma non
prevede alcuna misura per «rimuovere gli ostacoli» (come dice l’articolo 3
della Costituzione) che impediscono a queste donne di essere madri.
Paradossalmente, il testo della legge recita che è compito dei consultori
contribuire «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna
all’interruzione della gravidanza» (articolo 2).
Inoltre la mancanza – constata da Crotti – di studi su
grandi numeri a proposito delle ragioni per cui la donna richiede l’IVG mostra
la totale mancanza di volontà politica di far fronte a questo genere di
problemi. E tale accusa vale non soltanto a livello italiano, ma mondiale, in
quanto si tratta di un compito che potrebbe essere assolto da organismi internazionali
come l’OMS, che invece non se ne è mai occupato[19].
Un altro problema che impedisce di intravedere
possibilità di scelta altre rispetto a quelle date riguarda l’ethos diffuso da secoli, secondo il
quale il nucleo famigliare è composto da genitori e figli che condividono lo
spazio abitativo (ciò indipendentemente dal tipo di famiglia che si intenda
considerare: eterosessuale, omosessuale, monoparentale, ecc.). Le mura di casa
non costituiscono soltanto il limite fisico di tale spazio, bensì vengono ad
essere intese anche come il confine economico, educativo e morale della
famiglia. È compito dei/del genitori/e assicurare una casa alla famiglia; è
loro compito sostenere economicamente la crescita del figlio, educarlo in base
a principi morali ben definiti, per non lasciarlo privo di criteri in basi ai
quali orientarsi fra le varie opzioni della società pluralistica. Si noti che i
valori difesi dalla famiglia possono anche essere i più progressisti: non si
tratta di un atteggiamento reazionario.
Se questa è l’idea di famiglia prevalente, è chiaro
che una donna (o una coppia) che sa di non poter far fronte ad uno di questi
doveri, si trova costretta a scegliere se affidare – sarebbe meglio dire:
abbandonare - il proprio figlio alle cure di un estraneo, oppure ricorrere
all’IVG. Non si prende nemmeno in considerazione l’ipotesi che lo sviluppo di
una nuova vita possa essere una responsabilità comunitaria. Eppure soltanto
forme di vita condivisa, in cui anche i valori morali sono comuni, quali quelle
sperimentate in numerose piccole comunità esistenti in tutto il mondo, possono
allentare i rapporti tra genitori e figli, alleggerendo il peso per entrambi e
aiutando tutti a superare le difficoltà inerenti alla vita famigliare.
Il modello abituale, inoltre, rispecchia sia elementi
strutturali che elementi sovrastrutturali
dell’ordine dominante: ad esempio, una determinata idea di lavoro
imposta dalla sua organizzazione, nonché una concezione di felicità
marcatamente individualistica, legata più alla soddisfazione personale che alla
condivisione. È chiaro infatti che la vita comunitaria non implica soltanto una
diversa idea di famiglia, ma anche e soprattutto una differente visione
complessiva della vita.
Le considerazioni qui svolte non vanno in direzione di
una negazione della liceità dell’aborto. Ciò che ho inteso sostenere,
piuttosto, è la parzialità e l’incoerenza del discorso liberale; ossia, il suo
carattere ideologico. Per quanto riguarda l’interruzione della gravidanza, mi
pare che la posizione più razionale sia quella del «viaggio a ritroso», secondo
il quale qualsiasi punto dello sviluppo embrionale si faccia coincidere con
l’inizio della vita di una persona è
scelto inevitabilmente in modo arbitrario, sicché non resta che fare
riferimento all’origine «naturale» del processo, che è la fecondazione[20].
Maurizio Mori ha adeguatamente mostrato come la scelta della fecondazione quale
punto iniziale del processo sia anch’essa del tutto arbitraria (perché, ad
esempio, non scegliere il momento in cui i nuclei dei gameti si fondono?).
Tuttavia, si può rispondere alla sua obiezione riproponendo, in coda
all’argomento del «viaggio a ritroso», l’osservazione di prudenza espressa
dall’argomento «antiprobabilista», secondo il quale, poiché nulla di certo si
sa su quando nasca una persona, bisognerebbe trattare l’embrione come se fosse effettivamente persona,
esattamente come un cacciatore decide di non sparare se vi è la possibilità che
dietro il cespuglio ci sia un uomo[21].
Combinare insieme i due argomenti significa sostenere che il motivo per cui è
corretto scegliere di porre la fecondazione come momento iniziale della vita è
di tipo prudenziale; siccome ogni punto è arbitrario, è meglio riferirsi a
quello più comprensivo.
Tuttavia, se nel caso dell’embrione vi è – potremmo
dire – un’incertezza ontologica che si traduce in incertezza giuridica, per
quanto riguarda la donna possiamo affermare con sicurezza che si tratta di un
soggetto titolare di diritti. Ritengo perciò insensata una posizione
radicalmente antiabortista e mi sembra corretto, da questo punto di vista,
l’approccio della legge italiana, che sostiene la liceità dell’aborto quando la
gravidanza rischia di diventare un pericolo per la salute della madre, o quando
vi sia la certezza che il nascituro sarà portatore di gravi malformazioni, tali
da impedire una vita dignitosa. Occorrerebbe discutere quali siano i
riferimenti per comprendere quando si incorra in un grave disagio psichico per
la donna, così come sarebbe opportuno precisare oltre quale soglia una malformazione
va considerata compromettente: tutti argomenti ai quali la legge non fa alcun
riferimento. Ma questi temi ci porterebbero ben oltre i limiti di questo
lavoro.
Conclusione: ampliare gli orizzonti
della bioetica
Come ho cercato di sostenere in queste poche pagine,
credo che i principali limiti dell’approccio liberale alla bioetica siano: la
sua incapacità di giustificarsi, nascondendo una specifica presa di posizione
dietro la dichiarazione di neutralità; la scarsa attenzione al contesto sociale
in cui il problema etico insorge, presupponendo che esso debba essere risolto
autonomamente dal libero soggetto, al quale però non vengono prospettate
soluzioni altre rispetto a quelle prevalenti nel «mercato delle idee». Ritengo
che le questioni bioetiche possano essere affrontati seriamente (cioè non
ideologicamente) soltanto se si prende in considerazione il fatto che i dilemmi
non sorgono per capriccio individuale, ma molto spesso per determinati fattori
sociali che impediscono una reale soluzione del problema. Ogni soggetto è
infatti tale solo all’interno di un più vasto contesto, il quale non può essere
ritenuto scontato, ma deve essere trattato criticamente.
[1] Max
Charlesworth, L’etica della vita. I dilemmi della bioetica in una società liberale, Donzelli, Roma 1996, p. XII.
[2] Cfr.
Michael Sandel, Moral Argument and
Liberal Toleration: Abortion and Homosexuality, «California Law Review»,
LXXVII (1989), n. 3, pp. 521-538; tr. it. di Alessandro Ferrara, Il discorso morale e la tolleranza liberale:
l’aborto e l’omosessualità, in Alessandro Ferrara, (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Editori
Riuniti, Roma 1992, pp. 251-274.
[3] Richard C. Sinopoli, Liberalism and Contested Conceptions of the
Good: The Limits of Neutrality, «The Journal of Politics», LV (1993), n. 3,
p. 652.
[4] La distinzione è proposta in Joseph
Raz, The Morality of Freedom, Oxford
University Press, Oxford 1986 ed è ripresa in Will Kymlicka, Liberal Individualism and Liberal Neutrality,
«Ethics», XCIX (1989), n. 4, pp. 883-884.
[5] Ivi, p. 884.
[6] Ivi, p. 885.
[7] Un
analogo discorso svolge Richard C. Sinopoli nell’articolo citato, laddove pone
in luce come sia impossibile scegliere, in base a criteri neutrali, quali
investimenti pubblici compiere: cfr. Richard C. Sinopoli, Liberalism and Contested Conceptions of Good cit., pp. 647 e ss.
[8] Karl Marx, Critica al programma di Gotha e testi sulla transizione democratica al
socialismo, a cura di Umberto Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 31.
[9] Richard C. Sinopoli, Liberalism and Contested Conceptions of Good
cit., p. 647.
[10] Will Kymlicka, Individualism and Neutrality cit., p. 884.
[11] La
discussione di questo tema renderebbe troppo ampio il presente lavoro. Mi
limito a considerare che ogni soggetto impegnato in un’argomentazione razionale
avanza una pretesa di verità e non può quindi accettare un simile
prospettivismo.
[12] Non si
intende qui sostenere un rapporto causale unidirezionale fra una struttura
materiale e una sovrastruttura ideologica: si tratta piuttosto di un rapporto
dialettico in cui il piano materiale esige una specifica forma simbolica, la
quale, a sua volta, giustificando e promuovendo l’organizzazione materiale, ne
favorisce il consolidamento e lo sviluppo (credo sia questo, del resto, il
senso della precisazione engelsiana per cui la struttura va ritenuta
determinante «in ultima istanza»).
[13] Cfr.
Maurizio Mori, Introduzione alla bioetica, Espress, Torino 2012, pp. 46-63.
[14] Michael
Sandel, Il discorso morale cit., pp.
264 e ss.
[15] Cfr.
Maurizio Mori, Introduzione alla bioetica
cit., pp. 53-54; per una discussione critica dell’approccio funzionalista
cfr. Fabrizio Turoldo, Bioetica e reciprocità.
Una nuova prospettiva sull’etica della vita, Città Nuova, Roma 20112,
pp. 111 e ss.
[16] In
questa argomentazione presuppongo la validità della teoria dei diritti:
discuterla ci porterebbe troppo lontano e inoltre essa mi pare sufficientemente
condivisa da non necessitare di una difesa.
[17] Piero
Vietti, L’aborto e le sue cause
(sconosciute), «Il Foglio», 14 marzo 2008, p. 3.
[18] Legge
22 maggio 1978, n. 194, articolo 4.
[19] Cfr.
Pietro Vietti, L’aborto e le sue cause cit.
[20] Cfr.
Maurizio Mori, Introduzione alla bioetica
cit., pp. 54 e ss.
[21] Cfr.
Fabrizio Turoldo, Bioetica e reciprocità cit.,
pp. 174-175; Maurizio Mori, Introduzione
alla bioetica cit., pp. 50-51.