lunedì 27 gennaio 2014

Hegel e Aristotele

Pubblico qui un capitolo che scrissi per un esame in vista della tesi di laurea. Si parla di Hegel e Aristotele, come filosofi di riferimento per la riflessione di Charles Taylor e Alasdair MacIntyre.


Taylor ascrive il suo pensiero alla tradizione repubblicana e che definisce se stesso come un liberale. Tuttavia si può sostenere che gli autori classici del pensiero politico cui egli fa riferimento mancano di una vera e propria filosofia politica, per supplire alla quale Taylor si è riferito a numerosi altri autori, tra i quali Hegel, l’unico autore a cui ha dedicato uno studio monografico, peraltro molto voluminoso e importante[1]. Nondimeno, può continuare a suonare strano questo riferimento, in quanto è cosa nota che Hegel è un pensatore generalmente avversato dai liberali e certamente la sua concezione organicistica ed etica dello Stato è incompatibile con il liberalismo.
In realtà Taylor non abbraccia la filosofia hegeliana in quanto tale e nel corso della sua esposizione rifiuta esplicitamente alcune idee fondamentali della stessa, come l’idea di un Geist alla base di tutta la realtà e della storia e l’articolazione dello Stato nelle specificità descritte dal filosofo tedesco. Ciononostante, Hegel rimane un pensatore imprescindibile per chi si occupi dei problemi che il mondo odierno ha ereditato dalla modernità, in quanto egli fu il primo pensatore che ha compreso la natura contraddittoria delle aspirazioni della modernità, cercando una loro sintesi. E questo compito di conciliazione è qualcosa che, lungi dall’essere stato risolto, riguarda ancora la nostra vita, nei suoi aspetti morali, pratici e politici. Ma cos’è che deve essere conciliato?
La filosofia della storia hegeliana, com’è noto, non può considerare un avvenimento epocale come qualcosa che possa essere semplicemente rifiutato in nome di un’aspirazione ad una autenticità perduta. Lo Spirito che guida la storia agisce razionalmente: voler «tornare indietro» significherebbe agire in maniera contraria ad una razionalità necessaria e essenziale, cioè vorrebbe dire tanto essere votati al fallimento quanto non riconoscere le vere esigenze della stessa vita umana. In quest’ottica l’avvento della modernità quale epoca del trionfo del soggetto deve essere considerata come una conquista imprescindibile dello Spirito. L’uomo è giunto a sapersi libero nella sua individualità. Se questo mutamento storico avviene, di principio, con il cristianesimo, che riconosce ad ogni singola persona umana la pari dignità di fronte a Dio e il valore infinito della sua vita in quanto tale, si può affermare che esso si concretizza gradualmente a partire dal Rinascimento. Il Medioevo è, infatti, il periodo della «coscienza infelice», dove l’individualità esiste solamente in funzione dell’Immutabile e «l’attività della coscienza stessa diviene un’attività da nulla, e il suo godimento diventa il sentimento della propria infelicità»[2]. L’individualità non si riconosce ancora libera in sé e per sé.
Soltanto con l’Umanesimo del XV secolo «gli uomini sono giunti a sapersi liberi, a far riconoscere la loro libertà; essi sono pervenuti a scorgere, tramite il lavoro svolto dalle loro mani, che essi erano coloro che avevano la forza d’essere attivi in favore dei loro interessi e dei loro scopi»[3]. Questo primo passo verso l’autocoscienza della libertà giunge poi a compimento con la Riforma, momento in cui questa libertà riceve il suggello di una giustificazione teologica. Si può pertanto individuare un movimento dialettico che dalla cristianità cattolica passa per l’Umanesimo (che costituisce una negazione del principio di dipendenza da Dio proprio della coscienza infelice) per giungere a superiore sintesi nella teologia luterana. «In tal modo il principio della soggettività, del puro riferirsi a se stesso, della vera libertà, su cui tutto si fonda, non solo viene riconosciuto, ma si richiede anche che nel culto e nella religione solo esso importi. La convalida più forte di questo principio è appunto che davanti a Dio solo esso ha valore; principio della libertà cristiana è solo la fede, il proprio cuore, la vittoria e l’entusiasmo del proprio cuore»[4].
La pratica religiosa della Riforma, con la sua esclusione di qualsiasi termine medio tra la singolarità e Dio (proprio invece della coscienza infelice che «in questo termine medio… si libera dall’attività e dal godimento in quanto suoi»[5]) valorizza l’assoluta libertà individuale: «un soggetto nel quale non vi è libertà non è in grado d’assumere un’attitudine spirituale, non adora Dio in spirito. Questo è il contenuto universale del principio»[6].
Alla fede si accompagna, secondo la Fenomenologia dello Spirito, l’intellezione pura, che riconosce l’assoluta autonomia della coscienza e diviene così autocoscienza. Se con la fede si riconosce l’autonomia della coscienza individuale nel suo rapporto con Dio, con l’intellezione pura si rivendica invece l’autonomia della coscienza individuale di fronte all’oggettività del mondo.
Tuttavia l’autocoscienza, a questo stadio del processo di sviluppo dello Spirito, non corrisponde ancora al suo concetto, in quanto è ancora limitata all’«accidentale, singolare, e la sua essenza appare come il fine che dev’essere attuato»[7]. Questa autocoscienza è destinata ad opporsi alla fede, in quanto quest’ultima, pur coincidendo nella sostanza con l’intellezione pura, ha una forma diversa da essa, e proietta l’essenza, anziché nel «assoluto», in una realtà ad esso opposta. Questo dà origine alla battaglia dell’Illuminismo contro la religione intesa come superstizione, destinata a compiersi con la vittoria della verità illuminista, che esclude dalla conoscenza umana ogni realtà che trascenda il sensibile. Dio rimane un puro «vacuum»[8] che sta a fondamento della realtà sensibile ma è al contempo separato totalmente da essa: in tal modo ogni cosa viene ricondotta sotto la categoria dell’utile[9]. La fede viene svuotata e ridotta ad una «aspirazione pura, e la sua verità è un vuoto Aldilà per il quale non è più possibile trovare nessun contenuto sostanziale».
Ogni oggetto del mondo reale e della fede ricade così nella determinazione semplice dell’utilità; ma quest’utilità, lungi dall’essere una caratteristica essenziale dell’Oggetto, è in realtà il sapere del Soggetto, che riconosce il mondo in sé come essenzialmente per altro, disponibile all’utilizzo: «in quanto privo del Sé, l’essere-in-è in verità il Sé passivo, il Sé che è per un altro Sé»[10]. L’esito proprio dell’Illuminismo è quindi la figura della «libertà assoluta» di un Soggetto dinanzi al quale l’Oggetto ha perso qualsiasi valore in sé. Il significato politico di questo risultato è espresso chiaramente da Hegel:
La coscienza considera il mondo assolutamente come propria volontà, e si tratta di una volontà universale. Per la precisione, non si tratta del pensiero vuoto della volontà riposto nel consenso tacito o nel consenso espresso per rappresentanza, bensì della volontà realmente universale, volontà di tutti i singoli in quanto tali. (…) ciò che allora emerge come attività del Tutto è l’attività immediata e consapevole di Ciascuno.[11]
L’oggetto non è più l’utile, ma è la coscienza stessa nella sua universalità: ciò che le si oppone è la volontà singolare. Soltanto la volontà universale, eliminate tutte le differenze, viene ora ritenuta in  grado di realizzare la libertà. Ma questo, ad avviso di Hegel, è destinato per necessità al fallimento, perché l’universale non può trovare compimento se non per medio di un singolo (il monarca nella sua descrizione dello Stato), mentre la libertà universale della volontà generale non può che condurre ad una «attività negativa», cui corrisponde la celeberrima espressione «furia del dileguare»[12].
Il percorso che qui abbiamo delineato sinteticamente mostra come per Hegel la libertà del soggetto emersa con la modernità si sia conclusa, nella Rivoluzione Francese, in maniera radicalmente negativa. Ma, com’è noto, nel complesso del pensiero hegeliano la negazione è considerata momento parziale di un più comprensivo movimento dialettico all’interno del quale essa è destinata ad essere superata ad uno stadio di superiore razionalità. Per comprendere questo, occorre chiarire in che senso la libertà soggettiva moderna era destinata a concludersi nella furia del dileguare, cioè occorre capire di che cosa essa costituisce la negazione.
Il paradigma storico di riferimento è l’antica polis, quell’eticità greca cui Hegel guardava con interesse già nei suoi scritti giovanili. In linea con una certa idealizzazione della Grecia antica, ma anche con una indubbia verità storica, Hegel descrive la polis come il luogo in cui la libertà dell’individuo e quella della comunità in cui vive non sono opposte o distinte. L’uomo greco realizza la sua libertà soltanto mediante l’azione politica e il suo bene individuale contribuisce alla determinazione del bene comune. Del resto, questa idea di politica è quella che ritroviamo negli scritti dei due filosofi più rappresentativi dell’epoca, cioè Platone e Aristotele. Secondo le parole della Fenomenologia «qui lo Spirito è la comunità», che «è spirito per sé, in quanto si mantiene riflettendosi negli individui, ed è spirito in sé, cioè sostanza, perché contiene entro sé gli individui. In quanto sostanza reale, lo spirito è un popolo; in quanto coscienza reale, invece, esso è cittadino del popolo»[13].
Tuttavia questa eticità che – dice Hegel – ha il carattere dell’immediatezza, in quanto il singolo si riconosce nella sostanza etica senza la mediazione del pensiero, è destinata a frantumarsi con l’emergere di conflitti tragici tra le richieste delle diverse comunità cui lo stesso individuo appartiene (ad esempio, la famiglia e la città, come esemplificato dalla vicenda dell’Antigone commentata da Hegel). In seguito a questo processo, che qui evitiamo di delineare, la sostanza etica si sgretola nell’astrattezza delle singole individualità. Essa diventa «un’universalità formale» di cui ciascuno diviene titolare in quanto persona: si giunge così al riconoscimento giuridico della persona nella sua astratta identità universale. «L’universale, questo spirito morto frantumato negli atomi della molteplicità assoluta degli individui, è un’uguaglianza in cui Tutti hanno il valore di Ciascuno, valgono cioè come persone»[14].
Questa transizione corrisponde storicamente, nel quadro hegeliano, al passaggio dalla grecità all’epoca romana. Ma il carattere di astrattezza del diritto trascende questa contingenza storica, giungendo fino a noi. Basti notare come il linguaggio impiegato da Hegel nella descrizione dello Stato giuridico (le cui parole chiave sono Tutti, Ciascuno, persone) sia corrispondente con quello che riemerge nelle sue pagine sulla Rivoluzione Francese citate alla pagina precedente. Al riconoscimento giuridico dell’individualità si aggiunge, in epoca moderna, il riconoscimento dapprima filosofico (Rinascimento) e poi anche teologico (Riforma) e politico (Rivoluzione Francese) di questa individualità. Il problema è che essa rimane al livello dell’astrazione, dove la differenza è cancellata e ogni contenuto perso.
L’individuo che emerge dal tramonto dell’eticità è molto simile al Dio degli Illuministi: non è altro che un «vacuum». Questa è la ragione profonda assegnata da Hegel all’esito della Rivoluzione Francese. Ma, come si diceva, il valore moderno dell’individualità non può essere rigettato in favore di un vagheggiato ritorno all’eticità greca. Per Hegel quest’ultima è tramontata perché doveva tramontare. La soluzione alla negatività è da intravedere in una sintesi finale che concili l’eticità greca e la libertà moderne, conservandole e insieme trasformandole.
Questa necessità è espressa concisamente nel paragrafo 185 dei Lineamenti di filosofia del diritto, ma più ancora nell’aggiunta ad esso di Edward Gans, che riportiamo per intero:
La particolarità per sé è ciò che è dissoluto e smodato, e le forme di questa dissolutezza sono smodate. Tramite le sue rappresentazioni e riflessioni l’uomo espande i suoi desideri, che non sono una cerchia finita come l’istinto dell’animale, e li conduce alla cattiva infinità. Parimenti però dall’altro lato la privazione e necessità sono senza misura, e il disordine di questa situazione può pervenire alla sua armonia soltanto grazie allo Stato, che su di essa ha potestà. Se lo Stato di Platone volle escludere la particolarità, con ciò non è d’aiuto, perché un aiuto siffatto contraddirebbe l’infinito diritto dell’idea, di lasciar libera la particolarità. Precipuamente nella religione cristiana è sorto il diritto della soggettività, al modo che l’infinità dell’esser per sé, e quivi la totalità deve in pari tempo mantenere la forza di porre la particolarità in armonia con l’unità etica[15].
I Lineamenti delineano un tentativo di sintesi di questo genere (che, come osserva anche Taylor, non corrisponde allo Stato prussiano dell’epoca, come alcuni critici di Hegel hanno sostenuto). Il principio moderno della libertà individuale è incarnato nella «società civile», o più precisamente in quella parte di essa che è il «sistema dei bisogni» (§§ 189-208). Al contempo, esso è tutelato nella sfera del «diritto astratto», che regola la proprietà privata, il contratto e l’illecito (§§ 34-104).
Nello schema hegeliano, il sistema dei bisogni della società civile è già parte dell’«eticità»: il che significa che, anche se società civile e Stato sono distinti, essi sono tuttavia intrecciati, di modo che le esigenze dei singoli individui della prima non entrino in contrasto con le esigenze superiori del secondo. Questa è la ragione per cui la società civile comprende al suo interno l’amministrazione della giustizia, la polizia e la corporazione, che fungono da collanti con la sfera superiore dello Stato.
Il sistema dei bisogni, che i teorici dell’economia politica e i liberali hanno spesso considerato il luogo per eccellenza della libertà, dev’essere integrato nello Stato quale sostanza etica: «il diritto degli individui per la loro destinazione soggettiva alla libertà ha il suo compimento nel fatto ch’essi appartengono alla realtà etica, giacché la certezza della loro libertà ha la sua verità in tale oggettività, ed essi nell’ethos posseggono realmente la loro propria essenza, la loro interna universalità» (§ 153).
Se questo non avviene, si permane all’astrattezza dell’individuo e del diritto ad esso corrispondente, e lo Stato viene inteso meramente come uno strumento per la «protezione della proprietà e della libertà personale» (§ 258), come teorizzato esplicitamente da John Locke[16]. Ma l’implausibilità di questa soluzione, da cui Kant ancora non si distanzia sufficientemente, è già stata scalzata via dalla storia, il cui Spirito ora richiede una determinazione superiore. Ma soltanto quando l’individuo riconosce che è lo Stato a conferirgli una libertà non più formale ma sostanziale ed etica, questo cessa di essere inteso strumentalmente e diviene «assoluto immobile fine in se stesso» (§ 258).
Questo lungo excursus sulla filosofia hegeliana ci permette di capire la posizione di Charles Taylor. Anticipando temi che svilupperà successivamente in Radici dell’io Taylor interpreta lo sforzo hegeliano situando il filosofo nel contesto più vasto della cultura tedesca del suo periodo, rintracciando l’origine della riflessione hegeliana in un’esigenza tutta romantica di compensazione tra l’individualità, percepita ormai come valore assoluto, e il cosmo in cui essa si trova e che è costituito tanto dalla natura quanto dal mondo sociale. Questo cosmo non può più essere interpretato con gli schemi rigidi di una metafisica abbandonata, ma viene inteso piuttosto come un una natura naturans che può giungere ad espressione soltanto per mezzo dell’uomo[17]. Come ha scritto Costa nel suo commento a Taylor: «la natura, e in primis la natura umana, non sarebbe quindi altro che un sostrato di potenzialità, una corrente di vita che domanda di essere condotta a manifestazione per poter, a quel punto, essere riconosciuta come propria della libera soggettività»[18]. Questa sarebbe l’idea fondamentale dell’espressivismo, che ha la sua figura centrale in Herder, secondo il quale ogni individuo (e, a livello superiore, ogni popolo) attualizza alcune potenzialità in maniera peculiare, esprimendo in questo modo la sua unicità e la sua autenticità.
Questo ideale di autenticità, che nella sua formulazione originaria pone l’individuo in relazione con l’unità espressiva del cosmo, sarebbe alla base, secondo l’interpretazione tayloriana, dello sforzo hegeliano di conciliare il finito con l’infinito, la libertà dell’individuo e l’ordine dello Spirito.
In base a questo paradigma Taylor spiega anche il concetto hegeliano di spirito oggettivo, che sarebbe tanto il prodotto dell’attività espressiva di un popolo, quando l’ineludibile orizzonte di senso cui ogni nuovo membro di esso deve fare riferimento[19]. In tal modo, lo spirito oggettivo è anche il fondamento dell’identità individuale, in quanto ogni individuo nasce all’interno di un contesto sociale caratterizzato da un linguaggio, delle istituzioni, delle pratiche il cui senso può essere fornito unicamente dalla comunità stessa (seguendo Wittgenstein, Taylor nega l’esistenza di un linguaggio privato[20]). Come Hegel insegna, non esiste alcun individuo che non sia situato in una società storica e particolare e la realizzazione della libertà del singolo non può mai prescindere da questo. Fin dalla sua monografia su Hegel, quindi, Taylor individua quelli che saranno i fondamenti della sua ontologia e della sua critica al liberalismo atomista, il quale propugna un ideale di libertà intesa unicamente in termini negativi (cioè, di assenza di costrizioni). Dal punto di vista dell’espressivismo, questa caratterizzazione è del tutto insufficiente a dar conto di cosa sia davvero la libertà[21].
Le vicende della libertà moderna come sono narrate da Hegel hanno, dunque, una fondamentale importanza per l’uomo contemporaneo, il quale non può accontentarsi di una libertà astratta e negativa, ma, per realizzare davvero la sua autenticità, necessità di un orizzonte di senso fornito dalla cultura (nel senso antropologico del termine) in cui è inserito. La sfida della politica nell’epoca della globalizzazione è, per Taylor, riuscire a conciliare la sopravvivenza di queste fonti necessarie dell’identità individuale con i principi moderni della libertà e della democrazia, entrambe intese in senso repubblicano, come vedremo oltre.
Come Karl Marx aveva criticato il progetto hegeliano di conciliazione tra le istanze dirompenti della società civile e quelle conservative degli Stände e in generale dell’eticità espressa dal monarca, così Alasdair MacIntyre rifiuta esplicitamente il modello dei «comunitaristi» visto come vano tentativo di sintesi tra la necessità umana di un saldo legame comunitario, fondato su un’idea del bene, e la spinta centrifuga delle principali istituzioni della modernità, lo Stato e il mercato capitalistico.
Non sorprende, quindi, che egli, come Marx, ignori il tentativo hegeliano, destinato al fallimento, e si rifaccia piuttosto a una delle fonti più antiche del pensiero comunitario, cioè Aristotele. MacIntyre non ha dedicato una monografia specifica a questo autore, ma il suo nome compare praticamente in ogni suo scritto, almeno a partire dal suo distacco dal marxismo, cui aveva aderito in gioventù. In effetti il progetto di Marx si è rivelato fallimentare almeno quanto il tentativo hegeliano di conciliare la «libertà dei moderni» e quella «degli antichi».
La dottrina politica di Aristotele ha le sue basi nella metafisica e in particolare nel concetto di essenza, laddove questo trova applicazione alla specie umana. Le essenze sono le specie ultime dei generi[22], ciò mediante cui si definisce una sostanza prima (cioè, ad esempio, un certo uomo o un certo cavallo )[23], e che non sono nulla di esistente senza queste ultime[24]. Esse sono quindi ciò che rende possibile l’unità della specie e che ne caratterizza ogni singolo individuo, senza essere dotate di un’esistenza indipendente (come le idee platoniche).
Se si escludono gli esseri non viventi, si può dire che l’essenza corrisponde in qualche modo alle facoltà dell’anima: per Aristotele infatti tutti gli individui sono dotati di un’anima, la quale è causa delle caratteristiche proprie dei generi o delle specie ai quali essi possono essere ricondotti. La facoltà nutritiva appartiene all’intero genere dei viventi ed è propria della specie delle piante; la facoltà sensitiva è comune al genere animale e propria della specie di animali non intelligenti; la facoltà intellettiva è invece comune al genere umano e propria soltanto di esso (o quantomeno della specie di uomini sani).
L’essenza è quindi definibile a partire dalle capacità che ogni individuo di una determinata specie possiede grazie alle facoltà dell’anima. Ora, per Aristotele, «il fine dei viventi non è altro che l’esercizio delle attività a loro peculiari»[25], cioè dell’attività perfetta della parte dell’anima che li caratterizza specificamente. Di conseguenza, il fine dei viventi sarà la realizzazione di ciò che esprime la loro essenza peculiare.
Questa considerazione è di fondamentale importanza, in quanto permette di comprendere come l’attività propria di ciascun vivente sia intrinsecamente unita alla verità ontologica della sua essenza. Ciò ha le sue più vaste conseguenze nell’ambito dell’etica, ed è infatti nelle opere dedicate alla scienza pratica che si trova la formulazione di tale principio. Nell’Etica Eudemia ne rinveniamo la più concisa e al contempo eloquente: «τέλος εκάτου τò έργον»[26], che Marcello Zanatta traduce come «fine di ciascuna cosa è l’opera»[27]. Il medesimo traduttore precisa che érgon è un termine che Aristotele mutua da Platone per denotare l’opera per il compimento della quale la cosa è fatta. «[L’érgon] dunque - essendo il suo fine – ne definisce anche l’essenza»[28], dato che, come si è detto, il fine dei viventi è il compimento della loro essenza.
Ma nella filosofia aristotelica alla nozione di telos è associata anche quella di energheia. Secondo la dottrina aristotelica della potenza e dell’atto, la dynamis (potenza) è capacità, movimento orientato ad un fine; l’energheia (atto) è la causa finale, il telos verso il quale tende qualsiasi dynamis. Per questo, «secondo la sostanza» esso «è anteriore» rispetto alla potenza: «tutto ciò che diviene procede verso un principio, ossia verso il fine: infatti, lo scopo (telos) costituisce un principio e il divenire ha luogo in funzione del fine. E il fine è l’atto (energheia[29].
Possiamo perciò notare una straordinaria convergenza, su questo punto, di un cospicuo numero di termini che possono essere annoverati fra i più importanti di tutta la filosofia aristotelica: telos, ergon, ousia, energheia (e quindi, implicitamente, anche dynamis).
Volendo tentare di esplicitare più chiaramente questa corrispondenza, possiamo affermare che per Aristotele: 1) il fine (telos) di ogni vivente è compiere l’opera che gli è propria (ergon), cioè quell’opera che è espressione della parte dell’anima che lo caratterizza; 2) il compimento di quest’opera coincide con la realizzazione dell’essenza (ousia) del vivente e quindi con 3) la piena attualizzazione (energheia) delle potenzialità (dynamis) che gli sono proprie per natura. Ogni cosa, infatti, realizza pienamente la propria natura soltanto quando perviene all’attualizzazione, in quanto «l’atto è l’esistere della cosa»[30].
Ora, se è l’essenza ad indicare l’opera propria che è fine del vivente, questo significa che l’uomo dovrà agire in base a ciò che lo caratterizza specificamente. Ciò significa che, in una prospettiva Aristotelica, l’uomo non può essere considerato libero di perseguire una qualsivoglia concezione del bene (come sostengono i teorici liberali), ma dovrà adeguarsi alla sua stessa natura per essere davvero libero e perseguire la vita buona. L’uomo ha perciò il compito di conoscere la verità circa la propria essenza per poter agire al massimo delle sue potenzialità. Infatti su questa verità dovrà basarsi la scelta dei fini moralmente belli delle azioni, che costituiscono i principi dell’agire fungendo da premessa maggiore dei sillogismi pratici.
Ma qual è il bene cui l’uomo deve tendere? Secondo Aristotele la più perfetta attività dell’uomo (e di conseguenza quella maggiormente atta al conseguimento della felicità) è la contemplazione. Essa, infatti, è la realizzazione virtuosa della parte dell’anima che ha in sé il logos (è la maggiore virtù dianoetica); essendo questa la parte migliore, segue da ciò che il suo scopo sarà anche il più perfetto. Per evitare di fraintendere questo punto, occorre però accentuare due aspetti: da un lato la contemplazione non è qualcosa di completamente separato dalla prassi, in quanto l’individuazione dei principi pratici è di pertinenza della teoresi; dall’altro, non si deve dimenticare che il sillogismo pratico si conclude nell’azione, e non semplicemente nella formulazione teorica della sua possibilità. Sarebbe sbagliato, perciò, intendere Aristotele come un precursore di Epicuro, che predica l’isolamento del sapiente e il suo ritrarsi da ogni attività politica.
Inoltre, la stessa contemplazione assume, in negativo, un significato politico. Per Aristotele ogni attività utile è sempre un mezzo e come tale indica un’incompletezza relativa al fine; ciò che costituisce il telos dell’uomo deve essere inutile in quanto completo, non finalizzato all’ottenimento di altro. L’utile non può mai essere fine in se stesso perché costituisce sempre un rimando, ingenerando un movimento insaziabile del desiderio che non può essere soddisfatto e che non può dunque portare alla felicità. Tale è l’atteggiamento di coloro che hanno di mira l’onore, il prestigio, il potere, la ricchezza, eccetera.
Soltanto in questo senso la politica è da fuggire, ma non in quanto anch’essa può essere un mezzo per il raggiungimento delle condizioni che permettano la felicità suprema dell’attività contemplativa. Come ha scritto Enrico Berti «è necessario liberare l’uomo dal bisogno, affinché egli possa dedicarsi a quelle attività teoretiche»[31].
Per dare una più completa caratterizzazione del telos umano in una prospettiva aristotelica, poi, non dobbiamo dimenticare che l’anima, per natura, è composta anche da una parte vegetativa (che non possiede né può seguire il logos e corrisponde alle funzioni biologiche) e da una parte appetitiva (la quale può essere guidata dal logos ed essere virtuosa). Se la felicità consiste nella realizzazione della natura dell’uomo, allora essa, per essere completa non potrà non riguardare queste due parti dell’anima. Allora la teoresi sarà sì il grado supremo della felicità, in quanto realizzazione dell’essenza specifica dell’uomo, ma pur sempre solo una sua parte, in quanto non è ancora la realizzazione della sua genericità. Ad essa si aggiungerà quella relativa all’anima vegetativa, consistente nella soddisfazione dei bisogni del corpo, implicando sia beni materiali (ad esempio il cibo e una adeguata ricchezza) sia piaceri (che, adeguatamente misurati, sono inclusi nell’etica aristotelica); infine si avrà la felicità conseguente alla soddisfazione degli appetiti opportunamente indirizzati dal logos, ciò che permetterà all’uomo di ottenere, ancora una volta, sia beni materiali che piaceri, agendo con moderazione nell’ambito della comunità politica.
Per tutte queste ragioni, che indicano come l’uomo possa essere autonomo solo all’interno del contesto politico, Aristotele definisce l’uomo come «un animale politico»[32]. Soltanto la polis può assicurare al saggio una vita autonoma e permettere la realizzazione di una vita felice a tutti i cittadini. Questo a sua volta richiederà da parte di ciascuno l’esercizio delle virtù, per la conservazione di quel bene comune che è la comunità stessa, con la concezione del bene che essa incarna.
MacIntyre ci mette in guardia da un ulteriore errore in cui può incappare chi abbia seguito il discorso fin qua. Siccome la conoscenza dei principi della pratica è una conoscenza teoretica, può sembrare - detto in maniera sbrigativa - che Aristotele consideri necessario per ciascuno divenire filosofi prima di poter agire correttamente. Ma questo è in contraddizione con quanto Aristotele dice circa il fatto che l’azione virtuosa è il frutto di una disposizione abituale, e non di una conoscenza teoretica[33].
Per districare questa apparente contraddizione occorre chiarire alcuni passaggi rilevanti. Innanzitutto è necessario domandarsi che cosa differenzia la conoscenza vera delle essenze (che, come abbiamo visto, è implicata anche nel il ragionamento pratico) dalla conoscenza vera di altri tipi di enti. La prima chiarificazione che si impone è che, nell’ontologia aristotelica, le essenze sono considerate enti semplici (cioè non composti) ed eterni (anche se non dotati di un’esistenza separata dagli enti).
Le proposizioni che sono passibili di essere vere o false sono chiamate da Aristotele «discorsi dichiarativi», che sono l’affermazione («il giudizio che attribuisce qualcosa a qualcosa») e la negazione («il giudizio che separa qualcosa da qualcosa»). La congiunzione di più discorsi dichiarativi forma un discorso composto, il cui valore di verità dipenderà tuttavia dai suoi componenti semplici, che perciò sono i soli ad essere presi in considerazione. (Vi sono poi dei discorsi, come la preghiera, che, pur essendo significativi, non sono né veri né falsi)[34].
I termini «attribuire» e «separare» significano qui rispettivamente «predicare affermativamente» e «predicare negativamente», nel senso che un’opinione o una dichiarazione che predichino affermativamente qualcosa di qualcos’altro ritengono che, nella realtà, il secondo sia unito al primo; mentre un’opinione o una dichiarazione che predicano negativamente, esprimono la credenza che nella realtà qualcosa sia separato da qualcos’altro. Ad esempio «Teeteto è seduto» asserisce che nella realtà l’essere-seduto è unito a Teeteto, mentre «Teeteto non è seduto» asserisce che nella realtà l’essere-seduto è separato da Teeteto.
Poiché la predicazione implica l’unione o la separazione di enti, è chiaro che i discorsi dichiarativi potranno riferirsi soltanto agli enti composti. Gli enti semplici – tra cui le essenze - sono invece oggetto di un’intuizione conoscitiva, compiuta mediante l’intelletto, che si differenzia in ciò dal logos della ragione. Per quanto concerne gli enti semplici, perciò, saranno possibili soltanto affermazioni esistenziali[35], che predicano unicamente l’essere dell’ente: tali affermazioni potranno essere esclusivamente vere, poiché gli enti semplici sono eterni; il contrario della verità, in questo caso, non sarà la falsità, bensì l’ignoranza[36]. L’essere di tali sostanze implica la loro esistenza, giacché esse sono sempre in atto: se così non fosse, esse sarebbero soggette alla generazione e alla corruzione.
La conoscenza intuitiva degli enti semplici è poi inscindibile dalla conoscenza delle loro caratteristiche[37], in quanto una sostanza non composta «esiste in un determinato modo, e, se non esiste in questo modo, non esiste in alcun modo»[38]. L’intuizione del loro essere sarà quindi insieme anche intuizione del loro esser-così.
Ma se la conoscenza delle essenze è intuitiva, ciò significa che non è necessario, per agire rettamente, elaborare un ragionamento discorsivo. Più specificamente, possiamo ora comprendere che la conoscenza dei principi primi dell’azione non richiede una speciale dedizione teoretica, bensì è proprio l’educazione pratica alla virtù che, fornendoci l’adeguata disposizione di carattere, ci permette di agire in base all’intuizione di ciò che caratterizza l’essenza umana. Come sostiene MacIntyre, è solo partecipando a dalle pratiche che gli individui possono comprendere che cosa è il loro bene (sul concetto di pratiche in MacIntyre torneremo in seguito).
A questo punto, però, sembra che venga a mancare il senso del sillogismo pratico, che è naturalmente una forma elaborata dalla ragione discorsiva. Ma il discorso fatto fin qui servirà a chiarire anche questo punto. Tale sillogismo non è mai esplicitato nel momento in cui un agente particolare si trova ad agire in una situazione particolare. In tali casi, secondo Aristotele, ciò che è richiesto è piuttosto l’esercizio della phronesis, che a sua volta presuppone già un’inclinazione virtuosa. Tuttavia, «in quanto il mio giudizio e la mia azione sono corretti e razionali essi saranno così come sarebbero stati fatti propri da qualcuno che avesse seguito fino alla fine (in due sensi di “fine”) questa catena di indagine [cioè il sillogismo pratico]»[39].
Questo è il significato della precisazione di Aristotele nel punto in cui definisce la virtù, in base al quale lo stato in cui si trova l’uomo virtuoso è tale quale «verrebbe a determinarlo l’uomo saggio»[40]. Il sillogismo è sviluppato solo retrospettivamente, nel momento in cui un agente razionale esamina la sua azione compiuta in vista del bene. In questo senso, il compito del filosofo è chiarire questa struttura alla base dell’azione, ma non è affatto necessario – né sarebbe sufficiente – che un individuo diventi filosofo per agire virtuosamente. Nondimeno, la valorizzazione della figura del sapiente come quella di colui che è massimamente felice, sembra implicare per l’etica aristotelica che il filosofo è il modello al quale ogni uomo debba tendere. Ciò che il discorso complessivo di Aristotele sembra implicare, tuttavia, non è che l’essere filosofo sia la condizione necessaria per divenire virtuosi; al contrario, soltanto l’essere virtuosi può guidare verso la conoscenza di ciò che è bene e, dunque, verso la sapienza. Non ci inganni l’immagine del filosofo accademico cui siamo abituati: per Aristotele filosofo è ogni uomo razionale che agisca virtuosamente e che ponga la verità e il bene quali scopi ultimi della sua vita.
Naturalmente tutto questo, nel discorso di MacIntyre, ha le sue conseguenze politiche. Dal momento che è il contesto sociale ed educativo in cui l’agente è inserito a determinare la forma e il contenuto del suo ragionamento pratico, questo fondamento filosofico aristotelico permette a MacIntyre di criticare come inadeguati alla pratica delle virtù e al conseguimento della vita buona le strutture sociali dominanti della modernità[41]. Esse infatti non sono organizzate sulla base di una concezione forte del bene umano e i loro difensori sostengono che non esiste nulla come un’essenza umana che possa determinare il bene. La società deve piuttosto basarsi su una condivisa idea di giustizia procedurale, che assicuri a tutti la possibilità di perseguire i propri fini privati, in base alle più diverse concezioni del bene.
Quest’ultima è la posizione espressa da Rawls, criticando la quale MacIntyre si pone, insieme con Taylor, sul medesimo terreno dei comunitaristi. Vediamo, allora, come queste basi filosofiche servano ai nostri autori per muovere le loro convincenti critiche al liberalismo della neutralità[42].


[1] Charles Taylor, Hegel, Cambridge University Press, Cambridge 1975. Una riduzione di questo volume, circoscritta ai capitoli sulla filosofia politica e della storia di Hegel (con alcune variazioni), è stata pubblicata come Hegel and Modern Society, Cambridge University Press, Cambridge 1979; tr. it. di Andrea La Porta, Hegel e la società moderna, Il Mulino, Bologna 1984.
[2] G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, a cura di Vincenzo Cicero, Bompiani, Milano 20082, p. 325.
[3] G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di Roberto Bordoli, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 431.
[4] Ivi, p. 447.
[5] G. W. F. Hegel, Fenomenologia cit., p. 327.
[6] G. W. F. Hegel, Lezioni cit., p. 448.
[7] Fenomenologia cit., p. 721.
[8] Ivi, p. 751.
[9] Ivi, p. 753.
[10] Ivi, p. 783.
[11] Ivi, p. 785.
[12] Ivi, p. 791.
[13] Ivi, pp. 599-601.
[14] Ivi, p. 645. Si confronti con il passo citato alla nota 21.
[15] G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di Giuliano Marini, Laterza, Roma-Bari 20106, p. 341.
[16] J. Locke, Secondo trattato sul governo, VII, 88, in Id., Due trattati sul governo, a cura di L. Pareyson, UTET, Torino 20103.
[17] Cfr. Charles Taylor, Hegel cit., p. 15.
[18] Paolo Costa, Verso un’ontologia dell’umano. Antropologia filosofica e filosofia politica in Charles Taylor, Unicopli, Milano 2001, p. 77.
[19] Cfr. Charles Taylor, Hegel cit., pp. 380 ss.
[20] Cfr. Charles Taylor, Irreducibly Social Goods, in Geoffrey Brennan, Cliff Walsh, Rationality, Individualism and Public Policy, Australian National University, Canberra 1990, pp. 45-63; ora in Charles Taylor, Philosophical Arguments, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1995, pp. 127-145; tr. it. di Paolo Costa, Beni irriducibilmente sociali, in Charles Taylor, Etica e umanità, Vita e Pensiero, Milano 2004, pp. 251-275. Il rimando è in particolare alle pp. 257-261.
[21] Cfr. anche i saggi Atomism e What’s wrong with negative liberty? in Charles Taylor, Philosophy and the Human Sciences. Philosophical papers 2, Cambridge University Press, Cambridge 1985, pp. 187-229.
[22] Metaph. Z4, 1030a 10-15.
[23] «Sostanza è quella detta nel senso più proprio e in senso primario e principalmente, la quale né si dice di qualche soggetto né è in qualche soggetto: ad esempio, un certo uomo o un certo cavallo» (Cat. I, 5, 2a 11-13).
[24] Cfr. Cat. I, 5, 2b 6.
[25] G. Movia, Introduzione, in Aristotele, L’anima, Bompiani, Milano 2001, p. 26.
[26] EE II, 1, 1219a 4.
[27] EE, Rizzoli, Milano 2012, p. 365.
[28] M. Zanatta, nota 1 a EN, I, 6, Rizzoli, Milano 1986, p. 407.
[29] Metafisica Θ, 8, 1050a 7-9.
[30] Metafisica Θ, 6, 1048a 32.
[31] E. Berti, Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima, cit. in G. Reale, Introduzione, in Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, p. XVII.
[32] EN I, 5, 1097b 11, Politica I, 2, 1253a 2
[33] EN II, 6, 1107a 1; cfr. Alasdair MacIntyre, Rival Aristoteles: 1. Aristotle against some Renaissance Aristotelians, 2. Aristotle against some modern Aristotelians, Brian O’Neill Memorial Lecture in the History of Philosophy, 1997/98, Department of Philosophy, University of New Mexico 2000; ora in Id., Ethics and Politics. Selected essays, Volume 2, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 3-40.
[34] Per tutte queste considerazioni cfr. Cat. 4-6, 17a 1-30.
[35] Cfr. Paolo Crivelli, Aristotle on truth, Cambridge University Press, Cambridge 2004, p. 18, p. 103.
[36] Cfr. Metaph. Θ10, 1051b 17-30. Se x è un ente semplice, la conoscenza intuitiva di x implicherà l’affermazione esistenziale ‘x esiste’, che potrà essere unicamente vera, poiché la conoscenza di un ente semplice, nel momento in cui è conoscenza, non può essere sbagliata (è impossibile, infatti, predicare di un ente semplice qualcosa che non gli appartenga); dal momento che x è eterno, poi, non potrà darsi nemmeno il caso in cui il nome ‘x’ non abbia una corrispondenza nella realtà.
[37] Mi discosto, in ciò, da quanto affermato in Paolo Crivelli, Aristotle cit., p. 20.
[38] Metaph. Θ10, 1051b 35.
[39] Alasdair MacIntyre, Rival Aristotles cit., p. 37.
[40] EN II, 6, 1107a 1.
[41] Questo punto verrà chiarito meglio in seguito.
[42] Nel seguito del testo, correndo il rischio di imprecisione, utilizzerò prevalentemente il termine «liberalismo» per indicare questo specifico «liberalismo della neutralità».