Taylor
ascrive il suo pensiero alla tradizione repubblicana e che definisce se stesso
come un liberale. Tuttavia si può sostenere che gli autori classici del
pensiero politico cui egli fa riferimento mancano di una vera e propria filosofia politica, per supplire alla
quale Taylor si è riferito a numerosi altri autori, tra i quali Hegel, l’unico
autore a cui ha dedicato uno studio monografico, peraltro molto voluminoso e
importante[1].
Nondimeno, può continuare a suonare strano questo riferimento, in quanto è cosa
nota che Hegel è un pensatore generalmente avversato dai liberali e certamente
la sua concezione organicistica ed etica dello Stato è incompatibile con il
liberalismo.
In realtà
Taylor non abbraccia la filosofia hegeliana in quanto tale e nel corso della
sua esposizione rifiuta esplicitamente alcune idee fondamentali della stessa,
come l’idea di un Geist alla base di
tutta la realtà e della storia e l’articolazione dello Stato nelle specificità
descritte dal filosofo tedesco. Ciononostante, Hegel rimane un pensatore
imprescindibile per chi si occupi dei problemi che il mondo odierno ha
ereditato dalla modernità, in quanto egli fu il primo pensatore che ha compreso
la natura contraddittoria delle aspirazioni della modernità, cercando una loro
sintesi. E questo compito di conciliazione è qualcosa che, lungi dall’essere
stato risolto, riguarda ancora la nostra vita, nei suoi aspetti morali, pratici
e politici. Ma cos’è che deve essere conciliato?
La filosofia
della storia hegeliana, com’è noto, non può considerare un avvenimento epocale
come qualcosa che possa essere semplicemente rifiutato in nome di un’aspirazione
ad una autenticità perduta. Lo Spirito che guida la storia agisce
razionalmente: voler «tornare indietro» significherebbe agire in maniera
contraria ad una razionalità necessaria e essenziale, cioè vorrebbe dire tanto
essere votati al fallimento quanto non riconoscere le vere esigenze della
stessa vita umana. In quest’ottica l’avvento della modernità quale epoca del
trionfo del soggetto deve essere considerata come una conquista imprescindibile
dello Spirito. L’uomo è giunto a sapersi libero nella sua individualità. Se
questo mutamento storico avviene, di principio, con il cristianesimo, che
riconosce ad ogni singola persona umana la pari dignità di fronte a Dio e il
valore infinito della sua vita in quanto tale, si può affermare che esso si
concretizza gradualmente a partire dal Rinascimento. Il Medioevo è, infatti, il
periodo della «coscienza infelice», dove l’individualità esiste solamente in
funzione dell’Immutabile e «l’attività della coscienza stessa diviene
un’attività da nulla, e il suo godimento diventa il sentimento della propria
infelicità»[2].
L’individualità non si riconosce ancora libera in sé e per sé.
Soltanto con
l’Umanesimo del XV secolo «gli uomini sono giunti a sapersi liberi, a far
riconoscere la loro libertà; essi sono pervenuti a scorgere, tramite il lavoro
svolto dalle loro mani, che essi erano coloro che avevano la forza d’essere
attivi in favore dei loro interessi e dei loro scopi»[3].
Questo primo passo verso l’autocoscienza della libertà giunge poi a compimento
con la Riforma, momento in cui questa libertà riceve il suggello di una
giustificazione teologica. Si può pertanto individuare un movimento dialettico che
dalla cristianità cattolica passa per l’Umanesimo (che costituisce una
negazione del principio di dipendenza da Dio proprio della coscienza infelice)
per giungere a superiore sintesi nella teologia luterana. «In tal modo il principio della soggettività,
del puro riferirsi a se stesso, della vera libertà, su cui tutto si fonda, non
solo viene riconosciuto, ma si richiede anche che nel culto e nella religione
solo esso importi. La convalida più forte di questo principio è appunto che
davanti a Dio solo esso ha valore; principio della libertà cristiana è solo la
fede, il proprio cuore, la vittoria e l’entusiasmo del proprio cuore»[4].
La pratica
religiosa della Riforma, con la sua esclusione di qualsiasi termine medio tra
la singolarità e Dio (proprio invece della coscienza infelice che «in questo
termine medio… si libera dall’attività e dal godimento in quanto suoi»[5])
valorizza l’assoluta libertà individuale: «un soggetto nel quale non vi è libertà non è in grado d’assumere
un’attitudine spirituale, non adora Dio in spirito. Questo è il contenuto
universale del principio»[6].
Alla fede si
accompagna, secondo la Fenomenologia
dello Spirito, l’intellezione pura, che riconosce l’assoluta autonomia
della coscienza e diviene così autocoscienza.
Se con la fede si riconosce l’autonomia della coscienza individuale nel suo
rapporto con Dio, con l’intellezione pura si rivendica invece l’autonomia della
coscienza individuale di fronte all’oggettività del mondo.
Tuttavia
l’autocoscienza, a questo stadio del processo di sviluppo dello Spirito, non
corrisponde ancora al suo concetto, in quanto è ancora limitata all’«accidentale, singolare, e la sua essenza appare come il fine che dev’essere attuato»[7].
Questa autocoscienza è destinata ad opporsi alla fede, in quanto quest’ultima,
pur coincidendo nella sostanza con l’intellezione pura, ha una forma diversa da
essa, e proietta l’essenza, anziché nel «Sé
assoluto», in una realtà ad esso opposta. Questo dà origine alla battaglia
dell’Illuminismo contro la religione intesa come superstizione, destinata a
compiersi con la vittoria della verità illuminista, che esclude dalla
conoscenza umana ogni realtà che trascenda il sensibile. Dio rimane un puro «vacuum»[8]
che sta a fondamento della realtà sensibile ma è al contempo separato
totalmente da essa: in tal modo ogni cosa viene ricondotta sotto la categoria
dell’utile[9].
La fede viene svuotata e ridotta ad una «aspirazione
pura, e la sua verità è un vuoto Aldilà
per il quale non è più possibile trovare nessun contenuto sostanziale».
Ogni oggetto
del mondo reale e della fede ricade così nella determinazione semplice
dell’utilità; ma quest’utilità, lungi dall’essere una caratteristica essenziale
dell’Oggetto, è in realtà il sapere del Soggetto, che riconosce il mondo in sé
come essenzialmente per altro,
disponibile all’utilizzo: «in quanto privo
del Sé, l’essere-in-sé
è in verità il Sé passivo, il Sé che è per un altro Sé»[10].
L’esito proprio dell’Illuminismo è quindi la figura della «libertà assoluta» di un Soggetto dinanzi al quale l’Oggetto ha
perso qualsiasi valore in sé. Il significato politico di questo risultato è
espresso chiaramente da Hegel:
La coscienza
considera il mondo assolutamente come propria volontà, e si tratta di una
volontà universale. Per la precisione, non si tratta del pensiero vuoto della
volontà riposto nel consenso tacito o nel consenso espresso per rappresentanza,
bensì della volontà realmente universale, volontà di tutti i singoli in quanto tali. (…) ciò che
allora emerge come attività del Tutto è l’attività immediata e consapevole di Ciascuno.[11]
L’oggetto
non è più l’utile, ma è la coscienza stessa nella sua universalità: ciò che le
si oppone è la volontà singolare. Soltanto la volontà universale, eliminate
tutte le differenze, viene ora ritenuta in
grado di realizzare la libertà. Ma questo, ad avviso di Hegel, è
destinato per necessità al fallimento, perché l’universale non può trovare
compimento se non per medio di un singolo (il monarca nella sua descrizione
dello Stato), mentre la libertà universale della volontà generale non può che
condurre ad una «attività negativa»,
cui corrisponde la celeberrima espressione «furia
del dileguare»[12].
Il percorso
che qui abbiamo delineato sinteticamente mostra come per Hegel la libertà del
soggetto emersa con la modernità si sia conclusa, nella Rivoluzione Francese,
in maniera radicalmente negativa. Ma, com’è noto, nel complesso del pensiero
hegeliano la negazione è considerata momento parziale di un più comprensivo
movimento dialettico all’interno del quale essa è destinata ad essere superata
ad uno stadio di superiore razionalità. Per comprendere questo, occorre
chiarire in che senso la libertà soggettiva moderna era destinata a concludersi
nella furia del dileguare, cioè occorre capire di che cosa essa costituisce la negazione.
Il paradigma
storico di riferimento è l’antica polis,
quell’eticità greca cui Hegel guardava con interesse già nei suoi scritti
giovanili. In linea con una certa idealizzazione della Grecia antica, ma anche
con una indubbia verità storica, Hegel descrive la polis come il luogo in cui la libertà dell’individuo e quella della
comunità in cui vive non sono opposte o distinte. L’uomo greco realizza la sua
libertà soltanto mediante l’azione politica e il suo bene individuale
contribuisce alla determinazione del bene comune. Del resto, questa idea di
politica è quella che ritroviamo negli scritti dei due filosofi più
rappresentativi dell’epoca, cioè Platone e Aristotele. Secondo le parole della Fenomenologia «qui lo Spirito è la comunità», che «è spirito per sé, in quanto si mantiene riflettendosi negli individui, ed è
spirito in sé, cioè sostanza, perché
contiene entro sé gli individui. In quanto sostanza
reale, lo spirito è un popolo; in
quanto coscienza reale, invece, esso
è cittadino del popolo»[13].
Tuttavia
questa eticità che – dice Hegel – ha il carattere dell’immediatezza, in quanto
il singolo si riconosce nella sostanza etica senza la mediazione del pensiero,
è destinata a frantumarsi con l’emergere di conflitti tragici tra le richieste
delle diverse comunità cui lo stesso individuo appartiene (ad esempio, la
famiglia e la città, come esemplificato dalla vicenda dell’Antigone commentata da Hegel). In seguito a questo processo, che
qui evitiamo di delineare, la sostanza etica si sgretola nell’astrattezza delle
singole individualità. Essa diventa «un’universalità
formale» di cui ciascuno diviene titolare in quanto persona: si giunge così
al riconoscimento giuridico della persona nella sua astratta identità
universale. «L’universale, questo spirito morto frantumato negli atomi della
molteplicità assoluta degli individui, è un’uguaglianza
in cui Tutti hanno il valore di Ciascuno, valgono cioè come persone»[14].
Questa
transizione corrisponde storicamente, nel quadro hegeliano, al passaggio dalla
grecità all’epoca romana. Ma il carattere di astrattezza del diritto trascende
questa contingenza storica, giungendo fino a noi. Basti notare come il
linguaggio impiegato da Hegel nella descrizione dello Stato giuridico (le cui
parole chiave sono Tutti, Ciascuno, persone) sia corrispondente con quello
che riemerge nelle sue pagine sulla Rivoluzione Francese citate alla pagina
precedente. Al riconoscimento giuridico dell’individualità
si aggiunge, in epoca moderna, il riconoscimento dapprima filosofico (Rinascimento) e poi anche teologico (Riforma) e politico
(Rivoluzione Francese) di questa individualità. Il problema è che essa
rimane al livello dell’astrazione, dove la differenza è cancellata e ogni
contenuto perso.
L’individuo
che emerge dal tramonto dell’eticità è molto simile al Dio degli Illuministi:
non è altro che un «vacuum». Questa è
la ragione profonda assegnata da Hegel all’esito della Rivoluzione Francese. Ma,
come si diceva, il valore moderno dell’individualità non può essere rigettato
in favore di un vagheggiato ritorno all’eticità greca. Per Hegel quest’ultima è
tramontata perché doveva tramontare.
La soluzione alla negatività è da intravedere in una sintesi finale che concili
l’eticità greca e la libertà moderne, conservandole e insieme trasformandole.
Questa
necessità è espressa concisamente nel paragrafo 185 dei Lineamenti di filosofia del diritto, ma più ancora nell’aggiunta ad
esso di Edward Gans, che riportiamo per intero:
La
particolarità per sé è ciò che è dissoluto e smodato, e le forme di questa
dissolutezza sono smodate. Tramite le sue rappresentazioni e riflessioni l’uomo
espande i suoi desideri, che non sono una cerchia finita come l’istinto
dell’animale, e li conduce alla cattiva infinità. Parimenti però dall’altro
lato la privazione e necessità sono senza misura, e il disordine di questa
situazione può pervenire alla sua armonia soltanto grazie allo Stato, che su di
essa ha potestà. Se lo Stato di Platone volle escludere la particolarità, con
ciò non è d’aiuto, perché un aiuto siffatto contraddirebbe l’infinito diritto
dell’idea, di lasciar libera la particolarità. Precipuamente nella religione
cristiana è sorto il diritto della soggettività, al modo che l’infinità
dell’esser per sé, e quivi la totalità deve in pari tempo mantenere la forza di
porre la particolarità in armonia con l’unità etica[15].
I Lineamenti delineano un tentativo di
sintesi di questo genere (che, come osserva anche Taylor, non corrisponde allo
Stato prussiano dell’epoca, come alcuni critici di Hegel hanno sostenuto). Il
principio moderno della libertà individuale è incarnato nella «società civile»,
o più precisamente in quella parte di essa che è il «sistema dei bisogni» (§§
189-208). Al contempo, esso è tutelato nella sfera del «diritto astratto», che
regola la proprietà privata, il contratto e l’illecito (§§ 34-104).
Nello schema
hegeliano, il sistema dei bisogni della società civile è già parte dell’«eticità»:
il che significa che, anche se società civile e Stato sono distinti, essi sono
tuttavia intrecciati, di modo che le esigenze dei singoli individui della prima
non entrino in contrasto con le esigenze superiori del secondo. Questa è la ragione
per cui la società civile comprende al suo interno l’amministrazione della
giustizia, la polizia e la corporazione, che fungono da collanti con la sfera
superiore dello Stato.
Il sistema
dei bisogni, che i teorici dell’economia politica e i liberali hanno spesso
considerato il luogo per eccellenza della libertà, dev’essere integrato nello
Stato quale sostanza etica: «il diritto
degli individui per la loro destinazione
soggettiva alla libertà ha il suo
compimento nel fatto ch’essi appartengono alla realtà etica, giacché la certezza della loro libertà ha la sua verità in tale oggettività, ed essi
nell’ethos posseggono realmente la loro propria essenza, la loro interna universalità» (§ 153).
Se questo
non avviene, si permane all’astrattezza dell’individuo e del diritto ad esso
corrispondente, e lo Stato viene inteso meramente come uno strumento per la
«protezione della proprietà e della libertà personale» (§ 258), come teorizzato
esplicitamente da John Locke[16].
Ma l’implausibilità di questa soluzione, da cui Kant ancora non si distanzia
sufficientemente, è già stata scalzata via dalla storia, il cui Spirito ora
richiede una determinazione superiore. Ma soltanto quando l’individuo riconosce
che è lo Stato a conferirgli una libertà non più formale ma sostanziale ed
etica, questo cessa di essere inteso strumentalmente e diviene «assoluto
immobile fine in se stesso» (§ 258).
Questo lungo
excursus sulla filosofia hegeliana ci
permette di capire la posizione di Charles Taylor. Anticipando temi che
svilupperà successivamente in Radici
dell’io Taylor interpreta lo sforzo hegeliano situando il filosofo nel
contesto più vasto della cultura tedesca del suo periodo, rintracciando
l’origine della riflessione hegeliana in un’esigenza tutta romantica di
compensazione tra l’individualità, percepita ormai come valore assoluto, e il
cosmo in cui essa si trova e che è costituito tanto dalla natura quanto dal
mondo sociale. Questo cosmo non può più essere interpretato con gli schemi
rigidi di una metafisica abbandonata, ma viene inteso piuttosto come un una natura naturans che può giungere ad
espressione soltanto per mezzo dell’uomo[17].
Come ha scritto Costa nel suo commento a Taylor: «la natura, e in primis la natura umana, non sarebbe
quindi altro che un sostrato di potenzialità, una corrente di vita che domanda
di essere condotta a manifestazione per poter, a quel punto, essere
riconosciuta come propria della libera soggettività»[18].
Questa sarebbe l’idea fondamentale dell’espressivismo, che ha la sua figura
centrale in Herder, secondo il quale ogni individuo (e, a livello superiore,
ogni popolo) attualizza alcune potenzialità in maniera peculiare, esprimendo in
questo modo la sua unicità e la sua autenticità.
Questo
ideale di autenticità, che nella sua formulazione originaria pone l’individuo
in relazione con l’unità espressiva del cosmo, sarebbe alla base, secondo
l’interpretazione tayloriana, dello sforzo hegeliano di conciliare il finito
con l’infinito, la libertà dell’individuo e l’ordine dello Spirito.
In base a
questo paradigma Taylor spiega anche il concetto hegeliano di spirito
oggettivo, che sarebbe tanto il prodotto dell’attività espressiva di un popolo,
quando l’ineludibile orizzonte di senso cui ogni nuovo membro di esso deve fare
riferimento[19]. In tal
modo, lo spirito oggettivo è anche il fondamento dell’identità individuale, in
quanto ogni individuo nasce all’interno di un contesto sociale caratterizzato
da un linguaggio, delle istituzioni, delle pratiche il cui senso può essere
fornito unicamente dalla comunità stessa (seguendo Wittgenstein, Taylor nega
l’esistenza di un linguaggio privato[20]).
Come Hegel insegna, non esiste alcun individuo che non sia situato in una
società storica e particolare e la realizzazione della libertà del singolo non
può mai prescindere da questo. Fin dalla sua monografia su Hegel, quindi,
Taylor individua quelli che saranno i fondamenti della sua ontologia e della
sua critica al liberalismo atomista, il quale propugna un ideale di libertà
intesa unicamente in termini negativi (cioè, di assenza di costrizioni). Dal
punto di vista dell’espressivismo, questa caratterizzazione è del tutto
insufficiente a dar conto di cosa sia davvero la libertà[21].
Le vicende
della libertà moderna come sono narrate da Hegel hanno, dunque, una
fondamentale importanza per l’uomo contemporaneo, il quale non può
accontentarsi di una libertà astratta e negativa, ma, per realizzare davvero la
sua autenticità, necessità di un orizzonte di senso fornito dalla cultura (nel
senso antropologico del termine) in cui è inserito. La sfida della politica
nell’epoca della globalizzazione è, per Taylor, riuscire a conciliare la
sopravvivenza di queste fonti necessarie dell’identità individuale con i
principi moderni della libertà e della democrazia, entrambe intese in senso
repubblicano, come vedremo oltre.
Come Karl
Marx aveva criticato il progetto hegeliano di conciliazione tra le istanze
dirompenti della società civile e quelle conservative degli Stände e in generale dell’eticità
espressa dal monarca, così Alasdair MacIntyre rifiuta esplicitamente il modello
dei «comunitaristi» visto come vano tentativo di sintesi tra la necessità umana
di un saldo legame comunitario, fondato su un’idea del bene, e la spinta
centrifuga delle principali istituzioni della modernità, lo Stato e il mercato
capitalistico.
Non
sorprende, quindi, che egli, come Marx, ignori il tentativo hegeliano,
destinato al fallimento, e si rifaccia piuttosto a una delle fonti più antiche
del pensiero comunitario, cioè Aristotele. MacIntyre non ha dedicato una
monografia specifica a questo autore, ma il suo nome compare praticamente in
ogni suo scritto, almeno a partire dal suo distacco dal marxismo, cui aveva
aderito in gioventù. In effetti il progetto di Marx si è rivelato fallimentare
almeno quanto il tentativo hegeliano di conciliare la «libertà dei moderni» e
quella «degli antichi».
La dottrina
politica di Aristotele ha le sue basi nella metafisica e in particolare nel
concetto di essenza, laddove questo trova applicazione alla specie umana. Le
essenze sono le specie ultime dei generi[22],
ciò mediante cui si definisce una sostanza prima (cioè, ad esempio, un certo
uomo o un certo cavallo )[23],
e che non sono nulla di esistente senza queste ultime[24].
Esse sono quindi ciò che rende possibile l’unità della specie e che ne caratterizza
ogni singolo individuo, senza essere dotate di un’esistenza indipendente (come
le idee platoniche).
Se si
escludono gli esseri non viventi, si può dire che l’essenza corrisponde in
qualche modo alle facoltà dell’anima: per Aristotele infatti tutti gli
individui sono dotati di un’anima, la quale è causa delle caratteristiche
proprie dei generi o delle specie ai quali essi possono essere ricondotti. La
facoltà nutritiva appartiene all’intero genere dei viventi ed è propria della
specie delle piante; la facoltà sensitiva è comune al genere animale e propria
della specie di animali non intelligenti; la facoltà intellettiva è invece
comune al genere umano e propria soltanto di esso (o quantomeno della specie di
uomini sani).
L’essenza è
quindi definibile a partire dalle capacità che ogni individuo di una
determinata specie possiede grazie alle facoltà dell’anima. Ora, per
Aristotele, «il fine dei viventi non è altro che l’esercizio delle attività a
loro peculiari»[25], cioè
dell’attività perfetta della parte dell’anima che li caratterizza
specificamente. Di conseguenza, il fine dei viventi sarà la realizzazione di
ciò che esprime la loro essenza peculiare.
Questa
considerazione è di fondamentale importanza, in quanto permette di comprendere
come l’attività propria di ciascun vivente sia intrinsecamente unita alla
verità ontologica della sua essenza. Ciò ha le sue più vaste conseguenze
nell’ambito dell’etica, ed è infatti nelle opere dedicate alla scienza pratica
che si trova la formulazione di tale principio. Nell’Etica Eudemia ne rinveniamo la più concisa e al contempo eloquente:
«τέλος εκάτου τò έργον»[26],
che Marcello Zanatta traduce come «fine di ciascuna cosa è l’opera»[27].
Il medesimo traduttore precisa che érgon
è un termine che Aristotele mutua da Platone per denotare l’opera per il
compimento della quale la cosa è fatta. «[L’érgon]
dunque - essendo il suo fine – ne definisce anche l’essenza»[28],
dato che, come si è detto, il fine dei viventi è il compimento della loro
essenza.
Ma nella
filosofia aristotelica alla nozione di telos
è associata anche quella di energheia.
Secondo la dottrina aristotelica della potenza e dell’atto, la dynamis (potenza) è capacità, movimento
orientato ad un fine; l’energheia (atto)
è la causa finale, il telos verso il quale tende qualsiasi dynamis.
Per questo, «secondo la sostanza» esso «è anteriore» rispetto alla potenza:
«tutto ciò che diviene procede verso un principio, ossia verso il fine:
infatti, lo scopo (telos) costituisce un principio e il divenire ha
luogo in funzione del fine. E il fine è l’atto (energheia)»[29].
Possiamo
perciò notare una straordinaria convergenza, su questo punto, di un cospicuo
numero di termini che possono essere annoverati fra i più importanti di tutta
la filosofia aristotelica: telos, ergon, ousia, energheia (e
quindi, implicitamente, anche dynamis).
Volendo
tentare di esplicitare più chiaramente questa corrispondenza, possiamo
affermare che per Aristotele: 1) il
fine (telos) di ogni vivente è
compiere l’opera che gli è propria (ergon),
cioè quell’opera che è espressione della parte dell’anima che lo caratterizza; 2) il compimento di quest’opera coincide
con la realizzazione dell’essenza (ousia)
del vivente e quindi con 3) la piena
attualizzazione (energheia) delle
potenzialità (dynamis) che gli sono
proprie per natura. Ogni cosa, infatti, realizza pienamente la propria natura
soltanto quando perviene all’attualizzazione, in quanto «l’atto è l’esistere
della cosa»[30].
Ora, se è
l’essenza ad indicare l’opera propria che è fine del vivente, questo significa
che l’uomo dovrà agire in base a ciò che lo caratterizza specificamente. Ciò
significa che, in una prospettiva Aristotelica, l’uomo non può essere
considerato libero di perseguire una qualsivoglia concezione del bene (come
sostengono i teorici liberali), ma dovrà adeguarsi alla sua stessa natura per
essere davvero libero e perseguire la vita buona. L’uomo ha perciò il compito
di conoscere la verità circa la propria essenza per poter agire al massimo
delle sue potenzialità. Infatti su questa verità dovrà basarsi la scelta dei
fini moralmente belli delle azioni, che costituiscono i principi dell’agire
fungendo da premessa maggiore dei sillogismi pratici.
Ma qual è il
bene cui l’uomo deve tendere? Secondo Aristotele la più perfetta attività
dell’uomo (e di conseguenza quella maggiormente atta al conseguimento della
felicità) è la contemplazione. Essa, infatti, è la realizzazione virtuosa della
parte dell’anima che ha in sé il logos (è la maggiore virtù dianoetica);
essendo questa la parte migliore, segue da ciò che il suo scopo sarà anche il
più perfetto. Per evitare di fraintendere questo punto, occorre però accentuare
due aspetti: da un lato la contemplazione non è qualcosa di completamente
separato dalla prassi, in quanto l’individuazione dei principi pratici è di
pertinenza della teoresi; dall’altro, non si deve dimenticare che il sillogismo
pratico si conclude nell’azione, e non semplicemente nella formulazione teorica
della sua possibilità. Sarebbe sbagliato, perciò, intendere Aristotele come un
precursore di Epicuro, che predica l’isolamento del sapiente e il suo ritrarsi
da ogni attività politica.
Inoltre, la
stessa contemplazione assume, in negativo, un significato politico. Per
Aristotele ogni attività utile è sempre un mezzo e come tale indica
un’incompletezza relativa al fine; ciò che costituisce il telos dell’uomo
deve essere inutile in quanto completo, non finalizzato all’ottenimento di
altro. L’utile non può mai essere fine in se stesso perché costituisce sempre
un rimando, ingenerando un movimento insaziabile del desiderio che non può
essere soddisfatto e che non può dunque portare alla felicità. Tale è
l’atteggiamento di coloro che hanno di mira l’onore, il prestigio, il potere,
la ricchezza, eccetera.
Soltanto in
questo senso la politica è da fuggire, ma non in quanto anch’essa può essere un
mezzo per il raggiungimento delle condizioni che permettano la felicità suprema
dell’attività contemplativa. Come ha scritto Enrico Berti «è necessario
liberare l’uomo dal bisogno, affinché egli possa dedicarsi a quelle attività
teoretiche»[31].
Per dare una
più completa caratterizzazione del telos umano
in una prospettiva aristotelica, poi, non dobbiamo dimenticare che l’anima, per
natura, è composta anche da una parte vegetativa (che non possiede né può
seguire il logos e corrisponde alle funzioni biologiche) e da una parte
appetitiva (la quale può essere guidata dal logos ed essere virtuosa).
Se la felicità consiste nella realizzazione della natura dell’uomo, allora
essa, per essere completa non potrà non riguardare queste due parti
dell’anima. Allora la teoresi sarà sì il grado supremo della felicità, in
quanto realizzazione dell’essenza specifica
dell’uomo, ma pur sempre solo una sua parte, in quanto non è ancora la
realizzazione della sua genericità.
Ad essa si aggiungerà quella relativa all’anima vegetativa, consistente nella
soddisfazione dei bisogni del corpo, implicando sia beni materiali (ad esempio
il cibo e una adeguata ricchezza) sia piaceri (che, adeguatamente misurati,
sono inclusi nell’etica aristotelica); infine si avrà la felicità conseguente
alla soddisfazione degli appetiti opportunamente indirizzati dal logos,
ciò che permetterà all’uomo di ottenere, ancora una volta, sia beni materiali
che piaceri, agendo con moderazione nell’ambito della comunità politica.
Per tutte
queste ragioni, che indicano come l’uomo possa essere autonomo solo all’interno
del contesto politico, Aristotele definisce l’uomo come «un animale politico»[32].
Soltanto la polis può assicurare al
saggio una vita autonoma e permettere la realizzazione di una vita felice a
tutti i cittadini. Questo a sua volta richiederà da parte di ciascuno
l’esercizio delle virtù, per la conservazione di quel bene comune che è la
comunità stessa, con la concezione del bene che essa incarna.
MacIntyre ci
mette in guardia da un ulteriore errore in cui può incappare chi abbia seguito
il discorso fin qua. Siccome la conoscenza dei principi della pratica è una
conoscenza teoretica, può sembrare - detto in maniera sbrigativa - che
Aristotele consideri necessario per ciascuno divenire filosofi prima di poter
agire correttamente. Ma questo è in contraddizione con quanto Aristotele dice
circa il fatto che l’azione virtuosa è il frutto di una disposizione abituale,
e non di una conoscenza teoretica[33].
Per
districare questa apparente contraddizione occorre chiarire alcuni passaggi
rilevanti. Innanzitutto è necessario domandarsi che cosa differenzia la
conoscenza vera delle essenze (che, come abbiamo visto, è implicata anche nel
il ragionamento pratico) dalla conoscenza vera di altri tipi di enti. La prima
chiarificazione che si impone è che, nell’ontologia aristotelica, le essenze
sono considerate enti semplici (cioè non composti) ed eterni (anche se non
dotati di un’esistenza separata dagli enti).
Le
proposizioni che sono passibili di essere vere o false sono chiamate da
Aristotele «discorsi dichiarativi», che sono l’affermazione («il giudizio che
attribuisce qualcosa a qualcosa») e la negazione («il giudizio che separa
qualcosa da qualcosa»). La congiunzione di più discorsi dichiarativi forma un
discorso composto, il cui valore di verità dipenderà tuttavia dai suoi
componenti semplici, che perciò sono i soli ad essere presi in considerazione. (Vi
sono poi dei discorsi, come la preghiera, che, pur essendo significativi, non
sono né veri né falsi)[34].
I termini
«attribuire» e «separare» significano qui rispettivamente «predicare affermativamente»
e «predicare negativamente», nel senso che un’opinione o una dichiarazione che
predichino affermativamente qualcosa di qualcos’altro ritengono che, nella
realtà, il secondo sia unito al primo; mentre un’opinione o una dichiarazione
che predicano negativamente, esprimono la credenza che nella realtà qualcosa
sia separato da qualcos’altro. Ad esempio «Teeteto è seduto» asserisce che
nella realtà l’essere-seduto è unito
a Teeteto, mentre «Teeteto non è seduto» asserisce che nella realtà l’essere-seduto
è separato da Teeteto.
Poiché la
predicazione implica l’unione o la separazione di enti, è chiaro che i discorsi
dichiarativi potranno riferirsi soltanto agli enti composti. Gli enti semplici
– tra cui le essenze - sono invece oggetto di un’intuizione conoscitiva,
compiuta mediante l’intelletto, che si differenzia in ciò dal logos della ragione. Per quanto concerne
gli enti semplici, perciò, saranno possibili soltanto affermazioni esistenziali[35],
che predicano unicamente l’essere dell’ente: tali affermazioni potranno essere
esclusivamente vere, poiché gli enti semplici sono eterni; il contrario della
verità, in questo caso, non sarà la falsità, bensì l’ignoranza[36].
L’essere di tali sostanze implica la loro esistenza, giacché esse sono sempre
in atto: se così non fosse, esse sarebbero soggette alla generazione e alla
corruzione.
La
conoscenza intuitiva degli enti semplici è poi inscindibile dalla conoscenza
delle loro caratteristiche[37],
in quanto una sostanza non composta «esiste in un determinato modo, e, se non
esiste in questo modo, non esiste in alcun modo»[38].
L’intuizione del loro essere sarà quindi insieme anche intuizione del loro
esser-così.
Ma se la
conoscenza delle essenze è intuitiva, ciò significa che non è necessario, per
agire rettamente, elaborare un ragionamento discorsivo. Più specificamente,
possiamo ora comprendere che la conoscenza dei principi primi dell’azione non
richiede una speciale dedizione teoretica, bensì è proprio l’educazione pratica
alla virtù che, fornendoci l’adeguata disposizione di carattere, ci permette di
agire in base all’intuizione di ciò che caratterizza l’essenza umana. Come
sostiene MacIntyre, è solo partecipando a dalle pratiche che gli individui
possono comprendere che cosa è il loro bene (sul concetto di pratiche in
MacIntyre torneremo in seguito).
A questo
punto, però, sembra che venga a mancare il senso del sillogismo pratico, che è
naturalmente una forma elaborata dalla ragione discorsiva. Ma il discorso fatto
fin qui servirà a chiarire anche questo punto. Tale sillogismo non è mai
esplicitato nel momento in cui un agente particolare si trova ad agire in una
situazione particolare. In tali casi, secondo Aristotele, ciò che è richiesto è
piuttosto l’esercizio della phronesis,
che a sua volta presuppone già un’inclinazione virtuosa. Tuttavia, «in quanto
il mio giudizio e la mia azione sono corretti e razionali essi saranno così
come sarebbero stati fatti propri da qualcuno che avesse seguito fino alla fine
(in due sensi di “fine”) questa catena di indagine [cioè il sillogismo
pratico]»[39].
Questo è il
significato della precisazione di Aristotele nel punto in cui definisce la
virtù, in base al quale lo stato in cui si trova l’uomo virtuoso è tale quale
«verrebbe a determinarlo l’uomo saggio»[40].
Il sillogismo è sviluppato solo retrospettivamente, nel momento in cui un
agente razionale esamina la sua azione compiuta in vista del bene. In questo
senso, il compito del filosofo è chiarire questa struttura alla base
dell’azione, ma non è affatto necessario – né sarebbe sufficiente – che un
individuo diventi filosofo per agire virtuosamente. Nondimeno, la
valorizzazione della figura del sapiente come quella di colui che è
massimamente felice, sembra implicare per l’etica aristotelica che il filosofo
è il modello al quale ogni uomo debba tendere. Ciò che il discorso complessivo
di Aristotele sembra implicare, tuttavia, non è che l’essere filosofo sia la
condizione necessaria per divenire virtuosi; al contrario, soltanto l’essere
virtuosi può guidare verso la conoscenza di ciò che è bene e, dunque, verso la
sapienza. Non ci inganni l’immagine del filosofo accademico cui siamo abituati:
per Aristotele filosofo è ogni uomo razionale che agisca virtuosamente e che
ponga la verità e il bene quali scopi ultimi della sua vita.
Naturalmente
tutto questo, nel discorso di MacIntyre, ha le sue conseguenze politiche. Dal
momento che è il contesto sociale ed educativo in cui l’agente è inserito a
determinare la forma e il contenuto del suo ragionamento pratico, questo
fondamento filosofico aristotelico permette a MacIntyre di criticare come
inadeguati alla pratica delle virtù e al conseguimento della vita buona le
strutture sociali dominanti della modernità[41].
Esse infatti non sono organizzate sulla base di una concezione forte del bene
umano e i loro difensori sostengono che non esiste nulla come un’essenza umana
che possa determinare il bene. La società deve piuttosto basarsi su una
condivisa idea di giustizia procedurale, che assicuri a tutti la possibilità di
perseguire i propri fini privati, in base alle più diverse concezioni del bene.
Quest’ultima
è la posizione espressa da Rawls, criticando la quale MacIntyre si pone,
insieme con Taylor, sul medesimo terreno dei comunitaristi. Vediamo, allora,
come queste basi filosofiche servano ai nostri autori per muovere le loro
convincenti critiche al liberalismo della neutralità[42].
[1] Charles
Taylor, Hegel, Cambridge University
Press, Cambridge 1975. Una
riduzione di questo volume, circoscritta ai capitoli sulla filosofia politica e
della storia di Hegel (con alcune variazioni), è stata pubblicata come Hegel and Modern Society, Cambridge
University Press, Cambridge 1979; tr. it. di Andrea La Porta, Hegel e la società moderna, Il Mulino,
Bologna 1984.
[2] G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, a cura di Vincenzo Cicero, Bompiani,
Milano 20082, p. 325.
[3] G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di Roberto Bordoli, Laterza,
Roma-Bari, 2009, p. 431.
[4] Ivi,
p. 447.
[5] G. W. F. Hegel, Fenomenologia cit., p. 327.
[6] G. W. F. Hegel, Lezioni cit., p. 448.
[7] Fenomenologia
cit., p. 721.
[8] Ivi,
p. 751.
[9] Ivi,
p. 753.
[10] Ivi,
p. 783.
[11] Ivi,
p. 785.
[12] Ivi,
p. 791.
[13] Ivi,
pp. 599-601.
[14] Ivi,
p. 645. Si confronti con il passo citato alla nota 21.
[15] G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di Giuliano Marini,
Laterza, Roma-Bari 20106, p. 341.
[16] J. Locke, Secondo trattato sul governo, VII, 88, in Id., Due trattati sul governo, a cura di L. Pareyson, UTET, Torino 20103.
[17] Cfr.
Charles Taylor, Hegel cit., p. 15.
[18] Paolo Costa, Verso un’ontologia dell’umano. Antropologia filosofica e filosofia
politica in Charles Taylor, Unicopli, Milano 2001, p. 77.
[19] Cfr.
Charles Taylor, Hegel cit., pp. 380
ss.
[20] Cfr.
Charles Taylor, Irreducibly Social Goods,
in Geoffrey Brennan, Cliff Walsh, Rationality,
Individualism and Public Policy, Australian National University, Canberra
1990, pp. 45-63; ora in Charles Taylor,
Philosophical Arguments, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1995,
pp. 127-145; tr. it. di Paolo Costa, Beni
irriducibilmente sociali, in Charles Taylor, Etica e umanità, Vita e Pensiero, Milano 2004, pp. 251-275. Il
rimando è in particolare alle pp. 257-261.
[21] Cfr.
anche i saggi Atomism e What’s wrong with negative liberty? in
Charles Taylor, Philosophy and the Human
Sciences. Philosophical papers 2, Cambridge University Press, Cambridge
1985, pp. 187-229.
[22] Metaph. Z4, 1030a 10-15.
[23] «Sostanza è quella detta nel senso più
proprio e in senso primario e principalmente, la quale né si dice di qualche
soggetto né è in qualche soggetto: ad esempio, un certo uomo o un certo
cavallo» (Cat. I, 5, 2a 11-13).
[24] Cfr. Cat.
I, 5, 2b 6.
[25] G. Movia, Introduzione, in Aristotele, L’anima,
Bompiani, Milano 2001, p. 26.
[26] EE II,
1, 1219a 4.
[27] EE, Rizzoli,
Milano 2012, p. 365.
[28] M. Zanatta, nota 1 a EN, I, 6,
Rizzoli, Milano 1986, p. 407.
[29] Metafisica Θ, 8, 1050a 7-9.
[30] Metafisica Θ, 6, 1048a 32.
[31] E. Berti, Aristotele: dalla dialettica
alla filosofia prima, cit. in G. Reale, Introduzione, in Aristotele,
Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, p. XVII.
[32] EN
I, 5, 1097b 11, Politica I, 2, 1253a 2
[33] EN II, 6, 1107a 1; cfr. Alasdair MacIntyre, Rival Aristoteles: 1. Aristotle against some
Renaissance Aristotelians, 2. Aristotle against some modern Aristotelians,
Brian O’Neill Memorial Lecture in the History of Philosophy, 1997/98,
Department of Philosophy, University of New Mexico 2000; ora in Id., Ethics and Politics. Selected
essays, Volume 2, Cambridge
University Press, Cambridge 2006, pp. 3-40.
[34] Per tutte queste considerazioni cfr. Cat. 4-6, 17a 1-30.
[35] Cfr. Paolo Crivelli, Aristotle on truth, Cambridge University Press, Cambridge 2004, p.
18, p. 103.
[36] Cfr. Metaph.
Θ10, 1051b 17-30. Se x è un ente
semplice, la conoscenza intuitiva di x implicherà
l’affermazione esistenziale ‘x esiste’,
che potrà essere unicamente vera, poiché la conoscenza di un ente semplice, nel
momento in cui è conoscenza, non può essere sbagliata (è impossibile, infatti,
predicare di un ente semplice qualcosa che non gli appartenga); dal momento che
x è eterno, poi, non potrà darsi
nemmeno il caso in cui il nome ‘x’
non abbia una corrispondenza nella realtà.
[37] Mi discosto, in ciò, da quanto affermato in
Paolo Crivelli, Aristotle cit., p.
20.
[39] Alasdair
MacIntyre, Rival Aristotles cit., p.
37.
[40] EN II,
6, 1107a 1.
[41] Questo punto verrà chiarito meglio in
seguito.
[42] Nel seguito del testo, correndo il rischio
di imprecisione, utilizzerò prevalentemente il termine «liberalismo» per
indicare questo specifico «liberalismo della neutralità».