Il giovane Karl Marx, dottore in filosofia immerso in un ambiente culturale di stampo hegeliano, dedica i suoi primi sforzi teorici all’elaborazione di un approccio critico al tema delle forme politiche emerse con il trionfo della borghesia e dell’ideologia che esse portano con sé. Se quest’ultima ha le sue radici nel contrattualismo del XVII secolo, la concretizzazione di quelle organizzazioni statali che egli prende di mira si sono storicamente date dopo le grandi rivoluzioni in Inghilterra, nell’America del Nord e in Francia, e poi via via nel resto dei paesi occidentali.
Anche se Marx all’epoca non aveva ancora elaborato il cosiddetto «materialismo storico», nei suoi scritti emerge già una scrupolosa attenzione per la differenziazione dei contesti nazionali e per la separazione analitica del dato materiale dall’elaborazione simbolica che da esso deriva.
La sua prima elaborata «critica» si rivolge a Hegel, dei cui Lineamenti di filosofia del diritto egli compie un’accurata decostruzione, seppur limitata ad alcuni paragrafi. Non si può certo dire che Hegel fosse un ideologo della borghesia, già soltanto per il fatto che egli era espressione filosofica di un paese - la Germania - assai «arretrato» dal punto di vista politico e sociale, dove convivevano residui di un passato che il Weltgeist stava ormai superando con elementi di una borghesia incapace di azione rivoluzionaria perché ancora minoritaria e priva di reale influenza politica[1]. Hegel aveva anzi contribuito, secondo Marx, ad intendere correttamente lo Stato, innanzitutto per via della distinzione di Stato e Società civile[2], ma anche per la concezione del corpo politico come un organismo dinamico, per il rifiuto del modello contrattualistico, eccetera.
Ma dove sono i meriti di Hegel, là stanno anche i suoi limiti, superando i quali soltanto si può pervenire ad una teoria dello Stato efficace e coerente: per questo Marx critica Hegel. Quest’ultimo aveva colto come con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese fosse stato interamente dissolto il mondo precedente e come con esso fosse crollato «l’intero sistema di quelle potenze spirituali che si organizzava e si manteneva mediante la divisione in masse». Nell’epoca scaturita da questa frattura storica Hegel aveva individuato il trionfo della «coscienza singolare» che, «rimosso il proprio limite», costituito dall’organizzazione feudale della società (corporazioni, rapporti di dipendenza personale, organizzazione piramidale del potere, ecc.), poteva cogliersi come espressione di una volontà universale, laddove «emerge come [l’] attività del Tutto [sia] l’attività immediata e consapevole di Ciascuno»[3].
Con l’emergere dell’individualità si instaura una dialettica tra il particolare e l’universale, che Adam Smith aveva descritto dal punto di vista dell’economia di mercato, all’interno della quale ciascuno agisce per il proprio interesse personale compiendo al contempo un’opera utile a tutti. Nella società civile, infatti, secondo Hegel «l’egoismo soggettivo si rovescia nel contributo all’appagamento dei bisogni di tutti gli altri»[4].
Ma, accanto a questa eterogenesi dei fini privati in fini universali, la coscienza singolare deve altresì elevarsi alla determinazione consapevole del proprio «sapere, volere e fare» come universale, poiché essa intende questo universale come «mezzo», e soltanto grazie alla coscienza il suo fine (l’interesse privato) può trovare compimento. È così che la singolarità si «innalza» alla «libertà formale e all’universalità formale del sapere e volere»[5]. Si tratta, come spiega Hegel, di una forma intellettuale di universalità, ancora astratta e indeterminata, non ancora razionale, e tuttavia momento necessario dell’Idea ed espressione dell’essere per sé dello Spirito.
Questa universalità astratta trova la sua espressione nel diritto statale: qui «l’universale, questo spirito morto frantumato negli atomi della molteplicità assoluta degli individui, è un’ uguaglianza in cui Tutti hanno il valore di Ciascuno, valgono cioè come persone»[6].
Su queste basi, lo Stato risulta immediata emanazione della società civile, e non ancora distinto da essa: il suo scopo è allora inteso come la «protezione della proprietà e della libertà personale»[7], come infatti avevano teorizzato i contrattualisti. Emblema di questa posizione è infatti John Locke, che Marx definisce «uno dei decani della moderna economia politica»[8], secondo il quale la società esiste al solo scopo della «conservazione della proprietà di tutti i membri»[9].
Il momento non più «formale» e «intellettuale», ma «sostanziale» e «razionale» della volontà è dato soltanto dallo Stato inteso come superiore determinazione dell’eticità, nella quale la volontà e la libertà del singolo trovano il suo compimento perché vengono a coincidere con la volontà universale, la quale perciò non è più mediatrice, ma «assoluto fine mobile in se stesso»[10].
Per esprimere chiaramente la concezione hegeliana dello Stato può essere utile fare riferimento ad un autore a lui molto caro, ossia Spinoza, il quale nella sua Ethica scrive: «nulla di più eccellente per conservare il proprio essere gli uomini possono desiderare se non che tutti si accordino in tutto in modo che le Menti e i Corpi di tutti formino quasi una sola Mente ed un solo Corpo»[11].
Hegel, tuttavia, a differenza di Spinoza, ritiene che tale unità possa essere espressa soltanto da una forma di monarchia, in quanto «affinché l’universale giunga a un atto, è necessario che si concentri nell’Uno dell’individualità e che collochi al vertice un’autocoscienza singola»[12]. La «pienamente concreta oggettività della volontà» si esprime perciò nell’ «io voglio»[13] della concreta persona del monarca. Dal massimo dell’astrattezza – l’Idea dello Stato – Hegel precipita, secondo un’espressione della critica marxiana, nel «più crasso materialismo» ponendo il monarca quale espressione della volontà generale; la qual cosa, peraltro, non porta secondo Marx ad alcun progresso rispetto al diritto astratto: soltanto come «personalità astratta» il monarca è la «personalità dello Stato»[14].
Nella Fenomenologia dello Spirito Hegel illustra come l’eticità greca, nella quale lo Spirito si dà soltanto nella sua immediatezza (in sé), doveva tramontare nella figura successiva dello Stato giuridico, il momento dell’eticità essente per sé, in cui lo Spirito universale è «disperso nella singolarità»[15]. La risoluzione dialettica di questi due momenti doveva essere, per Hegel, la monarchia costituzionale, lo Stato etico germanico, nel quale l’eticità sarebbe «risorta» ad un grado superiore, come Spirito consapevole di se stesso (in sé e per sé)[16].
Proprio qui si inserisce il punto decisivo della critica di Marx, il quale – è bene ricordarlo - nel 1843 è ancora filosofo di marca hegeliana. Infatti egli critica i Lineamenti con parametri filosofici interamente hegeliani: egli apprezza lo sforzo del «maestro» di conciliare l’atomismo della società civile con la volontà unica del collettivo, ma rileva come questo tentativo sia infecondo in quanto la proposta politica di Hegel, oltre che una santificazione dell’esistente, non è sufficientemente dialettica, non è espressione di una Aufhebung compiuta, in quanto Hegel tenta di compierla recuperando elementi del passato (come gli «stati» medievali, il maggiorascato, la monarchia) e tentando infruttuosamente di conciliarli con le esigenze dirompenti della società civile, la quale è espressione diretta della classe borghese. Quest’ultima è per sua stessa natura portata a «rivoluzionare continuamente […] tutti i rapporti sociali»; con il suo avvento «si dissolvono tutti i rapporti stabiliti e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi»[17]. È perciò impensabile la conciliazione tra le forze dinamiche che provengono dalla nuova epoca e le istanze conservative dei vecchi ceti. Per Marx, il tedesco Hegel non è riuscito a comprendere la reale portata storica della rivoluzione borghese; si è limitato coglierne le conseguenze per il mondo astratto dello Spirito, senza riuscire a coglierne le implicazioni materiali. In questo senso Marx scrive, nell’Introduzione alla critica dei Lineamenti (pubblicata però l’anno successivo, sull’unico numero degli Annali franco-tedeschi), che «lo status quo della scienza statale tedesca esprime l’incompiutezza dello Stato moderno»[18].
La ricomposizione dell’eticità compiuta da Hegel, lungi dall’essere un superamento dialettico dei momenti precedenti, è soltanto «qualcosa di infelicemente ibrido», derivato dall’interpretare una «antiquata concezione del mondo nel senso di una moderna»[19]. La conseguenza di ciò è che tutta l’opera hegeliana è intessuta di contraddizioni e di soluzioni fittizie, così sintetizzabili[20]:
1. da una parte, Hegel presuppone la separazione di Stato e società civile e la assolutizza sviluppandola come momento necessario dell’Idea; dall’altra parte «egli non vuole nessuna separazione della vita civile dalla vita politica»;
2. da una parte, egli intende gli «stati» come espressione dei diversi interessi della società civile, dall’altra parte vuole che i loro rappresentanti all’interno del potere legislativo pervengano ad una improbabile unità d’intenti.
Sfruttando il metodo critico feuerbachiano, Marx nota come Hegel inverta il reale rapporto tra soggetto e predicato, laddove sostiene che lo Stato determina la società civile (l’unità dei suoi interessi), mentre in realtà è proprio il contrario. Il legame reale dei membri della bürgerliche Gesellschaft è «la vita civile, e non la vita politica» (Sacra Famiglia, in Donaggio p. 53, corsivo mio): il «sistema dei bisogni» è del tutto autonomo dalla politica, come ha mostrato l’economia politica, e «solo la superstizione politica immagina ancora oggi che la vita civile debba di necessità essere tenuta insieme dallo stato»[21]. Il modo di produzione capitalistico, infatti, con la sua esigenza di costituzione di un «mercato mondiale» e la sua subordinazione di ogni elemento nazionale al volere della circolazione delle merci e dei capitali, sottomette alla sfera economica il potere politico, riducendolo a puro mezzo, sicché «il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese»[22].
Per occultare questo suo carattere parziale, il diritto assume quella forma dell’universalità astratta che Hegel aveva individuato, riferendosi all’uomo in quanto «persona», cioè facendo astrazione dalle sue condizione empiriche e materiali di esistenza. L’opposizione tra la personalità astratta del diritto e l’uomo in carne ed ossa corrisponde esattamente all’opposizione istituita da Hegel tra Stato e società civile e può essere espressa nei termini della contrapposizione tra il citoyen e il bourgeois, secondo la terminologia francese desunta da Constant e esplicitamente richiamata da Marx in diversi luoghi.
Dal punto di vista filosofico, si può ricondurre questa scissione a Kant, che non a caso era considerato già all’epoca come l’espressione filosofica più matura del portato storico della Rivoluzione francese. Marx nota – nell’Ideologia tedesca – come la filosofia politica kantiana sia la formulazione teorica degli interessi peculiari della borghesia, separati però dal loro fondamento storico-materiale e perciò assolutizzati nella forma di autodeterminazioni della volontà libera assoluta[23].
Per Kant il bourgeois è il cittadino della città, e così inteso non è titolare del diritto di voto, e dunque non è citoyen, cioè cittadino dello Stato[24]. Le due figure dunque sono fenomenicamente diverse, e tuttavia «questa diseguaglianza» non è contraria «alla libertà e all’uguaglianza dei medesimi come uomini»[25], ossia considerati dal punto di vista noumenico. Ed è proprio da quest’ultimo punto di vista che Kant fonda tanto il diritto quanto la morale: egli dichiara metodologicamente, all’inizio della sua opera sul diritto, che «non si può fondare la metafisica dei costumi sull’antropologia»[26], il che equivale a dire che non si può fondare il diritto (che è quanto qui ci interessa) sulle differenze empiriche degli uomini, ma si può soltanto fare astrazione da esse. Per questo il diritto kantiano (e con esso il diritto dello Stato liberale moderno) resta puramente formale, come anche Hegel nota a più riprese.
La differenza tra lo Stato e la società civile si presenta per Marx come una contraddizione che può essere risolta soltanto tramite una rimozione (Aufhebung) di entrambi gli elementi in una determinazione superiore, come vedremo oltre. Tale contraddizione si manifesta nel fatto che ciò che il diritto dichiara come indifferente è in realtà elemento differenziante all’interno della società civile.
A suo modo, lo Stato abolisce le differenze di nascita, di ceto, di istruzione, di professione quando dichiara le differenze di nascita, ceto, istruzione e professione quali differenze non politiche, quando senza riguardo per queste differenze proclama ogni membro del popolo partecipe in egual misura della sovranità popolare […]. Nondimeno, lo Stato lascia che proprietà privata, istruzione e professione agiscano e facciano valere la propria essenza particolare a loro modo, cioè come proprietà privata, come istruzione, come professione. Lungi dall’abolire tali differenze di fatto, lo Stato esiste piuttosto solo presupponendole, esso si percepisce come Stato politico e fa valere la propria universalità solo in opposizione a questi suoi elementi. […] Tutti i presupposti di questa vita egoistica permangono inalterati al di fuori della fera statale, nella società civile.[27]
In tal modo, secondo le parole della Critica alla filosofia hegeliana del diritto, «come i cristiani sono eguali in cielo e ineguali in terra, così i singoli membri del popolo sono eguali nel cielo del loro mondo politico e ineguali nell’esistenza terrestre della società»[28]. Riecheggia in questa formulazione l’umanesimo feuerbachiano e la teoria di matrice hegeliana dell’alienazione dell’essenza umana. Come per Feuerbach Dio non è altro che la creazione dell’uomo che aliena la propria essenza in un essere Altro, così il diritto formale è l’alienazione della reale essenza comunitaria degli individui.
«La rivoluzione politica – scrive Marx nello scritto su La questione ebraica – abolì il carattere politico della società civile»[29]. Nel Medioevo, infatti, non sussisteva alcuna differenza tra le classi della società civile e le classi «in senso politico»: l’esistenza delle classi sociali «era l’esistenza dello Stato. […] L’attività legislativa generale degli stati della società civile non era affatto un’accessione della classe privata a un significato e a un’attività politici [come sarebbe nel modello statale hegeliano], ma piuttosto una mera emanazione del loro significato e della loro attività politici reali e generali»[30]. È proprio questa immediata valenza politica dei ceti medievali che Hegel tenta di restaurare all’interno dello Stato moderno, in cui la scissione è però insanabile.
La «trasformazione delle classi politiche in sociali» fu portata a compimento dalla Rivoluzione francese[31], in seguito alla quale «la determinata attività e la determinata situazione di vita si ridussero ad un significato puramente individuale»[32]. Nel Medioevo l’appartenenza di un individuo ad una classe ne esprimeva immediatamente l’identità e il ruolo politico, mentre le classi sociali moderne si differenziano ulteriormente al loro interno, in quanto individui che compiano lo stesso mestiere non necessariamente godono della medesima condizione sociale: il principio capitalista della concorrenza, infatti, rende competitivi tra loro i singoli individui al pari delle merci sul mercato. Se, perciò, il modo di produzione feudale faceva coincidere immediatamente l’uomo «con la sua determinatezza», separandolo dal suo «essere generale»[33], al contrario il tempo moderno fa della condizione materiale dell’individuo qualcosa di «soltanto esteriore» e non determinante[34], permettendo al diritto formale di dichiarare tutti eguali innanzi a se stesso.
L’esposizione chiara delle cause storico-materiali di questo mutamento sociale si trova nell’Ideologia tedesca, il testo teorico fondamentale di fondazione dello specifico materialismo marxiano (con presa di distanza da Feuerbach, già dichiarata, del resto, nei Manoscritti economico-filosofici, in cui si compie il passaggio dal materialismo «statico» all’«umanismo», che coincide con quello che nell’Ideologia tedesca sarà chiamato «materialismo pratico»[35]).
L’assunto fondamentale del materialismo pratico è che tutto ciò che l’uomo esperisce in ciascuno dei gradini della coscienza hegeliana (dalla certezza sensibile all’autocoscienza) è il prodotto storicamente determinato di circostanze materiali date dallo sviluppo delle forze di produzione e dei conseguenti rapporti di produzione: «la produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza è anzitutto direttamente connessa con l’attività materiale e con i rapporti materiali tra gli uomini, espressione della loro concreta esistenza»[36]. Per quanto riguarda il discorso che stiamo conducendo, questo ci interessa perché anche lo Stato, che per Hegel era l’oggettivazione dello Spirito, non è altro che espressione della «struttura» materiale, empiricamente conoscibile, del mondo sociale. Lo Stato moderno nasce perciò dalla peculiare forma della proprietà o, il che è lo stesso, della divisione del lavoro che si è storicamente data con l’avvento della borghesia quale classe dominante.
La divisione del lavoro origina immediatamente «la contraddizione tra l’interesse dell’individuo singolo, o della famiglia singola [id est dell’individuo della società civile], e l’interesse generale di tutti quanti i soggetti che intrattengono relazioni reciproche [id est dello Stato]»[37]. L’interesse collettivo dei singoli borghesi in competizione deve trovare una stabile tutela, e così «assume una struttura a sé stante nella forma dello Stato»[38]. Gli interessi della classe dei proprietari sono perciò spacciati per interessi universali, sicché lo Stato si costituisce nella forma di una «comunità illusoria». La stessa categoria giuridica di «proprietà privata» cela la vera realtà dei rapporti di classe, in quanto dal punto di vista del diritto anche i proletari sono «proprietari», mentre in realtà essi non posseggono altro che la propria «forza lavoro» da vendere come una merce pari alle altre sul mercato. Secondo i meccanismi dell’economia capitalistica, infatti, la proprietà reale corrisponde al valore di scambio, poiché un oggetto che abbia perso quest’ultimo, quand’anche mantenesse per il possessore un valore d’uso, non sarebbe un possibile oggetto di mercato e perciò, dal punto di vista economico, non avrebbe più alcun valore[39]. Siccome il modo di produzione capitalistico è strutturato in maniera tale per cui i produttori non sono possessori del prodotto del loro lavoro, i proletari sono spogliati di ogni autentica proprietà, ed hanno diritto ad essa soltanto nel «cielo della politica».
Emerge così nitidamente come né lo Stato né il diritto siano espressione della libera volontà (come vorrebbero, tra gli altri, Rousseau e Kant, cui Marx fa esplicito riferimento), bensì risultino di necessità dai rapporti di produzione. In questo senso «le espressioni liberali sono la manifestazione idealistica degli interessi concreti della classe borghese»[40].
Nell’Ideologia tedesca si può leggere un’esposizione materialistica dell’evoluzione storica delle diverse forme di proprietà, alle quali Marx fa corrispondere le diverse forme di organizzazione politica. Torniamo però alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, dove questa evoluzione storica, presentata sinteticamente, emerge nella sua elaborazione dialettica di matrice schiettamente hegeliana[41].
Nell’antichità asiatica la volontà politica si esprime nell’arbitrio di un singolo individuo, che sottomette a sé tanto la sfera politica (i suoi funzionari) quanto la sfera materiale (i sudditi). Nell’antichità greca, il numero di cittadini si estende in corrispondenza dell’avvento della democrazia: per chi ha il diritto di cittadinanza gli affari privati e il bene comune dello Stato coincidono, mentre l’uomo privato, che non ha tale diritto, è ancora schiavo. Nel Medioevo, come si è visto sopra, i ceti politici e i ceti sociali coincidono, e anche i servi della gleba hanno un’espressività politica, dal momento che il loro soggiogamento contribuisce al mantenimento della gerarchia di potere propria dell’età feudale.
Nel Medioevo «l’uomo è il reale principio dello Stato, ma l’uomo non-libero»[42]. Si può intendere, senza forzare il testo marxiano, il Medioevo quale unità immediata dei due elementi della società civile[43] e dello Stato politico, unità che si dà ancora in sé e in maniera inconsapevole. Hegelianamente, allora, costituisce un progresso storico necessario il fatto che tale unità sia pervenuta alla scissione nella società moderna. Ma mentre Hegel pretendeva di restaurare l’unità perduta con un «ibrido» fra la prima e la seconda figura[44], Marx compie finalmente l’autentica Aufhebung indicando la democrazia quale elemento di ricomposizione in cui l’unità diviene in sé e per sé, consapevole di se stessa.
Occorre allora chiarire in cosa consista questa forma di democrazia in cui Marx intravede la risoluzione del conflitto proprio della società moderna.
Solo quando l’uomo reale ed individuale riassumerà in sé il cittadino astratto e, quale uomo individuale nella sua vita empirica, nel suo lavoro individuale, nelle sue condizioni individuali, sarà divenuto membro della collettività, solo quando l’uomo avrà riconosciuto e organizzato le sue forces propres come forze sociali, e dunque non separerà più da sé la forza sociale nella figura della forza politica, solo allora sarà compiuta l’emancipazione umana.[45]
Così si chiude la replica marxiana allo scritto sulla questione ebraica di Bruno Bauer. La democrazia di cui parla Marx nella Critica dev’essere perciò intesa come la realizzazione compiuta dell’emancipazione umana, di contro all’emancipazione unicamente politica, data dalle rivoluzioni borghesi[46]. Ma Marx presta attenzione anche alla democrazia repubblicana, intesa come rapporto tra la società civile e lo Stato mediato dalla rappresentanza e dunque dall’elezione attiva e passiva. L’omonimia delle due forme rende il testo controverso. Non diamo qui conto delle possibili interpretazioni, ma ci limitiamo ad avanzare quella che ci sembra più probabile.
Marx caratterizza la «repubblica» come «la democrazia all’interno della forma politica astratta»[47]; perciò la questione dibattuta sul numero di coloro che devono partecipare alle decisione dello Stato è «una questione all’interno dell’astrazione dello Stato politico»[48], come viene ribadito anche nell’Ideologia tedesca. Marx nota come questo problema sorga soltanto dal momento che si concepisce il potere legislativo come «totalità dello Stato politico»[49]. Infatti, nell’astrazione dello Stato dalle condizioni materiali degli uomini, ciò che questi ultimi compiono nella loro esistenza ordinaria è del tutto irrilevante dal punto di vista politico: l’attività umana è relegata nell’ambito della società civile e regolata dalla concorrenza sul mercato; perciò, l’unica attività che viene concepita come politica è quella legislativa. È naturale, allora, che i membri della società civile aspirino a «penetrare in massa»[50] nel potere legislativo, perché soltanto così essi possono assumere un significato politico. Ma ciò è immediatamente contraddittorio, perché «la società civile rinuncerebbe a sé, se tutti fossero legislatori»[51]; ecco allora che l’unico metodo che resta alla società borghese di esprimersi politicamente è la partecipazione al potere legislativo «mediante deputati». Soltanto mediante il suffragio universale «la società civile si solleva realmente all’astrazione da se stessa»[52].
Il suffragio universale, sia attivo che passivo, costituisce pertanto il massimo grado dell’emancipazione politica. Quest’ultima «è certo un grande progresso», tuttavia non è «l’ultima forma di emancipazione umana in assoluto, ma è l’ultima forma di emancipazione umana all’interno dell’attuale ordine del mondo»[53].
Forma di emancipazione parziale, il suffragio universale pone tuttavia le condizioni per il suo stesso superamento: «il compimento [Aufhebung] di questa astrazione è al contempo la soppressione dell’astrazione»[54]. Esattamente come, nell’ambito della struttura materiale, il modo di produzione capitalistico contiene in sé il germe della società futura di cui pone le condizioni, così lo Stato moderno rappresentativo, che è la forma istituzionale più evoluta all’interno della società borghese, contiene in sé e pone le condizioni per il compimento dell’emancipazione completa.
Quest’idea riemergerà in diverse occasioni negli scritti di Marx e di Engels. Essi sono infatti convinti della possibilità di una transizione democratica al socialismo, basata sull’ottenimento della maggioranza ad opera del partito comunista all’interno di un sistema parlamentare repubblicano. La stessa forma di repubblica democratica è anzi intesa come precondizione per l’instaurazione della «dittatura del proletariato»[55]. Se in paesi come gli Stati Uniti, l’Inghilterra o la Francia era possibile supporre una transizione pacifica al socialismo, in una paese arretrato come la Germania era impensabile perfino giungere allo stadio intermedio della repubblica senza una rivoluzione[56]. Verosimilmente è per questa ragione che nel Manifesto del 1848 si auspica per la Germania un’alleanza tra i proletari e i borghesi, a sostegno di una rivoluzione borghese che svecchi finalmente il paese, portando in esso le moderne forze produttive e la corrispettiva forma politica, per porre le condizioni di una rivoluzione comunista che sarebbe seguita immediatamente[57].
Ciò non esclude, naturalmente, che in seguito Marx si sia ricreduto sulla possibilità di un’alleanza con la borghesia contro i residui della vecchia società, constatando come la borghesia riuscirà, dopo i movimenti rivoluzionari del 1848, a trovare «un compromesso con l’ancien régime, compromesso che neutralizzerà la sua capacità politica ma che le lascerà le mani libere a livello dello sviluppo economico»[58]. Tuttavia, se lo scritto engelsiano citato, che è del 1891, continua ad essere fedele all’idea del passaggio necessario alla repubblica democratica come «forma specifica per la dittatura del proletariato», è probabile che l’abbandono dell’idea di un’alleanza borghese non ha significato l’abbandono dell’idea della presa del potere statale, anche se, come ha notato Hannah Arendt, nell’opera marxiana e nell’iniziativa dei movimenti marxisti della storia si è sempre data la contraddizione tra l’istanza partitica e la presa del potere all’interno della forma-Stato da una parte, e gli sforzi volti alla costituzione di un potere operaio autogestito, sull’esempio della Comune di Parigi, dall’altra[59].
Per tornare, in conclusione, alla democrazia reale illustrata dalla Critica alla filosofia hegeliana del diritto come «essenza di ogni costituzione poltica», essa si configura, come si è detto, come il superamento dialettico della scissione tra Stato politico e società civile. In tale democrazia ogni attività pratica dell’uomo dovrà avere un significato politico e ciascuno sarà rappresentativo di tutti in quanto la sua attività sarà volta alla soddisfazione di una «bisogno sociale». L’attività legislativa sarà perciò soltanto una tra le tante, non separata dall’esistenza materiale degli individui: è in questo significato che va intesa la famosa istanze dell’«estinzione dello Stato» nella società comunista[60].
Pertanto è assai verosimile, in base a quanto abbiamo sostenuto, che questa democrazia dell’avvenire non si differenzi affatto dalla «comunità» nella quale «diviene possibile la libertà personale» di ciascuno, con quella società dell’avvenire che potrà «scrivere sulle sue bandiere: da ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!»[61]. Soltanto la distribuzione delle ricchezze indicata da questa celeberrima formula, infatti, potrebbe superare il diritto astratto borghese che, essendo «diritto eguale» nella forma, si rivela nel suo contenuto come «un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto»[62], non appena si infranga l’illusione politica e ci si rivolga all’«esistenza terrestre» degli uomini.
[1] Numerosi sono i luoghi in cui Marx ed Engels fanno riferimento all’arretratezza della Germania e alla peculiarità della sua situazione. In questa sede basti il rimando a EZK.
[2] bürgerliche Gesellschaft, sarebbe forse giusto tradurre con «società borghese», facendo riecheggiare il termine bourgois, in quanto essa è, appunto, la società del bourgois contrapposta allo Stato dei citoyens.
[3] G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano 20082, pp. 785-87.
[4] Id., Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 20106, § 199.
[5] Ivi, § 187.
[6] Id., Fenomenologia cit., p. 645. Si noti qui come il linguaggio impiegato nella descrizione della figura dello Stato giuridico corrisponda con quello adoperato nelle pagine sull’Illuminismo sopra citate (cfr. nota 3).
[7] Id., Lineamenti cit., §258.
[8] DI, p. 1465.
[9] J. Locke, Secondo trattato sul governo, VII, 88, in Id., Due trattati sul governo, a cura di L. Pareyson, UTET, Torino 20103.
[10] G. W. F. Hegel, Lineamenti cit., § 258.
[11] B. Spinoza, Etica, a cura di G. Durante, Bompiani, Milano 20093, Parte IV, prop. XVIII.
[12] G. W. F. Hegel, Fenomenologia cit., p. 791.
[13] Id., Lineamenti cit., § 279.
[14] ZKHR, p. 37.
[15] G. W. F. Hegel, Fenomenologia cit., p. 487.
[16] I tre momenti dell’eticità corrispondono alla trinità divina: l’eticità greca a Dio padre (in sé); la sua fine alla morte di Dio e all’epoca della coscienza infelice (cfr. ivi, p. 985); la sua restaurazione equivarrebbe perciò alla resurrezione di Dio e allo Spirito assoluto.
[17] MKP, p. 10.
[18] EZK.
[19] ZKHR, p. 97.
[20] Cfr. ivi, p. 87.
[21] K. Marx, La sacra famiglia, citazione tratta da K. Marx, Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso, a cura di E. Donaggio – P. Kammerer, Feltrinelli, Milano 2007, p. 53.
[22] MKP, p. 9.
[23] Cfr. DI, p. 701.
[24] I. Kant, Sul detto comune: qualcosa può essere giusto in teoria ma non vale per la prassi, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 20098, p. 130.
[25] Id., La metafisica dei costumi, a cura di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari 20069, p. 144.
[26] ivi., p. 18.
[27] ZJ, pp. 49-51.
[28] ZKHR, p. 93.
[29] ZJ, p. 87.
[30] ZKHR, p. 86.
[31] Ivi, p. 94.
[32] ZJ, p. 87. Si vede bene come questa descrizione degli esiti della Rivoluzione corrisponda a quella data da Hegel nella Fenomenologia (cfr. supra, p. 2).
[33] cioè generico, appartenente al genere umano senza alcuna determinazione specifica.
[34] ZKHR, pp. 95-96.
[35] Cfr. M. Cingoli, Marx e il materialismo in M. Musto, (a cura di), Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, Manifestolibri, Roma 2005, pp. 125-26.
[36] DI, p. 343.
[37] Ivi, p. 359.
[38] Ivi, p. 361.
[39] cfr. ivi, pp. 775-77.
[40] Ivi, p. 705.
[41] I diversi stadi illustrati da Marx ricalcano la descrizione storica dei «mondi» (orientale, greco, romano e germanico) data da Hegel al termine dei Lineamenti di filosofia del diritto e, assai più estesamente, nelle sue lezioni universitarie sulla filosofia della storia. Cfr. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G. Bonacina e L. Sichirollo, Laterza, Roma-Bari 20104.
[42] ZKHR, p. 44
[43] Anche se, propriamente, la società civile emerge soltanto con la borghesia, per estensione Marx usa tale termine anche per gli altri periodi storici.
[44] Cfr. supra, p. 4.
[45] ZJ, p. 91
[46] Cfr. EZK.
[47] ZKHR, p. 43.
[48] Ivi, p. 131.
[49] Ivi, p. 132.
[50] Ibidem.
[51] Ivi, p. 133.
[52] Ibidem.
[53] ZJ, p. 55.
[54] ZKHR, p. 135.
[55] Cfr. F. Engels, Per la critica del progetto di programma del partito socialdemocratico, in KGP, pp. 100 e ss.
[56] Cfr. ivi, pp. 98-99.
[57] Cfr. S. Kouvélakis, Marx e la critica della politica, in M. Musto, (a cura di), Sulle tracce cit., pp. 195-208.
[58] Ivi, p. 199.
[59] H. Arendt, Sulla rivoluzione, citazione tratta da G. Borrelli, La politica dei comunisti nei primi scritti di Karl Marx: tra governo repubblicano e dittatura di classe, in M. Musto, (a cura di), Sulle tracce cit., pp. 190-91.
[60] Cfr. ZKHR, p. 133.
[61] KGP, p. 32.
[62] Ivi, p. 31.
BIBLIOGRAFIA
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