martedì 20 marzo 2012

Luciano Canfora: che cos'è la democrazia?

Considerazioni spinoziane sulla democrazia

Di seguito, alcune considerazioni sulla differenza fra il pensiero politico di Spinoza e quello di Hobbes. Si fa riferimento soprattutto al filosofo olandese, ed in particolare all'edizione Bompiani (2004) del Trattato teologico-politico.

Spinoza, come Hobbes, propone l’esperimento mentale dello stato di natura per dare fondamento teorico alla società civile. Ma, mentre Hobbes suppone che in questo stadio pre-politico ciascun individuo vive dominato dalle passioni, nel continuo tentativo di appropriarsi di tutto ciò che può e di difendere strenuamente ciò che ha ottenuto, oltreché la sua stessa vita, per Spinoza, che mostra (complessivamente) un maggiore ottimismo antropologico, nello stato di natura vi sono individui che seguono la retta ragione. Tuttavia, Spinoza è costretto ad ammettere, esattamente come Hobbes, che nello stato di natura “nessuno… può essere certo della fedeltà dell’altro”, perciò tutti vivono nell’incertezza, nella paura e nell’odio reciproci, ed è dunque poco probabile che, anche colui che viva secondo la guida della ragione, non indulga ad atti di violenza, se non altro per difendere il proprio utile (cfr. p. 521). La costruzione teorica di Spinoza si rivela, sotto questo aspetto, meno coerente rispetto a quella di Hobbes (vedi il cap. XIII del Leviatano). Pare quasi che Spinoza che, in tutte le sue opere, dimostra di credere nella capacità della ragione umana di dominare le passioni (vedi la quinta parte dell’Etica), non possa concedere che, nello stato di natura, non vi sia nessuno che sia in grado di farlo. Ma è probabile che egli non abbia indugiato, nella sua opera, troppo a lungo su questo tema, semplicemente perché, come dichiara a più riprese, poco interessato ad una costruzione teorica sui fondamenti dello Stato (gli scopi del suo Trattato sono, in effetti, altri; vedi nota 221, p. 734).

Vi è, tuttavia, una questione prettamente politica sulla quale, per contro, il pensiero di Spinoza appare assai più aderente alla realtà di fatto che non quello di Hobbes, il quale ultimo si configura spesso come una gigantesca architettura teorica, coerente al suo interno, ma non sempre attenta all’effettività storica. Mi riferisco alle considerazioni svolte da Spinoza nei primi paragrafi del capitolo XVII, a principiare dall’affermazione secondo cui “nessuno potrà mai trasferire ad un altro la sua potenza, e di conseguenza il suo diritto, in modo tale da cessare di essere uomo; né si darà mai una suprema potestà tale che possa far eseguire tutto così come vuole” e perciò tutte le considerazioni relative all’istituzione, tramite patto, dello Stato (res publica), “non avverrà mai che esse non restino per molti aspetti pura teoria” (p. 549). Infatti, un potere che volesse regnare nel modo assoluto teorizzato da Hobbes, dovrebbe necessariamente fare violenza sul corpo e sull’animo dei sudditi, provocando in essi una tale ostilità da dover poi temere più essi che non i nemici. In altre parole, Spinoza sembra affermare che un potere assoluto, soprattutto se in mano ad una sola persona (secondo la preferenza di Hobbes), verrebbe inevitabilmente sovvertito a causa dell’odio dei sudditi, mancando così di realizzare lo scopo per il quale era stato istituito.

Va notato, tuttavia, che Spinoza è, al pari di Hobbes, teorico del potere assoluto e indivisibile (e perciò concorda con Hobbes anche per quanto riguarda l’unificazione del potere temporale e quello spirituale nella persona del sovrano); ma Spinoza propende nettamente per un potere democratico, considerato da lui più vicino allo stato di natura e più rispondente alla natura umana (p. 533), che non per la monarchia (infatti, se il potere è dato ad uno solo, è più facile che egli comandi secondo arbitrio e renda leggi delle assurdità, v. p. 531). La democrazia è intesa in due possibili modi da Spinoza: o come partecipazione collegiale di tutta la società al governo, o della maggior parte di essa. Tra coloro che partecipano al governo, poi, le decisioni verranno prese secondo il criterio della maggioranza.

Nelle pagine in cui tratta del governo, egli però si riferisce molto spesso alla suprema potestà che governa sui sudditi, al simile che governa sul simile, a cose, cioè, che non riguardano la democrazia. Quando tutta la società detiene collegialmente il potere, infatti, “tutti servono se stessi e nessuno è tenuto a servire il suo uguale” (p. 217). Questo mostra, secondo me, due cose: 1) Spinoza è idealmente teorico e sostenitore della democrazia diretta: “tutti detengono collegialmente il potere”, significa che, se di democrazia si tratta, non sono previste istituzioni di rappresentanza. Tuttavia, 2) il filosofo di Amsterdam tiene costantemente in considerazione la realtà storica e per questo sembra poco speranzoso che si realizzi una democrazia così intesa (che potrebbe concretizzarsi soltanto in comunità di ristrette dimensioni): egli dice “se possibile” (p. 217) la democrazia, questa è senz’altro la forma migliore di governo; tuttavia, come s’è detto, egli finisce poi col far prevalere una dicotomia tra governanti e governati che è, del resto, la dicotomia che ha storicamente prevalso.

Ma come può essere, Spinoza, insieme un teorico del potere assoluto e della democrazia diretta? Risponderò dicendo che il potere assoluto, com’è inteso anche da Hobbes, non è altro che il potere di fare le leggi e di farle rispettare. E’ chiaro che questo potere, privo di vincoli (ab-soluto, appunto), può divenire arbitrario, violento, prevaricatore, tirannico. Ma, mentre Hobbes afferma che il termine “tiranno” è stato introdotto con tono dispregiativo da chi non sopportava il peso dell’autorità e che non c’è differenza, politicamente, tra un “tiranno” e un “sovrano” (sia esso un monarca o un’assemblea), Spinoza afferma innanzitutto che il potere, se diviene arbitrario, si inimica i sudditi e non riesce a conservarsi e inoltre, che il potere, se è democratico, non è altro che la legge consensualmente approvata da tutti i membri della comunità politica. Il suddito di una monarchia è colui che obbedisce alle leggi del re, mentre un suddito di una democrazia (se si può ancora chiamare “suddito”), è un individuo che ammette come legge quella da lui stesso approvata (o approvata dalla maggioranza, secondo la regola del gioco cui lui stesso decide di partecipare) e dunque, in un certo senso, non fa che obbedire a se stesso, ciò alla sua ragione: ecco, finalmente, che il potere assoluto, in democrazia, altro non è che il potere assoluto della ragione, che guida le azioni del singolo e della collettività e che punisce le deviazioni per salvaguardare la comunità, distogliendo gli uomini dalle passioni irrazionali. La comunità, tramite la punizione di chi trasgredisce le regole da tutti ammesse, si tutela dalla possibilità sempre presente della disgregazione.

L’autorità coercitiva, in una comunità democratica così intesa, non va dunque identificata con un corpo istituzionale preposto alla repressione del dissenso (come avviene, invece, nelle società dove la democrazia diretta non è nemmeno un’ipotesi), ma è l’autorità della società nel suo complesso. Il corpo sociale si costituisce come una comunità morale e razionale che, nel suo insieme, si difende da chi cerca di romperne le regole. Questo è il suo potere assoluto: in democrazia esso non può essere arbitrario se non nella misura in cui può essere arbitraria una decisione collettivamente presa e sempre revocabile.

Tuttavia, non solo la società democratica, ma qualunque forma di governo, come è presentata da Spinoza, è molto più “aperta” di quella teorizzata da Hobbes. Ciò dimostra come il rigore logico dell’argomentazione del filosofo inglese sia solo apparente e che egli conduca il discorso esattamente là dove lo vuole condurre, mentre Spinoza, partendo dalle stesse premesse, e introducendo quella considerazione di carattere storico di cui si è detto (“nessuno potrà mai trasferire ad un altro la sua potenza…”), pone dei precisi limiti al potere. Anzi, è il potere stesso a porseli, in vista sia della sua mera conservazione (per utilità, dunque), sia per fedeltà al patto: se il patto aveva come fine la vita pacifica e sicura di tutti i membri della società, un sovrano non può giustamente agire usurpando i diritti naturali dei sudditi (mentre per Hobbes il sovrano era completamente esentato dalla fedeltà al patto): infatti “legge suprema” dello Stato è “la salvezza di tutto il popolo” a cui “tutte le leggi, tanto umane quanto divine, devono essere adattate” (p. 533 e 631). E da queste considerazioni, che limitano necessariamente il potere, segue la tesi principale del Trattato, ossia l’opportunità imprescindibile della libertà di pensiero, che si sintetizza efficacemente nell’affermazione finis ergo Reipublicae revera libertas est (“Il fine dello Stato, dunque, è la libertà”, p. 653).

Infine, l’argomentazione di Spinoza presenta un altro aspetto assente in Hobbes, che rende, ancora una volta, la costruzione di quest’ultimo un artificio teorico meno efficace rispetto al discorso spinoziano: si tratta della considerazione circa i mezzi attraverso i quali il potere ottiene che i sudditi deliberatamente si adeguino ai suoi principî. Potremmo dire, gli apparati simbolico-ideologici attraverso i quali il potere legittima se stesso. Spinoza è infatti convinto che “detiene il massimo potere chi regna sull’animo dei sudditi” (p. 553, corsivo mio) e non per niente fa riferimento, tra l’altro, ad Augusto (p. 557), il quale, notoriamente, proprio sulla propaganda ideologica fondò la stabilità del suo potere [(vedi Giorcelli)]. Ma occorre rilevare che questo subdolo mezzo di addomesticamento degli animi umani, che anche oggi è palesemente alla base dei nostri sistemi politici ed economici, non è necessario nell’ambito di una democrazia diretta. Spinoza, infatti, afferma che “se pochi o uno solo detengono il potere, questi devono avere qualcosa di superiore alla comune natura umana”. Ma, siccome ciò, secondo Spinoza, è impossibile, perché la natura umana, proprio in quanto natura, è universale, allora questi detentori del potere devono “adoperarsi con tutte le loro forze per convincere il volgo di tale superiorità” (p. 217). Mentre, in democrazia, “nessuno è tenuto a servire il suo uguale”, perciò tutto ciò non è necessario. Può essere interessante, qui, aprire un parallelo con la Repubblica di Platone. E’ noto che, secondo il filosofo greco, la gerarchia sociale si basa su differenze di natura: i governanti sono coloro la cui anima contiene un elemento “aureo”; mentre i contadini e gli artigiani hanno un animo “bronzeo”, eccetera. E, inoltre, Platone teorizza esplicitamente la necessità di convincere i sudditi di questa differenza (che è in verità un mito, una finzione del potere), coerentemente con la sua idea di giustizia, secondo la quale essa consiste nell’occupare ciascuno il proprio posto, svolgendo la funzione più adatta alla propria inclinazione naturale, senza volere turbare l’ordine sociale su questa basato.

Per Spinoza, questo dominio sugli animi è “violento”, poiché la libertà di pensiero e di giudizio è un diritto naturale di ciascuno “al quale nessuno, anche se volesse, può rinunciare” (p. 649). Proprio questa irriducibilità dell’animo umano rende, per quanto pervasivi, infine inefficaci i tentativi di sopprimere la libertà individuale; anzi, questi tentativi, sono per lo più disastrosi, sia per il progresso delle arti e delle scienze (che non possono progredire senza la libertà di pensiero) e dunque per il prestigio dello Stato, sia per la stabilità di quest’ultimo, come si è già detto.