domenica 25 dicembre 2011

La società capitalistica senza classi

Se è vero che l’appartenenza ad una classe sociale era strettamente legata al senso di appartenenza ad uno stato nazionale (cfr. Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano, 2006, pp. 189-190), si capisce come il declino degli stati nazionali nel mondo contemporaneo abbia favorito l’ulteriore atomizzazione degli individui e la totale rimozione di qualsiasi senso di appartenenza politico. Tale condizione “postmoderna” o “postindustriale” determinata dallo sviluppo del capitalismo pone la sfida di una nuova mappatura cognitiva della posizione dell’individuo in società, come propone Jameson. Solo in questo modo sarà possibile riguadagnare la capacità critica, e perciò l’azione e la lotta, “che al presente è neutralizzata dalla nostra confusione spaziale e sociale” (Jameson, Postmodernismo, o la logica culturale del tardo capitalismoo, Fazi, 2007, cap. I).

Ciò non significa recuperare l’ormai anacronistica distinzione marxiana tra borghesia e proletariato, e il concetto di lotta fra queste. Occorre rendersi conto che se è svanito il senso di appartenenza ad una classe, è svanita la classe stessa. Che cos’è, infatti, una classe sociale se non la condivisione di problemi, soluzioni e scopi tra uno strato di popolazione, in avversità ad un altro? Marx insegna che non può esistere una classe unica (una società con una classe unica è una società senza classi), ma soltanto diverse classi in conflitto. Ebbene, oggi questo elemento viene a mancare, proprio perché il conflitto di classe può avvenire solo all’interno di uno stato nazionale. Non per nulla la “rivoluzione permanente” teorizzata da Trotzkij non era intesa come rivoluzione immediata e contemporanea di tutti i proletari di tutti i paesi, ma come una sorta di rivoluzioni a catena, dilazionate nel tempo, e rese possibili da una solidarietà internazionale operaia.

Al giorno d’oggi la borghesia non può essere identificata con la classe dei detentori dei mezzi di produzione, contro la quale il proletariato industriale aveva da far valere le proprie ragioni. Questo per due ragioni: 1) oggi i mezzi della produzione non sono più i mezzi materiali della produzione industriale, ma sono i mezzi immateriali della produzione di denaro da denaro (se intendiamo con “mezzi di produzione”, in ultima analisi, i mezzi di accumulazione) e 2) chi li detiene è la cosiddetta “classe capitalistica transnazionale” (cfr. Luciano Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, Torino, 2009), i cui membri non necessariamente si identificano con grandi industriali (i quali soltanto detengono ancora dei mezzi di produzione materiali). In conflitto con gli interessi di questa classe transnazionale (che è però una contraddizione in termini, essendo ogni classe nazionale) vi sono i residui di quella che era la borghesia e tutto il corpo dei lavoratori e degli operai, fusi ormai insieme in un nuovo corpo sociale – l’unico a livello nazionale – il quale è ancora incapace di individuare sia i suoi reali interessi, sia chi ad essi si oppone, nonché di mettere in atto una strategia di resistenza e lotta (queste tre incapacità sono, del resto, una la conseguenza dell’altra). Alla radice del problema si pone il fatto che i componenti di questo corpo sociale non hanno coscienza di farne parte.

Mi pare dunque di poter individuare nella società contemporanea, da una parte un corpo sociale nazionale, estremamente variegato al suo interno, espropriato di qualsiasi potere in conseguenza dell'espropriazione del potere degli stati nazionali e dell'asservimento di questi ai tecnocrati della finanza internazionale; dall'altra l'esiguo numero di capitalisti detentori dei mezzi della produzione immateriale, che hanno una base sovranazionale e globale.

Possiamo dire, allora, che il capitalismo è giunto a determinare una “società senza classi”, purtroppo ben diversa da quella immaginata da Marx, in quanto, lungi dall’essere il regno della realizzazione delle libere individualità, è l’alienazione delle individualità reificate ed atomizzate, estesa all’intero tessuto sociale.

venerdì 23 dicembre 2011

Il doppio fondamento metafisico in Aristotele

Aristotele fonda la sua metafisica sul principio logico di identità e non-contraddizione. Egli infatti spende numerose pagine (o meglio, numerosi papiri!) della Metafisica a difendere, per via di confutazione, questo principio dal soggettivismo di Protagora che vorrebbe metterlo in dubbio. Il detto protagoreo (è qui irrilevante se la traduzione canonica sia corretta o meno) è la base non solo del relativismo, ma anche dell’individualismo, laddove ciascun individuo è isolato nell’unicità della propria percezione e non ha una ragione comune da condividere con i suoi simili. Aristotele, al contrario, che è un pensatore comunitario, ritiene che una metafisica sia necessaria e questa non può che basarsi sul principio di identità e non-contraddizione. Infatti la metafisica ha per oggetto ciò che è necessariamente, cioè ciò che è uguale a se stesso e che non può mai essere altro da ciò che è (a = a). Chiaramente l’essere supremo, che è necessariamente, è Dio, l’atto puro, motore immobile.

Aristotele non fonda su questo Essere altro che l’origine del moto, ma non è questo l’unico fondamento metafisico. Se nell’opera che gli editori successivi hanno intitolato, appunto, Metafisica, noi troviamo, in fin dei conti, una teologia, una scienza dell’essere in quanto essere, non dobbiamo farci trarre in inganno. In quel testo Aristotele va alla ricerca di una arché, di un fondamento ultimo di tutte le cose che sono e che si danno nel macrocosmo fisico. La “metafisica” etimologicamente non è altro che ciò che viene dopo la fisica: sia ha un mondo fisico caratterizzato dal moto e dal continuo divenire in atto di ciò che è in potenza e oltre a questo, come suo fondamento, si deve individuare un atto puro, origine del moto che caratterizza il mondo fisico.

Ma il macrocosmo fisico non è l’unica realtà: esiste anche il microcosmo sociale, il quale ovviamente non può essere fondato su un “atto puro”, poiché le sue caratteristiche sono ben diverse da quelle del cosmo fisico. Se il macrocosmo ha un fondamento meta-fisico (è fondato su qualcosa che è “oltre” il fisico, ed è un principio immutabile), possiamo dire che il microcosmo ha un fondamento meta-politico, qualcosa che è “oltre” il politico ed è, ancora una volta, un principio immutabile che noi chiamiamo metafisico per il significato che attribuiamo oggi a questa parola. Tale principio è la natura politica dell’uomo, che fonda la comunità in cui egli vive.

Probabilmente è per questa ragione che il primo libro della Metafisica ci presenta soltanto le tesi cosiddette “naturalistiche” dei presocratici (che andrebbero in realtà chiamate “metafisiche”, perché avevano davvero poco a che vedere con il naturalismo come lo intendiamo noi): Aristotele si apprestava a compiere una ricerca analoga, a fornire la sua risposta al problema del fondamento del macrocosmo che, essendo qualcosa di assolutamente imperscrutabile, si presentava come una questione tanto difficile e complessa (anche soltanto da esporre) da dover essere discussa a partire dalle tesi altrui. In fin dei conti Aristotele, analizzando queste tesi, le trova infondate semplicemente perché aporetiche o contraddittorie, e a partire dalla confutazione di queste tesi egli riesce a compiere una inferenza alla spiegazione migliore per parlare di una cosa di cui non si può e non si potrà mai avere alcuna esperienza. Nelle opere di etica e di politica Aristotele si occupa invece di qualcosa di molto più immediato, perché la comunità umana è qualcosa di cui ciascuno fa (faceva?) esperienza; forse è per questo che in quelle opere non si trovano esposizioni e confutazioni di tesi precedenti così dettagliate come nella Metafisica (anche se ovviamente non mancano).

Sintetizzando, non dobbiamo aspettarci di trovare nell’opera aristotelica intitolata Metafisica tutta la sua metafisica (nel senso attuale di questo termine): la metafisica aristotelica si può ben dire, a mio avviso, che fondi su Dio il macrocosmo e sull’uomo il microcosmo. Ma non sull’uomo individualisticamente inteso, bensì sulla sua natura. L’uomo non è una di quelle cose della forma “a = a” (altrimenti Aristotele non darebbe tanta importanza all’educazione e all’acquisizione di disposizioni etiche); di quella forma è però la sua natura, che lo costituisce quale essere comunitario dotato di linguaggio (elemento importantissimo perché non si può dare comunità senza linguaggio).

Ma che cos'è, esattamente, il microcosmo sociale? Mi pare che le seguenti parole lo spieghino molto bene.

«La polis, propriamente parlando, non è la città-stato in quanto situata fisicamente in un territorio; è l’organizzazione delle persone così come scaturisce dal loro agire e parlare insieme, e il suo autentico spazio si realizza fra le persone che vivono insieme a questo scopo, indipendentemente dal luogo in cui si trovano. “Ovunque andrete, voi sarete una polis”: queste parole famose non solo furono la parola d’ordine della colonizzazione greca, ma esprimevano la convinzione che l’azione e il discorso creano uno spazio tra i partecipanti che può trovare la propria collocazione pressoché in ogni tempo e in ogni luogo. E’ lo spazio dell’apparire, nel più vasto senso della parola: lo spazio dove appaio agli altri come gli altri appaiono a me, dove gli uomini non si limitano a esistere come le altre cose viventi o inanimate ma fanno la loro esplicita apparizione.

Questo spazio non esiste sempre, e benché tutti gli uomini siano capaci di azione e parola, la maggior parte – come lo schiavo, lo straniero e il barbaro nell’antichità, l’operaio o l’artigiano prima dell’età moderna, l’impiegato o l’uomo d’affari nel nostro mondo – non vive in esso. Inoltre nessun uomo può viverci per tutto il suo tempo. Esserne privati significa esser privati della realtà che, umanamente e politicamente parlando, si identifica con l’apparire. La realtà del mondo è garantita agli uomini dalla presenza degli altri, in breve dall’apparire del mondo stesso; “infatti ciò che appare a tutti, questo chiamiamo Essere” [Aristotele], e tutto ciò che manca di questa possibilità di apparire viene e passa come un sogno, intimamente ed esclusivamente proprio, ma privo di realtà. » (Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano, 2006, pp. 145-146)