Mi persuado sempre di più di quella verità piuttosto intuibile secondo cui non esistono valori assoluti ai quali fare riferimento in ambito etico, politico, religioso ecc. Non è detto che non ci sia una verità in questi ambiti, ma certo è impossibile averne accesso e se anche se ne avesse accesso sarebbe impossibile riconoscerlo, dovendo considerare che un valore ritenuto vero, anche se fosse vero, non sarebbe riconosciuto tale universalmente, perciò non sarebbe aggettivabile come oggettivo. Infatti – come rileva Gramsci in un passo dei Quaderni dal carcere – il concetto di “oggettività” è un concetto metafisico: è oggettivo ciò che è valutato allo stesso modo da tutti i soggetti, ciò che non significa che tale sarebbe anche per un marziano, o per un uomo di un' epoca differente dalla nostra.
Tuttavia mi pare che queste considerazioni non vadano estese a tutto il conoscibile, generando uno scetticismo piuttosto insostenibile. Come dice Wittgenstein nel Tractatus nel mondo ci sono fatti e di questi si può parlare e stabilire se le proposizioni su essi sono vere o false. Purtroppo, però, non ci sono fatti etici, i valori non sono fatti: sono “cose” che non stanno nel mondo e perciò non si può stabilire (verificare) se una proposizione in merito ad essi sia vera o falsa. E buona parte della filosofia ha perciò a che fare con questioni indecidibili, irrisolvibili. Non credo, però, che questo screditi il valore dell’indagine e non credo che, come suggerisce Wittgenstein, su questi argomenti si debba “tacere”: l’uomo naturalmente si interroga su siffatte questioni e del resto tutta la società, nel bene e nel male, si basa su tentativi di risposta ad essi. Certo non si potrà mai dire di aver fatto una scoperta in campo etico: solo gli scienziati lo possono fare, e tenendo ferma la consapevolezza che potrebbero essere in errore; tuttavia ci potrà ben essere qualche principio che appaia ragionevole, soprattutto utile. Lo dice Protagora: un accordo sull’utile può essere trovato tra gli uomini, sfruttando anche l’abile sofismo in grado di persuadere. Chiunque avanzi una proposta etica (o politica, religiosa ecc.) fa di tutto per oggettivare la sua tesi, per renderla appunto persuasiva, in maniera tale che sia considerata valida universalmente o quasi.
Si pensi a Marx: egli non parla di etica, non dice che è “ingiusto” il sistema capitalistico e che il proletariato deve lottare perché così realizza qualcosa di “buono”. Ma questo è il presupposto di tutta la sua indagine e proposta: che senso avrebbero le sue tesi se non partissero dalla constatazione (etica) di un’ingiustizia? Eppure egli sostituisce i termini etici con pretese di scientificità, di oggettività, appunto per renderle apparentemente più salde e vere, ciò che un precetto etico, di per sé, non può essere. Marx dice allora che nella società capitalistica ci sono delle “contraddizioni”, egli elabora una filosofia della storia che vede nella rivoluzione del proletariato un passaggio ineludibile dello sviluppo, che porti alla realizzazione dell’uomo nella società comunista non già perché ciò sia più giusto, ma perché solo così si potrà stabilire una società priva di conflitti e contraddizioni (la filosofia che si fa mondo). E' chiaro, però, come tutti questi tentativi di oggettivazione si siano rilevati fallimentari e ciò che resta oggi di Marx è sì la sua analisi del mondo reale, ma soprattutto la constatazione che l’uomo nella società capitalistica è alienato, mercificato, privato della sua dignità, non realizzato nella sua essenza; resta che è ingiusto lo sfruttamento del lavoratore (secondo le modalità da lui descritte); resta la critica dell’economia politica e dell’ideologia borghese, ma tutti gli aspetti di necessità oggettiva si sono frantumati nell’evidenza storica che ha smentito i suoi nobili tentativi.
Ma oggi c’è una questione che pone l’etica di fronte ad un problema oggettivo, a un fatto: la distruzione ambientale. Certo, c’è molto da interpretare, ma ci sono dati fattuali che dimostrano come l’accrescimento della temperatura globale proceda parallelo all’aumento delle emissioni di anidride carbonica; che i ghiacci si sciolgano e i laghi di Ciad evaporino e le risorse non rinnovabili siano vicine al loro “definitivo” (almeno in tempi umani) esaurimento sono fatti. Si potrà discutere sui metodi per affrontarli e risolverli, ma non si può eludere il problema e la relativa discussione. Allora oggi una proposta politica e etica dovrà tener conto di questo fattore e, anzi, potrà sfruttarlo come dato oggettivo da considerare come movente di una scelta. Questo potrebbe essere un punto di forza per una critica del modo attuale di produzione (non necessariamente rivoluzionaria o che) e per la proposta di un’alternativa. Certo è che la scelta di cambiamento potrà essere fatta basandosi unicamente su esigenze materiali, ma tanto basterebbe: l’azione non sarà etica, ma se il risultato sarà “buono”, utile, tanto bene lo stesso, e viva Protagora.
Riprendo ora una riflessione che feci al tempo della lettura sulla Critica della ragion pratica di Kant e della sua legge morale. Anch’egli riteneva di dover oggettivare l’etica, di dare una legge morale che valesse universalmente. Ma, a mio avviso, anche il suo tentativo fallì miseramente. Davvero è impossibile oggettivare l’etica, se non persuadendo della validità di certe tesi facendo perno archimedeo su dati fattuali. Segue, allora, questa mia “datata” riflessione.
Kant afferma, nel corollario e nello scolio della legge fondamentale della ragion pura pratica, che “la ragion pura è per sé sola pratica, e dà (all’uomo) una legge universale che noi chiamiamo legge morale” e che “occorre soltanto analizzare il giudizio che gli uomini fanno sulla conformità delle loro azioni alla legge”. Qualunque sia il giudizio, e “qualunque cosa l’inclinazione possa dire in contrario”, la ragione manterrà sempre “la massima della volontà salda nella volontà pura”, cioè il singolo, seguendo la ragione, non agirà contro la legge morale.
L’adeguatezza tra azione e morale dipende dal giudizio che l’uomo, mediante ragione, ne fa. Ma questo giudizio è pur sempre soggettivo. Mi pare che Kant, volendo affermare l’universalità della sua legge morale, supponga che anche la ragione pura pratica sia universale e la legge che questa impone a sé stessa viene ad essere, a mio avviso, una legge sì universale, ma non morale in senso assoluto, poiché la moralità di un’azione è soggettiva, dipendendo dalla valutazione del singolo rispetto a ciascuna, poiché la ragione non è universale, non esiste una ragione assoluta, a cui riferendosi si agisce necessariamente in un modo determinato.
“La legge morale – continua Kant – è dunque un imperativo che comanda categoricamente, perché la legge è incondizionata.” Ma l’imperativo (morale) dipende dall’idea soggettiva di moralità, per la quale una determinata azione può essere compiuta da un soggetto in maniera consapevole e ritenuta coerente con la legge fondamentale, mentre un altro soggetto può valutare quest’azione nella maniera opposta. Del resto, io credo, ciascun individuo ritiene, più o meno consapevolmente, di mantenere dei comportamenti corretti, anzi di comportarsi nel miglior modo possibile, pur riconoscendo a se stesso delle mancanze. Ciò perché, se si ritenesse di vivere in una maniera non corretta, si cercherebbe di cambiare, perché una persona non può vivere felicemente (l’obiettivo di tutti) se è in conflitto con se stessa. Dunque, o sarà del tutto indifferente a qualsiasi moralità (ma anche questa è una scelta che si riterrà giusta) oppure si sforzerà di vivere nella maniera migliore e si convincerà di agire e pensare, se non nel migliore dei modi, in maniera comunque encomiabile. Ora, una persona convinta di ciò, penserà che le sue azioni, se svolte secondo la propria ragione, saranno anche azioni morali, cioè rispetteranno l’imperativo categorico della ragione pura pratica, laddove, ammettendo come legge della ragione pura pratica una legge morale, morale e ragione pura pratica vengono a coincidere. Tant’è che Kant dice precisamente che “questo principio non prescrive a tutti gli esseri razionali le stesse regole pratiche, benché esse a dir vero stiano tutte sotto un titolo comune, cioè quello della felicità.” Ma è proprio qui il problema: non prescrivendo regole pratiche universali, è una legge generica e pertanto non oggettiva, cioè nell’adempimento di tale legge ciascuno potrà comportarsi in maniere anche antitetiche. Infatti, vero è che stanno tutte sotto il titolo della felicità, perché la volontà dell’uomo è indirizzata a quel fine, ma – e lo dice Kant – “è impossibile considerare questo problema [della felicità] come una legge, perché questa come oggettiva dovrebbe contenere in tutti i casi e per tutti gli esseri razionali lo stesso motivo determinante della volontà. Poiché sebbene il concetto della felicità sia dappertutto a base della relazione pratica degli oggetti con la facoltà di desiderare, pure esso è solo il carattere comune dei motivi determinanti soggettivi, e non determina niente in modo specifico.”
Per ricapitolare, la legge morale universale non impone regole pratiche universali, ma soltanto un principio, seguendo il quale l’uomo agirebbe moralmente. L’azione pratica morale, poi, come qualsiasi altra azione è dettata dalla volontà, la quale ha come fine la felicità. Il principio però è interpretabile soggettivamente proprio perchè la felicità “si riferisce a un sentimento soggettivo di piacere o dispiacere”. Se il fine è soggettivo, sarà soggettivo anche il mezzo. E allora, come può veramente indirizzare l’azione dell’uomo questa legge, e a cosa serve?
Forse se Kant avesse mantenuto, nella Critica della ragion pratica, le tre leggi morali che aveva proposto nei Prolegomeni, avrebbe mantenuto, insieme ad esse, il risvolto veramente pratico della ragion pura pratica, perdendo, però, in universalità.